Il voto di lista per la rappresentanza degli azionisti di minoranza nell'organo amministrativo di società quotate

07 Luglio 2021

Il voto di lista è stato introdotto in Italia per garantire che la composizione degli organi di amministrazione e controllo delle società quotate non sia determinata unilateralmente dagli azionisti di maggioranza, rendendo più agevole l'elezione di candidati espressione dei soci di minoranza. Dunque, nelle intenzioni del legislatore, l'istituto ha il compito di mitigare gli eventuali problemi di "agenzia" del governo societario, attribuendo un ruolo maggiormente incisivo ai soci di minoranza nella selezione dei vertici aziendali. Dopo una breve ricostruzione della genesi e dell'evoluzione storica dell'ordinamento italiano dell'istituto, l'Autore si concentra sull'analisi del voto di lista nelle società quotate, così come recepito dal Legislatore nella c.d.Legge sul Risparmio (l. 28 dicembre 2009, n. 262), evidenziandone caratteristiche e peculiarità.
Il voto di lista nel diritto comune societario

La nomina degli amministratori di una società per azioni che ha adottato il sistema di amministrazione e controllo tradizionale spetta, di regola, ai soci riuniti in assemblea.

L'attività che conduce alla scelta degli amministratori è un vero e proprio procedimento composto da più fasi e centrale nell'ambito di questo procedimento è la fase in cui i soci devono votare, cioè manifestare la propria volontà sui candidati alla carica di amministratori.

Il codice civile non stabilisce regole precise mediante le quali esprimere il voto, lasciando all'autonomia privata la definizione del sistema di votazione più conveniente per gli interessi dell'impresa. È così possibile votare per alzata di mano, per acclamazione, per appello nominale; inoltre, è possibile che venga richiesto ai soci di votare singoli candidati o elenchi di candidati alla carica di amministratore. Quando il sistema di votazione scelto per la delibera di nomina degli amministratori prevede il ricorso a liste di candidati tra loro concorrenti, finalizzato a garantire la presenza di esponenti delle minoranze nel consiglio di amministrazione, si è soliti parlare di “voto di lista”.

Pertanto, il voto di lista presuppone la presenza di clausole statutarie volte a consentire una rappresentanza delle minoranze azionarie in seno all'organo di amministrazione.

Tale specifico obiettivo può essere conseguito attraverso diversi approcci. Ad esempio, il primo può essere il metodo proporzionale, per cui la quota di componenti dell'organo di amministrazione è proporzionale ai diritti di voto espressi in assemblea. In concreto, una clausola che ha la funzione di approssimare il metodo proporzionale è quella cosiddetta dei “quozienti”.

Un secondo metodo può essere, invece, quello di riservare una percentuale predefinita dei componenti dell'organo di amministrazione alle minoranze.

Dunque, il voto di lista in sé è una previsione statutaria strumentale all'interesse della società a garantire alle minoranze di avere propri rappresentanti all'interno del CDA.

In altre parole, come ha osservato la dottrina, tale istituto vorrebbe riprodurre nel diritto societario “quei principi di democrazia politica che sostituiscono al sistema maggioritario quello proporzionale, garantendo anche alle minoranze di entrare a far parte dei collegi politici amministrativi” (P.M. Sanfilippo, Funzione amministrativa e autonomia statutaria, Torino, 2000). In realtà, il voto di lista, che in Italia era stato consentito ma non regolato dal codice civile del 1942 e che è stato poi disciplinato dal Legislatore con due specifici interventi normativi (la c.d. Legge sulle privatizzazioni e la c.d. Legge sul Risparmio), non sempre viene correttamente rappresentato dall'idea della sostituzione del sistema proporzionale a quello maggioritario.

Infatti, esso può essere utilizzato per consentire l'ingresso nel consiglio di amministrazione di una minoranza, di più minoranze o di minoranze aventi una certa partecipazione azionaria.

