Il ruolo della CGUE nei giudizi di responsabilità: un aiuto prezioso o una presenza invadente?
01 Luglio 2021
Introduzione
Ripercorrendo alcune vicende giudiziarie caratterizzate da un fitto dialogo tra Corte di Giustizia dell'Unione europea (d'ora in poi per brevità Corte di Giustizia o CGUE) e corti nazionali investite di giudizi di responsabilità, nei confronti di singoli cittadini o anche dello Stato italiano, emergono delle criticità nel rapporto di collaborazione che si instaura. Il contenzioso sul diritto alla retribuzione in capo ai medici specializzandi e quello sul diritto a un congruo indennizzo per le vittime di reati intenzionali violenti sono emblematici degli ostacoli che si frappongono rispetto all'obiettivo della certezza e celerità delle decisioni, ma offre spunti per individuare delle prassi che possano agevolare il dialogo tra le corti. Tale dialogo è comunque imprescindibile, come si evince anche dalla recentissima pronuncia della Corte di Giustizia invocata dalla Corte Costituzionale sul c.d. diritto al silenzio nei procedimenti finalizzati all'irrogazione di sanzioni amministrative e dal ricorso pregiudiziale proposto dalle Sezioni Unite sulla possibilità di cassare sentenze del Consiglio di Stato emesse in violazione del diritto eurounitario. Il ruolo cruciale della Corte di Giustizia nella giurisprudenza nazionale è testimoniato dal numero sempre crescente di domande di pronuncia pregiudiziale, quasi raddoppiato nell'ultimo decennio. Esso trova il suo fondamento nel principio del primato del diritto dell'Unione sul diritto degli Stati membri - esplicitamente ribadito nella Dichiarazione 17 allegata al Trattato di Lisbona - in base al quale lo Stato italiano, nelle sue tre articolazioni principali (legislativa, esecutiva e giudiziaria), è obbligato ad applicare la normativa europea ed eventualmente a disapplicare la norma interna non conforme. Di conseguenza frequenti sono le controversie in cui il giudice nazionale è chiamato a decidere una causa di responsabilità dello Stato nei confronti del quale il cittadino lamenta la mancata attuazione o la trasposizione non corretta del diritto eurounitario, soprattutto delle direttive la cui efficacia è per lo più “verticale”, ossia vincola lo Stato membro al raggiungimento di determinati obiettivi ma con un margine più o meno ampio di discrezionalità sulle modalità di attuazione. Poiché la risoluzione di queste controversie implica un'approfondita esegesi della normativa europea, entra in gioco il ruolo della Corte di Giustizia che, in base all'art. 267 TFUE, è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità e l'interpretazione degli atti normativi dell'Unione. Da autorevole dottrina si evidenzia come, pur trattandosi formalmente di un organo giudiziario, la competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia ha un carattere non contenzioso che la rende una sorta di ausiliario di giustizia, con funzione ancillare di collaborazione, e proprio questa peculiarità contribuisce a provocare, come si vedrà in seguito, degli attriti o delle incomprensioni nel dialogo con il giudice dello Stato membro. La Corte di Giustizia non decide la causa ed è chiamata solo a fornire un'indicazione interpretativa della norma europea, ma di fatto tende ad affiancarsi alla valutazione del giudice nazionale di conformità o contrasto tra norma comunitaria e norma interna - con la formula “l'interpretazione della norma europea osta (o non osta) all'applicazione di una norma nazionale che...” - e, in ultima analisi, alla funzione giurisdizionale in senso proprio. Essa vincola a pronunciarsi in conformità alla propria decisione il giudice nazionale investito della controversia, così come gli altri giudici degli Stati membri ai quali venga sottoposta una questione analoga, al fine di garantire un'applicazione uniforme e oggettiva del diritto europeo. Il primato dell'Unione europea opera dunque su due livelli: obbliga sia lo Stato membro ad attuare il diritto europeo sia il giudice nazionale, che comunque costituisce un'articolazione dello Stato medesimo, a garantirne l'applicazione. Ma poi, una volta avuto il responso pregiudiziale, è possibile affermare che i problemi interpretativi siano veramente risolti? La vicenda della retribuzione dei medici specializzandi
