'Collezionista' di opere d'arte e 'mercante' di opere d'arte, quali differenze?
30 Giugno 2021
Quali sono le conseguenze, ai fini impositivi, della vendita di oggetti d'arte?
Il precedente Testo Unico conteneva una norma, l'art. 76, 1° comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, secondo cui erano considerate “speculative” le plusvalenze derivanti dalla vendita di oggetti d'arte, qualora il periodo di tempo intercorrente tra l'acquisto e la vendita fosse non superiore ai due anni. Tale disposizione non figura più nell'attuale TUIR, sicchè in assenza di tale vuoto normativo occorre affidarsi ai chiarimenti resi dall'Agenzia delle Entrate ed alle decisioni rese dalla giurisprudenza.
Indicativamente possono delinearsi due “figure” in relazione alla vendita di opere d'arte:
Interessanti sono le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza, la quale ha tracciato i confini di cui all'art. 55 TUIR. La giurisprudenza (Cass., sent. n. 27211 del 20 dicembre 2006) ha ritenuto che un'attività economica, per essere inquadrata dal punto di vista fiscale tra quelle in grado di produrre reddito di impresa, deve essere caratterizzata, anzitutto, dalla professionalità e dall'abitualità.
Inoltre, come si ricava dall'incipit dell'art. 55 citato, si deve trattare pur sempre di un'impresa commerciale, mentre irrilevanti sono l'esercizio in forma di impresa e l'approntamento di una organizzazione di risorse umane, mezzi, beni ecc..
La giurisprudenza ha, altresì, rilevato che seppur le nozioni civilistica e fiscale di impresa commerciale divergano e non coincidano, tuttavia è altrettanto evidente, pena uno svuotamento del significato di impresa commerciale, che la stessa ai fini fiscali, nonostante non debba essere caratterizzata da una certa organizzazione, debba pur sempre essere programmata, preordinata fin dall'inizio, per il conseguimento di corrispettivi. Se si intendesse elidere dalla nozione fiscale di impresa commerciale anche tale caratteristica intrinseca e strutturale di ogni impresa commerciale, significherebbe giungere ad una definizione di impresa commerciale del tutto indistinta rispetto ad altri tipi di attività. Né si può ragionevolmente sostenere che i confini della nozione di impresa commerciale a fini fiscali siano unicamente quelli tracciati dalla seconda parte del primo comma dell'art. 55 citato, laddove il legislatore ha precisato che per impresa commerciale si intende l'esercizio di un'attività in forma professionale ed abituale. Non vi è, in altre parole, una piena ed esaustiva coincidenza tra professione abituale ed impresa commerciale. Ed infatti, lo stesso art. 55 TUIR aggiunge che si deve trattare dello svolgimento professionale ed abituale di una delle attività di cui all'art. 2195 c.c., le quali, tutte, implicano una nozione di impresa commerciale che richiama la necessità, quanto meno, di una sorta di programmazione per l'acquisizione di corrispettivi. Dal punto di vista fiscale, per essere impresa commerciale non sarà necessario approntare una organizzazione, ma occorrerà, quanto meno, svolgere una attività stabilmente preordinata e programmata per conseguire corrispettivi.
E dunque, è vero che l'elemento organizzativo è irrilevante, è vero che l'elemento della durata nel tempo (abitualità) è assai importante, ma non può essere trascurato l'elemento della natura commerciale, inteso come predisposizione dell'attività al conseguimento di corrispettivi. E tale predisposizione deve pur emergere da elementi fattuali dotati di un qualche grado di certezza.
Con ciò non si vuole di certo affermare che sia necessario il conseguimento in concreto di utili, in quanto, all'evidenza, un'impresa commerciale può esistere anche in perdita a seguito della vendita di beni sotto costo. Si intende solamente affermare che l'impresa commerciale, rilevante ai fini fiscali, deve pur sempre possedere un assetto, una struttura (anche se non squisitamente di tipo organizzativo), delle evidenze che conducano a presumere una programmazione al conseguimento di corrispettivi. Se non emergono elementi di fatto in grado condurre a tale presunzione, se al contrario risultano elementi che depongono per una attività iniziata e continuata per effettuare cessioni di beni per ragioni diverse dal conseguimento stabile nel tempo di corrispettivi, allora si è al di fuori di imprese commerciali a fini fiscali.
Stante tale interpretazione del dato fiscale, la giurisprudenza si è così espressa con riferimento alle attività di acquisto e vendita di operare d'arte:
In specie, i Giudici hanno ritenuto carenti i caratteri di sistematicità, professionalità ed abitualità propri dell'esercizio di una attività commerciale.
Da quanto delineato, si può affermare come non sia semplice la distinzione tra “mercante d'arte” e “collezionista”; per tal ragione assuma notevole rilevanza l'analisi degli elementi concreti al fine di appurare se si sia al cospetto di un “mercante d'arte”, oppure di un “collezionista”. In particolare, tra le circostanze da tenere in considerazione al fine di qualificare un contribuente come “mercante d'arte” (e, quindi, al fine di predicare la sussistenza di un reddito d'impresa derivante dall'attività di intermediazione nell'acquisto e nella vendita delle opere) vi sono (esemplificativamente ma non esaustivamente):
Da rilevare, inoltre, che accanto alle predette categorie si colloca anche quella del “venditore occasionale”, vale a dire di colui che non svolge come attività commerciale di tipo abituale quella di compravendita di opere d'arte (come accade, invece, per il “mercante d'arte”), ma compie in maniera solo saltuaria tali operazioni. In tal caso i redditi derivanti dalle attività di acquisto e vendita di opere d'arte sono qualificabili quali “redditi diversi” ai sensi dell'art. 67, comma 1, lett. i), TUIR.
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