Le ragioni sottostanti all'idea di coinvolgere le minoranze nella gestione della società sembrano riconducibili all'esigenza di rafforzare la tutela degli azionisti di minoranza, ritenendo che l'esistenza di amministratori non nominati dalla maggioranza possa mitigare il rischio di una gestione più propensa a realizzare gli interessi dell'azionista di controllo piuttosto che l'interesse comune a tutti i soci.

Come sopra accennato, il codice civile dispone che la competenza a nominare gli amministratori spetti all'assemblea (art. 2383 c.c.) e che quest'ultima delibera a maggioranza assoluta (art. 2368, comma 1 c.c.). Pertanto, secondo questa regola generale, chi ottiene la maggioranza dei voti in assemblea ha il diritto di designare tutti i membri del consiglio di amministrazione. Peraltro, lo stesso comma 1 dell'art. 2386 c.c. prevede che “per la nomina alle cariche sociali lo statuto possa stabilire norme particolari”.

Dottrina e giurisprudenza non dubitano della legittimità delle clausole statutarie che introducono il voto di lista (in dottrina G. Lemme, Il voto di lista, Riv. Dir. comm., 1999, I, 362; in giurisprudenza: App. Milano, 16 settembre 1998, in Giur. It., 1989, I, 2, 370) ed hanno, inoltre, chiarito che la regola collegiale e maggioritaria per la nomina alle cariche sociali fissata dal codice civile può essere derogata, ai sensi dell'art. 2368 c.c., soltanto da norme particolari stabilite dallo statuto che incidono non sul diritto di voto in sé ma sulle sole modalità di votazione e sempre a condizione che le stesse rispettino i principi della competenza esclusiva dell'assemblea, dell'unità del procedimento assembleare e della libertà di voto.

Tuttavia, nel periodo immediatamente successivo all'entrata in vigore del codice civile, la dottrina si era interrogata sulla portata della disposizione contenuta nel primo comma dell'art. 2368 c.c. proprio con riferimento all'ammissibilità del “sistema del voto di lista”.

Infatti, una parte della dottrina (T. Ascarelli, I problemi delle società anonime per azioni, in Riv. Soc, 1956), in virtù di un'interpretazione letterale dell'art. 2383 c.c., secondo il quale “la nomina degli amministratori spetta all'assemblea”, negava l'ammissibilità di un sistema che potesse garantire una rappresentanza della minoranza nel cda. Sulla stessa linea interpretativa è stato altresì osservato che l'art. 2383 c.c., oltre a non consentire votazioni speciali o assemblee separate per l'elezione degli amministratori, stabiliva anche il principio della assoluta libertà di voto agli azionisti riuniti in assemblea, ritenendo vietata ogni possibilità di attribuire alle minoranze un diritto di scelta nella nomina degli amministratori tra i soggetti indicati appartenenti alla minoranza.

Altra parte della dottrina, invece, riteneva accettabile la possibilità di attribuire la nomina di amministratori alla minoranza ma solo a patto di garantire l'osservanza del metodo collegiale assembleare, ritenendo quindi legittimo il voto di lista come mera modalità di espressione del voto in assemblea in vista della tutela di un interesse ritenuto meritevole dall'ordinamento e consistente nel controllo dell'operato della maggioranza da parte della minoranza” (G. Scalfi, Clausole particolari per la nomina degli amministratori di società per azioni (art. 2368, comma 1, c.c.), in Riv. Soc., 1971).

Al di là della questione della liceità di norme statutarie che consentono la rappresentanza delle minoranze nell'organo di amministrazione, l'idea di fondo che emerge dal codice civile è che, con la regola maggioritaria e con il metodo collegiale, si vuole garantire la stabilità della gestione della società per azioni e il fatto che gli amministratori siano sempre l'espressione del gruppo di maggioranza in moda tale da poterne realizzare i programmi e attuarne le strategie.

La “collegialità” è d'obbligo anche nel funzionamento dell'organo di amministrazione, ma in tale ambito deve essere intesa non come strumento di composizione di interessi divergenti, quanto piuttosto come strumento di arricchimento del contenuto della decisione assunta dallo stesso organo, in relazione alle molteplici competenze ed esperienze di cui sono portatori i singoli componenti del consiglio di amministrazione e per le quali sono stati nominati.