Con ordinanza interlocutoria del 29 ottobre 2020, n. 23901, le Sezioni Unite della Cassazione hanno inviato un nuovo quesito interpretativo sull'ambito temporale della responsabilità dello Stato italiano per la tardiva attuazione della direttiva n. 82/76 in tema di adeguata remunerazione dei medici specializzandi, chiedendo in particolare se la responsabilità debba ritenersi estesa, e fino a che punto, anche ai sanitari che si siano iscritti ad una scuola di specializzazione prima del 1.1.1983, data nella quale si è perfezionato l'inadempimento dello Stato per avere lasciato inutilmente decorrere il termine del 31.12.1982 per l'attuazione di detta direttiva. La questione è arrivata nuovamente all'attenzione delle Sezioni Unite perché i dubbi di interpretazione non si erano sopiti neppure a seguito di una prima rimessione alla Corte di Giustizia, operata con due ordinanze interlocutorie delle Sezioni Unite (nn. 23581 e 23582/2016). La decisione della CGUE(24.1.2018, C616/16 e C- 617/16) ha dato luogo, anzi, ad ulteriori difformità di vedute quando ha affermato che qualsiasi specializzazione iniziata nel corso dell'anno 1982 e proseguita fino all'anno 1990 deve essere oggetto di una remunerazione adeguata. L'ordinanza della Cassazione n. 23901/20 evidenzia che, mentre nella parte motiva della pronuncia della Corte di Giustizia si afferma che tutti i corsi iniziati prima del 1.1.1983 e proseguiti dopo quella data, meritano una remunerazione, nel dispositivo l'affermazione è circoscritta ai soli medici che abbiano cominciato la formazione nel corso dell'anno 1982 e proseguito la stessa fino all'anno 1990. Il nuovo quesito rivolto alla Corte di Giustizia riguarda stavolta il riconoscimento di una remunerazione adeguata anche ai medici che si siano iscritti ad una scuola di specializzazione in anni precedenti l'anno 1982, e che siano in corso al 1° gennaio 1983. L'ordinanza interlocutoria nelle premesse si esprime in senso favorevole all'opzione ermeneutica estensiva, ritenendo che la pronuncia della CGUE del 2018 si riferisca specificamente all'anno 1982 per adeguarsi alla fattispecie concreta sottoposta al suo esame. Tuttavia, stante l'ulteriore contrasto creatosi tra le sezioni semplici, l'opzione dell'ulteriore rinvio pregiudiziale appare l'unica via percorribile, in quanto evitabile dal giudice di ultima istanza solo in caso di acte clair (così si esprime la sentenza della CGUE CILFIT, 6.10.1982). Se si considera che sulla vicenda dell'adeguata retribuzione dei medici specializzandi, senza contare il primo intervento della Corte di Giustizia nel 1987 in occasione della procedura di infrazione, erano state emesse già due pronunce pregiudiziali (25.2.1999, Carbonari, 3.10.2000, Gozza), si può avere un'idea di quanto possa essere faticoso, fino a divenire estenuante, il rapporto di collaborazione tra giudice nazionale e corte europea e quanto questa collaborazione rischi di incidere negativamente sui tempi di definizione del contenzioso senza un' adeguata contropartita in termini di certezza del diritto. Non è un caso che le Sezioni Unite hanno chiesto con l'ordinanza n. 23901, ai sensi dell'art. 105 Reg. proc. C.G.U.E. del 25 settembre 2012, la decisione pregiudiziale con procedimento accelerato, deducendo la sussistenza di ragioni serie e specifiche che impongono di rimuovere in tempi brevi gravi incertezze su questioni fondamentali di rilievo. Le difficoltà di risolvere in maniera definitiva ed esaustiva i dubbi interpretativi della normativa comunitaria sono insorte poiché il quesito pregiudiziale, formulato in maniera molto specifica per aderire ai confini del caso concreto, ha vincolato la Corte di Giustizia a mantenersi nel perimetro della richiesta. Invero il giudice nazionale ha il difficile compito di porre un quesito strumentale rispetto al thema decidendum, ma al tempo stesso di riuscire ad ottenere delle chiavi ermeneutiche sugli obiettivi e sull'ambito applicativo della norma europea che agiscano il più possibile da passepartout per fattispecie non del tutto coincidenti. Indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti
