La richiesta di alimentazione forzata del detenuto in sciopero della fame

Lorenzo Cattelan
Lorenzo Cattelan
16 Luglio 2021

L'art. 41, comma 3, ord. pen. non legittima l'utilizzo di mezzi di coercizione per imporre trattamenti sanitari o comunque la nutrizione e/o l'idratazione rifiutate dal detenuto, anche alla luce della necessità di approfondire le sue attuali condizioni di salute psichica...
Massima

L'art. 41, comma 3, l. n. 354/1975 (recante “Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” di seguito “ord. pen.”) non legittima l'utilizzo di mezzi di coercizione per imporre trattamenti sanitari o comunque la nutrizione e/o l'idratazione rifiutate dal detenuto, anche alla luce della necessità di approfondire le attuali condizioni di salute psichica che, oltre ad eventuali interventi ex artt. 34 e 35 l. n. 833/1978 o ex art. 404 e ss. c.c., ove integranti un profilo di grave infermità psichica, potrebbero legittimare un intervento ex art. 47-ter,comma1-ter,ord. pen. come modificato con sentenza della Corte Costituzionale n. 99/2011.

Il caso

La vicenda da cui trae origine l'ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Padova riguarda un noto caso di scuola: l'alimentazione forzata del detenuto in sciopero della fame.

Nel caso di specie, in particolare, il Pubblico Ministero ha chiesto il trasferimento del condannato, ristretto presso la Casa di Reclusione di Padova presso la Sezione protetta del locale Ospedale civile, ai fini di ordinare ai sanitari di procedere con l'alimentazione coatta dello stesso. In questi termini, il PM ritiene necessario il ricorso all'uso dei mezzi di coercizione fisica per prevenire una compromissione delle condizioni di salute del condannato scioperante e comunque per legittimarne l'utilizzo nel momento in cui venisse a configurarsi un pericolo concreto ed attuale alla incolumità fisica. Secondo il p.m. richiedente, il potere del Magistrato di Sorveglianza di procedere in tal senso troverebbe fondamento nell'art. 41, comma 3,ord. pen., norma che legittima l'uso di mezzi di coercizione fisica non solo per evitare danni a persone o cose ma anche “per garantire la incolumità dello stesso soggetto” (cfr. Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, adottata il 12 febbraio 1987, recante “regole minime per il trattamento dei detenuti dei Paesi membri”).

Ciò posto, dalle risultanze istruttorie acquisite dal Giudice di Sorveglianza padovano emerge che il detenuto, oltre a praticare lo sciopero della fame da tredici giorni, stava rifiutando da oltre sei mesi di sottoporsi a controlli prescrittigli a seguito di sostituzione di catetere vescicale. In ogni caso, il sanitario dell'istituto penitenziario ha valutato come discrete le condizioni di salute del paziente detenuto, seppur nei limiti di una valutazione clinica svolta in assenza degli esami prescritti.

La questione

La pronuncia in esame sottende un noto caso di scuola: l'eventuale legittimità dell'ordine di alimentazione coatta nei confronti del detenuto in sciopero della fame. La particolarità del caso di specie riguarda la lettura della fattispecie dal punto di vista delle norme di diritto penitenziario, ed in particolare dell'art. 41, comma 3, ord. pen., secondo il quale “non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può far ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto. L'uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario”.

Dal punto sistematico, appare paradigmatica la sentenza della Corte Costituzionale n. 438/2008 che, sebbene anteriore alla l. n. 219/2017 (rubricata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), offre all'interprete una chiara cornice dei principi fondamentali di riferimento. Ivi, infatti, si sottolinea che "lacircostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2,13 e 32 Cost.pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art. 32, comma 2, Cost."; da ciò se ne fa discendere che "il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale".

Le soluzioni giuridiche

L'ordinanza in commento, pur nella sua sinteticità, affronta per punti la panoramica normativa di riferimento, giungendo a ritenere che l'ordinamento penitenziario non contiene disposizioni che autorizzino il trattamento sanitario obbligatorio per superare il dissenso del paziente detenuto. In quest'ottica, secondo il Magistrato di Sorveglianza, l'art. 41, comma 3, c.p.è volto a“fronteggiare il pericolo all'incolumità del detenuto derivante da contegni violenti e commissivi del medesimo (gesti autolesivi) e non a rimuovere una condotta meramente passiva dello stesso quale è il rifiuto di cure o di alimentarsi”. Peraltro, il principio di libertà di autodeterminazione terapeutica – letto congiuntamente al criterio del consenso informato – individua un diritto personalissimo che non incontra limiti neppure ove il suo esercizio possa condurre al sacrificio del bene della vita. Tale impostazione, suffragata dal riferimento ai già citati parametri costituzionali e dalla recente l. n. 219/2017, valorizza il principio personalistico che anima l'ordinamento giuridico e che conduce a una “nuova dimensione della salute non più intesa come assenza di malattia ma come stato di completo benessere fisico e psichicoe che quindi coinvolge, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza”.