Anche la giurisprudenza che si è pronunciata sul tema (Cass. 26 novembre 1998,n 12012, in Giur. It., 1999, 1441, con nota di M. Irrera) sembra confermare l'idea secondo la quale la logica della contrapposizione tra maggioranza ed opposizione, tipica dell'assemblea, debba rimanere estranea al consiglio di amministrazione. Tale scelta è stata confermata dal Legislatore sia nel 1998 con il Testo Unico della Finanza (“TUF”) per le società quotate, sia nel 2003 con la Riforma del diritto societario (d. lgs. 17 gennaio 2003, n.6), ma è stata successivamente modificata dalla Legge sul Risparmio, con l'introduzione della figura dell'amministratore di minoranza, di cui si dirà nei prossimi paragrafi.

In particolare, il TUF, all'art. 148, comma 2, proprio nell'intento di tutelare le minoranze azionarie, aveva previsto la rappresentanza obbligatoria delle stesse nel collegio sindacale ma non anche nel consiglio di amministrazione. Dunque, il Legislatore ha preferito agevolare l'esercizio delle funzioni di riscontro dell'operato dell'organo della maggioranza e degli amministratori, incidendo sulla composizione dell'organo di controllo ma non su quello di amministrazione. Anche il Legislatore della Riforma del diritto societario non ha previsto regole cogenti in tema di composizione dell'organo di amministrazione volte a garantire una rappresentanza delle minoranze. Naturalmente, nell'ambito del diritto comune, applicabile a società non quotate che hanno nella maggioranza dei casi una struttura proprietaria chiusa o molto concentrata, la questione della tutela dei soci di minoranza assume una valenza e un rilievo del tutto diversi rispetto alle società quotate che fanno appello al mercato del capitale di rischio. Tuttavia, la questione non è stata del tutto trascurata dal Legislatore che ha introdotto nel diritto comune la figura dell' “amministratore indipendente”, pur rimettendone l'attivazione all'autonomia statutaria ( art. 2387 c.c.).

Il voto di lista nella Legge sulle privatizzazioni

L'istituto del voto di lista per la nomina degli amministratori è stato introdotto per la prima volta nell'ordinamento italiano da una legge speciale: il d. l. 31 maggio 1994 n. 332, convertito nella legge 30 luglio 1994 n. 474, noto come “Legge sulle privatizzazioni”. L'art. 4 della citata legge ha imposto a tutte le società privatizzate che avessero deciso di avvalersi della facoltà di inserire nel proprio statuto un limite al possesso azionario ai sensi dell'art. 3 della medesima legge, di introdurre altresì una specifica clausola – immodificabile finchè permanesse la previsione del limite stesso – per l'elezione degli amministratori mediante voto di lista. In tal modo il Legislatore ha voluto rendere obbligatorio per certe società (quelle cui si riferisce la legge 474/1994) ciò che per tutte le altre società è solo possibile e facoltativo, cioè introdurre il voto di lista per l'elezione del consiglio di amministrazione nei casi in cui nei relativi statuti fosse stato introdotto un limite al possesso azionario. Previsione questa che tornerebbe ad essere facoltativa qualora il limite al possesso dovesse essere rimosso dallo statuto.

La disciplina del voto di lista prevede che l'assemblea debba essere convocata con preavviso da pubblicarsi non meno di trenta giorni prima rispetto al giorno fissato per l'adunanza. L'ordine del giorno pubblicato deve contenere, a pena di nullità delle deliberazioni ai sensi dell'art. 2379 c.c., l'elenco di tutte le materie da trattare; tale elenco non può essere modificato o integrato in sede assembleare. Legittimati a presentare le liste sono gli amministratori uscenti o i soci che rappresentano l'uno per cento delle azioni aventi diritto di voto nell'assemblea ordinaria. Le liste devono essere rese pubbliche mediante deposito presso la sede sociale (almeno venti giorni prima della data dell'assemblea) e annuncio su tre quotidiano a diffusione nazionale (almeno dieci giorni prima dell'adunanza programmata).