Un excursus altrettanto travagliato ha caratterizzato l'attuazione della direttiva2004/80/CE che impone agli stati membri dell'UE di apprestare una tutela risarcitoria a favore delle vittime di reati violenti e intenzionali, laddove queste siano impossibilitate ad ottenere il risarcimento dei danni. Dopo che la Corte di Giustizia (causa C 112/07, 29 novembre 2007) aveva sanzionato lo Stato italiano per l'omessa attuazione della direttiva, il Governo aveva ritenuto di avere ottemperato dal punto di vista procedurale con il D.Lgs. n. 204/07, dato che dal punto di vista sostanziale l'Italia era già munita di un sistema di indennizzo per alcune categorie di reati. Nei giudizi di risarcimento intentati da cittadini italiani che lamentavano di non avere accesso ad alcuna forma di indennizzo, lo Stato ha anche replicato ritenendo la direttiva 2004/80/CE applicabile alle sole situazioni aventi rilevanza transfrontaliera, stante l'obiettivo dichiarato della normativa comunitaria di tutelare la libera circolazione di persone e servizi nell'ambito della unione europea. A fronte dell'emergere di contrasti giurisprudenziali un primo rinvio pregiudiziale è stato operato dal Tribunale di Firenze per accertare se la direttiva 2004/80 avesse imposto il riconoscimento di un sistema di indennizzo per le vittime di tutti i reati violenti e non solo per alcune categorie. La Corte di Giustizia però,con ordinanza del 30.1.2014, ha dichiarato la propria incompetenza, rilevando che si trattava di rinvio occasionato da una domanda risarcitoria derivante da reato commesso in Italia ai danni di vittima pure residente in Italia; ha subordinato quindi la possibilità di fornire una interpretazione della direttiva 2004/80/CE all'eventuale espressa prospettazione da parte del giudice nazionale della rilevanza intranazionale della direttiva in virtù dell'esistenza di norme interne che vietano la discriminazione del cittadino. L'opzione del rinvio pregiudiziale nel frattempo da altri giudici invece non era stata percorsa. La Corte d'Appello di Torino, confermando sul punto l'opzione ermeneutica del giudice di primo grado, con sentenza n. 106/2012 ha riconosciuto la responsabilità dello Stato italiano per non avere previsto un congruo indennizzo in favore di persona residente in Italia e vittima di stupro. Successivamente la Corte di Giustizia(Grande Sezione, 11 ottobre 2016, C-601/14), nonostante fosse nel frattempo intervenuta la legge n. 122/2016 con la previsione di un sistema di ulteriori indennizzi demandato a un successivo decreto ministeriale, ha concluso un'ulteriore procedura d'infrazione, affermando che la Repubblica italiana non aveva adottato tutte le misure necessarie al fine di garantire l'esistenza, nelle situazioni transfrontaliere, di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi sul proprio territorio. Intanto la sentenza della Corte d'Appello di Torino è stata impugnata innanzi alla Corte di Cassazione la quale, con ordinanza del 31.1.2019, ha ritenuto invece imprescindibile sollevare di nuovo questione pregiudiziale e chiesto alla Corte di Giustizia - questa volta stando attenta ad evidenziare la rilevanza intranazionale della direttiva 2004/80 - se la responsabilità risarcitoria dello Stato inadempiente valga anche per le situazioni non transfrontaliere, giustificando il perdurante dubbio sul fatto che la giurisprudenza della CGUE era nel frattempo intervenuta in varie occasioni, affermando la portata "transfrontaliera" dell'obbligo di previsione dell'indennizzo. La Corte di Cassazione ha anche chiesto se l'indennizzo stabilito medio tempore dal decreto del Ministro dell'Interno