La possibilità di un intervento diretto a imporre l'alimentazione forzata viene dunque esclusa, visto il divieto di trattamenti sanitari obbligatori non previsti espressamente dalla legge (gli artt. 34 e 35 l. n. 833/1978, ad esempio, consentono il t.s.o. nei confronti di persone affette da malattie mentali). Secondo la condivisibile pronuncia in commento, quindi, almeno fino a quando l'interessato sia in condizioni di mente tali da escludere alterazioni della volontà, lo stato attuale della normativa non giustifica l'intervento coattivo in nome dell'adempimento del dovere di tutela della salute della persona detenuta, alla quale deve essere riconosciuto lo stesso diritto all'intangibilità della propria persona che si riconosce all'individuo libero. Solo nel momento in cui le condizioni psichiche del soggetto facessero dubitare della sua capacità di autodeterminazione o subentrassero i presupposti dello stato di necessità parrebbe potersi ipotizzare un intervento coattivo (in questo senso FIORENTIN; sul tema anche CANEPA-MERLO).

Di qui, il principio di diritto secondo cui l'art. 41, comma 3, l. n. 354/1975 non legittima l'utilizzo di mezzi di coercizione per imporre trattamenti sanitari o comunque la nutrizione e/o l'idratazione rifiutate dal detenuto, anche alla luce della necessità di approfondire le attuali e concrete condizioni di salute psichica dell'interessato che, oltre ad eventuali interventi ex artt. 34 e 35 l. n. 833/1978 o ex art. 404 e ss. c.c., ove integranti un profilo di grave infermità psichica, potrebbero legittimare un intervento ex art. 47-ter, comma 1-ter, ord. pen., come modificato con sentenza della Corte Costituzionalen. 99/2011.

Osservazioni

Il caso in esame stimola un duplice ordine di considerazioni.

Dal punto di vista dell'ordinamento penitenziario, va preliminarmente esclusa ogni possibile rilevanza disciplinare della volontaria astensione dal cibo, pur espressiva di una forma di protesta particolarmente diffusa nelle carceri.

Ciò posto, la fattispecie pone delicati problemi di contemperamento fra il diritto personale all'autodeterminazione e il dovere di salvaguardia della vita e della salute delle persone detenute e internate che grava sull'amministrazione (cfr. Corte EDU, 5 aprile 2005, Nevmerjitski c. Ucraina, ric. n. 54825/00, dove si afferma che l'alimentazione forzata dettata da precise necessità terapeutiche non può essere considerata di per sé inumana o degradante, fermi restando il rispetto delle condizioni procedurali dettate per gli interventi medici coattivi e l'esigenza di evitare modalità operative contrastanti con il divieto di tortura di cui all'art. 3 CEDU: condizioni che nel caso di specie non erano state rispettate, atteso che essa era stata eseguita con l'uso della forza e di manette, di strumenti per far aprire la bocca al detenuto e di un tubo di gomma inserito nell'esofago; si veda anche Corte EDU 19 giugno 2007, Ciorap v. Moldova, ric. n. 12066/02, in cui il trattamento era stato considerato vera e propria tortura, sia per quanto riguarda le modalità esecutive dell'alimentazione forzata effettuata, sia per l'assenza di ragioni mediche idonee a giustificarne la necessità. Per una decisione in cui, invece, l'alimentazione forzata non è stata ritenuta in contrasto con la CEDU, si veda Corte EDU 26 marzo 2013, Rappaz c. Svizzera).

D'altra parte, già dagli anni ottanta - in forza del divieto costituzionale di trattamenti sanitari obbligatori fuori dai casi espressamente previsti - si esclude la liceità della alimentazione forzata dei detenuti che attuino lo sciopero della fame con coscienza e volontà. Così Rodotà: “le nuove domande di diritti trovano immediate risposte sulla base dei principi già esistenti nel sistema giuridico. Nel tempo presente (sono) appunto i giudici ad intervenire là dove l'innovazione scientifica e tecnologica offre nuove possibilità e fa nascere nuovi problemi”, sicché il diritto giurisprudenziale è “preferibile alla minuta regolamentazione legislativa” (Rodotà, Su W. l'occasione mancata dei giudici, in La Repubblica, 18 dicembre 2006). In questi termini, ancor prima dell'intervento normativo di cui alla legge n. 219/2017, la giurisprudenza poneva come limite insuperabile all'effettuazione, da parte del medico, del trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, “l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente” (cfr. Cass. pen., 29 maggio 2002, ric. Volterrani).

Attraverso la cristallizzazione del principio del consenso informato, la richiamata l. n. 219/2017, in materia di disposizioni anticipate di trattamento, ha dato rilievo alla libertà della persona di rifiutare trattamenti sanitari, fino a legittimare la scelta dell'individuo di morire, anticipando la fine di una vita dalla stessa non ritenuta più conforme alla propria idea di dignità. Tanto basta per ritenere che nell'attuale contesto penitenziario non vi siano disposizioni che autorizzino il trattamento sanitario obbligatorio per superare il dissenso dell'interessato. Ciò è tanto più vero se si consideri che dal 14 giugno 2008 sono state trasferite al Servizio Sanitario Nazionale tutte le funzioni sanitarie, fino ad allora svolte dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia (v. d.P.C.M. 1 aprile 2000) e chel'art. 33 l. n. 833/1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, sancisce il carattere di regola volontario del trattamento sanitario, individuando il fondamento della liceità del trattamento nel consenso informato del paziente.