La legge prevede inoltre che alle liste di minoranza “debba essere riservato almeno un quinto degli amministratori non nominati ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. d” della legge medesima, ossia escludendo dal computo del numero complessivo degli amministratori quello senza diritto di voto nominato direttamente dal Governo, in base ai poteri speciali attribuitigli dalla legge sopracitata.

Naturalmente, il metodo scelto dal Legislatore richiede che siano gli statuti societari a dare attuazione alla disciplina in esame per definire in concreto quali liste di minoranza e con quali criteri possano concorrere all'elezione degli amministratori.

Il parere degli studiosi circa le finalità dell'utilizzo da parte della Legge sulle privatizzazioni del voto di lista non è stato univoco. Una parte della dottrina ha sostenuto che al voto di lista non potesse essere attribuito alcun autonomo rilievo, poiché lo stesso doveva essere inteso come completamento di un più ampio disegno delle società privatizzande operanti in settori strategici volto a creare nelle stesse un assetto proprietario frazionato (M. Belcredi, Amministratori indipendenti, amministratori di minoranza, e dintorni, in Riv. Soc., 2005, 864). Secondo questa prospettiva, il voto di lista serviva a consentire un'equa rappresentanza degli azionisti, evitando sia i rischi di entrenchment del management, sia di acquisizione del controllo del Cda da parte di soggetti con quote esigue di capitale.

Altra parte della dottrina ha criticato tale previsione normativa ritenendo che l'introduzione del voto di lista per l'elezione degli amministratori potesse incidere sull'efficienza della gestione stessa della società in quanto la contrapposizione, all'interno del consiglio, tra gli amministratori di minoranza e gli altri amministratori (ossia il management rimasto in carica anche dopo la privatizzazione o gli amministratori eletti dalla maggioranza formatasi in relazione alla specifica delibera di nomina), avrebbe potuto portare ad un eccesso di conflittualità e, dunque, ostacolare una gestione agile e snella della società per azioni (G. Minervini, in Privatizzazione e riforma del diritto societario, Atti del Convegno – Senato della Repubblica 28 settembre 1994, in Quaderni di finanza Consob n.10).

Sotto questo profilo, l'inclusione nel consiglio di amministrazione di rappresentanti della minoranza incontrerebbe due obiezioni di fondo. In primo luogo, è stato evidenziato che altrettanto appare irragionevole inserire costoro nell'organo di governo della società, quanto lo sarebbe dare il benvenuto a membri dell'opposizione nel governo di uno stato.

In secondo luogo, si sarebbe trattato di un tentativo di trasporre nel nostro ordinamento un modello di rappresentanza azionaria tipico di altri paesi, come gli Stati Uniti e la Germania, con tradizioni giuridiche e assetti istituzionali molto diversi dal nostro.

Altri studiosi, invece, hanno osservato come le norme in esame siano, in realtà, norme di diritto speciale a carattere transitorio, ossia essenzialmente finalizzate a traghettare alcune grandi società, seguendo la logica del processo di privatizzazione, dal diritto speciale al diritto comune delle società per azioni. Pertanto, le stesse disposizioni possono essere comprese solo calandole nel contesto storico delle privatizzazioni e considerando che “per loro natura sono norme destinate a cadere quando questo periodo di transizione possa dirsi ragionevolmente concluso. In quel momento troverà applicazione solo il diritto comune e anche il problema della tutela <<rafforzata>> della minoranza in particolari tipi di società, sarà un problema di diritto comune, non di diritto speciale transitorio(R. Costi, Privatizzazione e diritto delle società per azioni, in Giur. Comm., 1995).

In altre parole, secondo tale impostazione, il legislatore ha utilizzato il voto di lista nelle privatizzazioni come uno strumento temporaneo necessario per garantire un azionariato diffuso e, di conseguenza, una maggiore distribuzione del potere tra gli azionisti stessi: pertanto, non per tutelare le minoranze azionarie quanto piuttosto per accrescere l'interesse degli investitori rispetto alle società privatizzande in considerazione della possibilità loro concessa dalla legge di nominare un proprio rappresentante nel consiglio di amministrazione e controllare da vicino l'operato di questo organo.