del 31.8.2017 nell'importo fisso di € 4.800,00 per il reato di violenza sessuale potesse ritenersi equo ed adeguato. La Corte di Giustizia ha risposto ai quesiti della Cassazione con la sentenza del 16 luglio 2020 ( B.V., C-129/19), affermando che il regime della responsabilità extra-contrattuale di uno Stato membro è applicabile anche nei confronti di vittime residenti nel medesimo Stato e che un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessualenon può essere qualificato come equo ed adeguatoqualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, adombrando la possibile inadeguatezza di un importo di € 4.800,00. I problemi interpretativi non sembrano finiti, almeno per quanto riguarda la questione della congruità degli indennizzi previsti dal legislatore italiano, anche perché la valutazione della Corte di Giustizia ovviamente non poteva tenere conto del fatto che, dopo il rinvio pregiudiziale, in data 24 gennaio 2020 è entrato in vigore un nuovo decreto ministeriale (DM 22 novembre 2019) che ha aumentato gli importi degli indennizzi. C'è chi ha sostenuto che il nuovo decreto ha determinato nuovamente contributi in nessun modo personalizzabili e, in ogni caso, nettamente inferiori a quelli stanziati ad esempio, per le vittime di terrorismo o usura, ingiustificatamente disattendendo i dettami dalla Corte di Giustizia (v. C. Cerlon, 10 agosto 2020 su Ridare.it). Nella giurisprudenza di merito si affacciano le prime pronunce. In un caso, con riferimento ad una vicenda di omicidio, è stato ritenuto congruo e adeguato rispetto alla fattispecie concreta un indennizzo di € 50.000,00 (Trib. Roma, sentenza n. 11928/2020). In un altro caso è stato ritenuto perdurante l'inadempimento dello Stato italiano che non prevede un congruo indennizzo nel caso di lesioni non gravissime, ma riconosce solo la rifusione delle spese mediche e assistenziali documentate, fino a un massimo di €15.000,00 (Trib. Roma, ord. del 13 gennaio 2021). Anche in questa vicenda emerge la difficoltà di trovare dei parametri di giudizio certi al fine di valutare le responsabilità dello Stato. La pluralità di interventi della Corte di Giustizia rischia di far perdere il filo del discorso in questo dialogo, anziché arricchirlo, e di indurre il legislatore ad ottemperare con una serie di interventi, riparativi delle singole falle che di volta in volta vengono evidenziate, ma non risolutivi e che anzi a loro volta alimentano nuovi dubbi interpretativi. Il dialogo tra Corte Costituzionale e Corte di Giustizia
Le esperienze sin qui narrate inducono ad interrogarsi non solo su quale sia la tecnica di redazione dei quesiti pregiudiziali più proficua, ma anche su quale sia il momento più opportuno e il giudice più idoneo a proporre il quesito. Se da una parte un rinvio pregiudiziale in una fase precoce del contenzioso può evitare di trascinare equivoci interpretativi fino in Cassazione, d'altra parte la pronuncia di merito non ha una efficace valenza nomofilattica. A fronte di casi in cui si profilano anche dubbi di costituzionalità di una norma, optare preliminarmente per il ricorso alla Corte di Giustizia può non essere risolutivo perché solo la Corte Costituzionale ha il potere di eliminare in radice una legge dal nostro ordinamento. In questo senso è sicuramente più incisivo il dialogo quando avviene direttamente tra Corte Costituzionale e Corte di Giustizia. Un recente rinvio pregiudiziale operato dalla Corte Costituzionale, con riferimento ad una causa riguardante la responsabilità di un cittadino italiano per illecito amministrativo, ne appare la dimostrazione. La Consob, oltre a sanzionare una condotta di abuso di informazioni privilegiate, aveva contestualmente emesso un'ulteriore sanzione per omessa collaborazione, dato che il soggetto aveva rifiutato di rispondere alle domande rivoltegli in sede di audizione. La Cassazione, investita del giudizio di opposizione alla sanzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 187-quinquiesdecies T.U.F.. La Corte