Il voto di lista nella Legge sul Risparmio

Undici anni dopo la legge sulle privatizzazioni, la disciplina del voto di lista si è arricchita ulteriormente con l'art. 1 della Legge sul Risparmio (

legge 28 dicembre 2005, n. 262

) che, introducendo nel Testo Unico della Finanza un nuovo art. 147–ter, ha reso obbligatorio per le società quotate la previsione statutaria in base alla quale i componenti del consiglio di amministrazione devono essere eletti sulla base di liste di candidati.

Le liste devono essere depositate presso la società almeno venticinque giorni prima rispetto alla data fissata per l'assemblea di nomina e messe a disposizione del pubblico presso la sede sociale, sul sito internet e con le altre modalità fissate dalla Consob con regolamento almeno ventuno giorni prima della data stabilita per l'assemblea. La legge richiede, poi, che almeno uno dei componenti del consiglio di amministrazione sia espresso dalla lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti e non sia collegata in alcun modo, neppure indirettamente, con i soci che abbiano presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti.

Il legislatore del

Tuf

ha rimesso all'autonomia statutaria la determinazione della quota minima di partecipazione necessaria per la presentazione di liste da parte dei soci, fissando tuttavia un limite minimo pari ad un quarantesimo del capitale sociale o alla diversa misura stabilità in via regolamentare dalla Consob.

La disciplina descritta si applica nel caso in cui il sistema di amministrazione prescelto sia quello tradizionale o monistico. Viceversa, quando il sistema prescelto sia quello dualistico, per l'elezione del consiglio di sorveglianza si applica la disciplina prevista per il collegio sindacale. La delibera di nomina degli amministratori è, come qualsiasi altra delibera, un procedimento le cui fasi essenziali sono quelle della proposta, della votazione della proposta e, previo scrutinio dei voti, della proclamazione degli eletti.

La scelta del voto di lista come sistema di votazione condiziona tutte le diverse fasi del procedimento. In primo luogo, il voto di lista condiziona la prima fase del procedimento di nomina degli amministratori, poiché esso rappresenta una particolare tecnica di presentazione della proposta di deliberazione. Infatti, al fine di consentire la realizzazione di una delibera unica per la nomina di tutti gli amministratori, tale sistema di voto richiede che la proposta di deliberazione venga formulata “al di fuori, e cioè prima della riunione assembleare”, facendo ricorso a liste bloccate, ossia immodificabili.

Il voto di lista di cui all'

art. 147–

ter

del TUF

comporta anche la definizione di un termine per il deposito delle liste, trascorso il quale le candidature non possono più essere modificate.

Il voto di lista incide anche sulla seconda fase del procedimento di nomina degli amministratori, e cioè sulle modalità di voto. Il voto, infatti, potrà essere espresso solo votando liste predefinite e, ancora, “una volta che le liste siano presentate ogni socio non potrà che votare una lista per come predisposta. Tale modalità di voto consente di strutturare la delibera di nomina degli amministratori come delibera di nomina di tutti gli amministratori, cioè consente di avere un'unica delibera e non tante delibere quanti sono i componenti del collegio da eleggere. La predisposizione di un'unica delibera assume una notevole importanza, poiché solo attraverso la contemporanea elezione di tutto ilo collegio (o comunque di una pluralità di candidati), può garantirsi uno o più posti a candidati tratti dalle liste di minoranza.

Infine, il voto di lista incide sulla fase di proclamazione degli eletti: il presidente dell'assemblea, una volta effettuato lo scrutinio dei voti, dovrà applicare al dato numerico ottenuto la “regola elettorale” statutariamente prevista e, dunque, suddividere i posti da coprire tra le liste che hanno ricevuto i voti. A tale effetto, il presidente dell'assemblea dovrà preventivamente “stabilire quali liste, ai fini del rispetto della stessa regola elettorale, siano effettivamente di minoranza, e cioè siano prive di quei collegamenti con chi abbia proposto o votato la lista di maggioranza previsti dalla legge ( e dai suoi regolamenti attuativi)”.

Anche in relazione all'

art. 147–

ter

del TUF

la dottrina ha assunto posizioni non uniformi.

Una parte di essa ha ritenuto che l'elezione di amministratori di minoranza possa consentire di rappresentare efficacemente la posizione di una minoranza all'interno dell'organo di gestione, contribuendo così ad una più incisiva tutela della stessa minoranza (Denozza, l'amministratore di minoranza e i suoi critici, in Giur. Comm, 2005, I, 767).

Al tempo stesso è stato osservato che, nella grande società azionaria che si rivolge al mercato del capitale di rischio, poiché l'assemblea non è più luogo di confronto tra le diverse componenti sociali, solamente all'interno del consiglio di amministrazione si potrà avere una composizione degli interessi sociali, prima ancora che di mera ponderazione dell'interesse sociale sotteso. Per questa ragione, la previsione del voto di lista per l'elezione dei componenti del consiglio di amministrazione rappresenta “un nuovo principio generale” per ciò che riguarda le società quotate.

Altra dottrina, invece, ha mostrato una serie di perplessità con riferimento alla funzione virtuosa degli amministratori di minoranza, sottolineando, oltre al fatto che tale figura risulti praticamente assente all'estero, che vi è il rischio che ad essi sia riservato un ruolo solo formale o che la composizione pluralistica del consiglio possa avere ricadute negative sull'unitarietà e l'efficienza della gestione per il pericolo che l'amministratore di minoranza possa essere incentivato a perseguire, non tanto l'interesse sociale, quanto l'interesse di parte appartenente alla minoranza che lo ha nominato (F. Bonelli, Ecco perché non può funzionare l'amministratore di minoranza, in MF, 1 aprile 2005, 13).

In concreto, anche gli azionisti di minoranza, e dunque gli amministratori da essi nominati, possono avere obiettivi non coincidenti con l'interesse sociale ed essere portatori di conflitti di interessi. Ad esempio, essi potrebbero nutrire interesse a tenere comportamenti collusivi con il management o con l'azionista di controllo allo scopo di estrarre benefici privati dall'impresa, oppure ad assumere atteggiamenti ostruzionistici al fine di perseguire finalità proprie.

Inoltre, sulla stessa linea, alcuni studiosi sostengono che il governo della società deve essere espressione della maggioranza, prevedere che anche la minoranza ne faccia parte può portare, per superare eventuali contrasti all'interno del consiglio di amministrazione, a mediazioni o consociativismi che sono deleteri per una corretta ed efficiente gestione. Da questo punto di vista, secondo alcuni la figura dell'amministratore di minoranza può apparire come una soluzione alternativa rispetto alla prima in considerazione della sua maggiore diffusione nelle principali esperienze straniere e “per il suo teorico distacco da ogni interesse particolare” (P. Abbadessa, Nuove regole di governance nel progetto di legge sulla tutela del risparmio, Dir. banc. Merc. Fin., 2005, I, 538) .

È stato anche osservato che, se la nomina di un sindaco di minoranza ha tradizioni risalenti e sarebbe giustificata dalla circostanza che è compito della minoranza controllare con la nomina di un sindaco la legittimità e la correttezza

della gestione, viceversa l'imposizione per legge , in tutte le società quotate e senza imposizione di sorta, di un amministratore nominato da una percentuale ristretta, da un lato, rappresenta nel nostro ordinamento un unicum mai riscontrato e, dall'altro, non rappresenta necessariamente un incide di migliore governance (F. Chiappetta, Diritto del governo societario, Padova, 2010).Infine, è importante evidenziare che il Legislatore della Legge sul Risparmio, pur introducendo la figura dell'amministratore di minoranza, non ha preso posizione sulla disciplina del funzionamento e dei compiti degli amministratori e del consiglio di amministrazione nel suo complesso. Tale disciplina è quella codicistica di diritto comune, applicabile quindi anche alle società quotate.