Costituzionale ha a sua volta ritenuto necessario sollevare questione pregiudiziale, sottolineando che per la disposizione in questione, adottata in esecuzione della direttiva 2003/6 e che costituisce attualmente l'attuazione di una disposizione del regolamento n. 596/2014, una eventuale dichiarazione di incostituzionalità si sarebbe potuta porre in contrasto con il diritto UE; ha quindi interrogato la Corte di Giustizia in merito alla compatibilità di della direttiva e del regolamento citati con la Carta dei diritti e più in particolare con il diritto di mantenere il silenzio. La Corte di Strasburgo ha precisato con sentenza del 2 febbraio 2021 che le norme eurounitarie citate, lette alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, devono essere interpretate nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica la quale si rifiuti di fornire risposte da cui possano scaturire sanzioni amministrative aventi carattere penale (Causa C-481/19 DB/Consob). In questo modo il giudice investito della controversia può avere un responso definitivo sulla compatibilità della norma con l'ordinamento dell'Unione europea mediante una pronuncia del giudice delle leggi che si esprime in maniera diretta sulla legittimità e applicabilità della norma. Il ruolo della CGUE nei rapporti tra organi di ultima istanza
Il primato del diritto dell'Unione europea sta incidendo anche sui delicati equilibri e forse anche nelle gerarchie tra i massimi organi giurisdizionali nazionali. Una vicenda emblematica, per la quale è ancora attesa una risposta interpretativa da parte della Corte di Giustizia al rinvio pregiudiziale operato dalle Sezioni Unite della Cassazione, riguarda una decisione del Consiglio di Stato che ha negato la legittimazione e l'interesse ad invocare l'annullamento di una gara pubblica da parte di un soggetto escluso dalla procedura. La pronuncia è stata impugnata in Cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 8 Cost. per “motivi inerenti alla giurisdizione”, avendo il ricorrente dedotto la violazione del proprio diritto alla tutela giurisdizionale effettiva enunciato dalla Dir. CEE n. 665 del 1989. Nonostante la Corte Costituzionale (sentenza n. 6/2018) abbia offerto un'interpretazione restrittiva dell'ambito di applicazione dell'art. 111, comma 8, Cost., le Sezioni Unite hanno ritenuto prevalente l'esigenza di porre rimedio all'eventuale errore di interpretazione del diritto europeo, valutando tale errore, nonché l'omesso rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato, come ipotesi di difetto di giurisdizione. La ragione di tale strappo può ravvisarsi anche nell'esigenza delle Sezioni Unite, in quanto investite quale organo di ultima istanza, di evitare a loro volta il rischio di responsabilità per violazione di legge e per omesso rinvio pregiudiziale. Conclusioni
Un po' alla ricerca di un ausilio interpretativo e un po' per evitare responsabilità (per omesso rinvio pregiudiziale, ex art. 267 TFUE per i giudici di ultima istanza, o comunque per manifesta violazione di legge) il giudice nazionale si rivolge sempre più spesso alla Corte di Giustizia. Se il rinvio è sempre più frequente, e spesso non evitabile, comunque è innegabile la sua utilità. Al giudice di merito spetta il compito di valutare se nel caso concreto sia opportuno optare in prima battuta per tale strumento, o tentare una soluzione interpretativa autonoma del diritto eurounitario, oppure ancora, qualora sia possibile, cercare l'intermediazione della Corte Costituzionale. Qualora il rinvio sia opportuno, od obbligato (per i giudici di ultima istanza), la formulazione dei quesiti pregiudiziali dovrebbe sempre avere di mira l'obiettivo di evitare il più possibile una pluralità di rinvii, così da assicurare celerità e certezza ai processi. I quesiti più efficaci sono quelli che, pure strumentali alla risoluzione di una fattispecie in concreto, riescono a provocare una risposta della Corte di Giustizia che illumini ad ampio spettro la portata della norma europea. |