In conclusione

La figura dell' “amministratore di minoranza” sembra presentare elementi di potenziale coerenza rispetto all'impostazione di diritto comune, poiché l'obiettivo di tutela delle minoranze e, più in generale, di prevenzione da abusi e frodi, che traspare chiaramente dagli atti parlamentari che documentano il dibattito sulla Legge sul Risparmio, sembrava attribuire agli amministratori di minoranza un ruolo più focalizzato sulla verifica della legittimità sostanziale dei singoli atti di gestione e della loro rispondenza all'interesse sociale, piuttosto che un ruolo di alta amministrazione come quello tipizzato dal Legislatore del codice civile.

La dottrina ha evidenziato come lo strumento del voto di lista sia stato utilizzato non per tutelare qualsiasi minoranza, quanto piuttosto solo una minoranza qualificata dal possesso di una data percentuale del capitale sociale. Inoltre, dalle risposte alla consultazione sul Libro Verde The UE corporate governance framework del 5 aprile 2011 è emerso che questa scelta potrebbe in qualche modo ledere il principio di uguaglianza degli azionisti in quanto tra due soci di minoranza possessori di partecipazioni azionarie che si differenziano per poche azioni, il diritto di nominare un membro nel consiglio di amministrazione potrebbe venire riconosciuto all'uno e non all'altro.

Infatti, in concreto, lo strumento del voto di lista è stato utilizzato soprattutto da investitori istituzionali, in quanto questi soggetti spesso sono quelli che detengono partecipazioni superiori a quelle minime definite dalla disciplina applicativa della norma, forse più di altri, sono capaci di meglio interpretare i valori e gli interessi del mercato.

L'esperienza applicativa della disciplina ha mostrato che il voto di lista è stato applicato in circa la metà delle società quotate. Inoltre, un'importante analisi avente ad oggetto le modalità di attuazione dell'art. 147 – ter del TUF ha evidenziato che la presentazione di liste “di minoranza” di amministratori è più frequente nelle società di maggiori dimensioni, mentre non vi sono differenze significative in relazione al settore di appartenenza. La presentazione di più liste di minoranza è molto frequente nelle società a controllo pubblico e meno frequente in quelle a controllo familiare.

Una recente indagine empirica ha poi messo in luce una serie di aspetti particolarmente interessanti, che si ritiene utili richiamare in questa sede, che possono spiegare gli incentivi all'utilizzo dello strumento in questione da parte di alcuni soggetti e il perché l'istituto del voto di lista non ha trovato applicazione in molte società.

In primo luogo, il lavoro mostra che il quorum minimo per presentare le liste non rappresenta in termini concreti un ostacolo, nel senso che spesso vi sono azionisti con quote superiori al quorum che non presentano liste. Le spiegazioni di questo fenomeni possono essere almeno due. Da un lato, si pone un problema di “apatia razionale”, cioè i costi di presentazione delle liste possono essere significativi (incluso il costo di una potenziale sub-ottimale diversificazione di portafoglio necessaria per mantenere una quota azionaria superiore al quorum) e superiori ai benefici in termini di contributo alla valorizzazione della quota azionaria detenuta.

Dall'altro, la rappresentanza in consiglio viene frequentemente ottenuta mediante strumenti alternativi di negoziazione privata con altri azionisti dominanti, quali i patti di sindacato.

Pertanto, gli autori di questo studio derivano da queste evidenze concrete il fatto che la rappresentanza in consiglio non è necessariamente lo strumento più efficace per controllare l'operato del management e che comunque esso può implicare elevati costi di transazione.

In secondo luogo, si evidenzia che l'attivismo degli investitori istituzionali non è necessariamente collegato agli incentivi al controllo del consiglio quando sono più alti i rischi di conflitti di interessi e che tale attivismo può avere una natura polita, quindi essere usato come meccanismo di segnalazione della qualità del gestore o come mezzo per ottenere altri tipi di benefici non legati alla massimizzazione della quota posseduta.

In conclusione, appare evidente come il voto di lista risulti ancora oggetto di rilevanti dibatti in dottrina e di importanti ricerche empiriche e come i risultati finora raggiunti siano significativi al fine di mostrare tutte le potenzialità ma anche i punti critici di tale strumento.

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