Ampliando gli orizzonti di prospettiva, la inadeguatezza del consenso del paziente a porsi come esclusiva causa fondante la liceità penale dell'attività medica emerge se si tiene conto dei limiti che incontra la scriminante di cui all'art. 50 c.p. rispetto al suo esplicarsi come causa di giustificazione, postulando la valida disponibilità del diritto. In altri termini, tale causa di esclusione dell'antigiuridicità, in una prospettiva combinata con l'art. 5 c.c., sarebbe insufficiente a coprire tutti i rischi, anche di diminuzione permanente all'integrità fisica o di morte, che possono essere connessi all'attività sanitaria.

D'altra parte, non paiono percorribili gli indirizzi ermeneutici che fanno leva sull'adempimento del dovere o sullo stato di necessità. Infatti, se è vero che talvolta non è possibile apprezzare positivamente l'esistenza di un valido consenso del paziente (come nel caso del detenuto affetto da patologie che inibiscono la lucidità del pensiero), ad una valorizzazione generalizzata di tali scriminanti si oppone il principio fondamentale della libera autodeterminazione dell'individuo, che dette cause di giustificazione invece finirebbero per sopprimere, facoltizzando l'Autorità ad intervenire sul detenuto-paziente a prescindere dalle indicazioni manifestate da quest'ultimo in relazione alla propria salute (v. GAROFOLI).

La dottrina ha comunque posto in luce la necessità che il consenso dell'interessato non sia viziato da errore, ipotesi che ricorre in mancanza di adeguata informazione da parte del sanitario sulla condizione patologica in atto, sulla natura del trattamento, sui benedici e rischi di eventuali trattamenti alternativi, nonché sulle prevedibili conseguenti derivanti dall'omissione di ogni trattamento (CRESPI). È su queste fondamenta che oggi si ritiene unanimemente che il consenso del paziente, in campo medico, si declini quale requisito essenziale della scriminante dell'esercizio del diritto. Si tratta, del resto, di una prospettiva finalmente accolta anche a livello normativo primario. Con l'art. 1 l. n. 219/2017 si stabilisce infatti che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”, nel quadro di una condivisione terapeutica tra medico e paziente “che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilità del medico”.

Corollario di tale “alleanza” terapeutica è il disposto di cui all'art. 5 l. n. 219/2017, che fissa il principio della “pianificazione condivisa delle curetra medico e paziente. Il comma 6 del citato art. 1, poi, precisa che il medico deve attenersi alla volontà espressa del paziente di rifiutare il trattamento sanitario ovvero di interromperlo. In questi casi si prevede, per il sanitario, una esenzione da responsabilità civile o penale. Resta comunque fermo il divieto per il paziente di pretendere dal medico trattamenti contrari a norme di legge, a doveri deontologici o a buone pratiche clinico-assistenziali.

Le osservazioni sin qui esposte conducono ad evidenziare che il dissenso liberamente manifestato dal paziente segna in negativo l'ambito di penale liceità della condotta del medico. Qualora il medico procedesse ugualmente, a fronte del dissenso consapevolmente espresso dal paziente, la condotta – tipica ai sensi dell'art. 610 c.p. o, comunque, delle fattispecie a tutela dell'integrità fisica – conserverebbe la propria illiceità (GAROFOLI).

Anteriormente all'intervento del 2017, si discuteva in ordine ai doveri del medico a fronte di un dissenso espresso del paziente con riguardo a trattamenti di sostegno vitale. La questione si pone, in questi termini, anche per il Magistrato di Sorveglianza chiamato a decidere – ai sensi dell'art. 41, comma 3,ord. pen. – sull'imposizione coatta dell'alimentazione nei riguardi del detenuto, capace di intendere e volere, in sciopero della fame.

Invero, vi era chi sosteneva che il diritto di rifiutare le cure (art. 32 Cost.) incontrasse il limite dell'indisponibilità assoluta del bene vita, con conseguente dovere per il medico, nonostante il rifiuto di cure, di intervenire a tutela della salute del paziente. Tale impostazione, in particolare, faceva leva sulla posizione di garanzia, desunta su base meramente fattuale-funzionale, in capo a chi rivestiva un potere di signoria sull'evento lesivo (es. medico e il magistrato di sorveglianza). La tesi faceva leva sulle norme del codice penale in materia di omicidio del consenziente e di agevolazione del suicidio, nonché sull'art. 54 c.p. la cui funzione, altrimenti vanificata, sarebbe proprio quella di scriminare condotte necessitate dall'esigenza di salvaguardare beni supremi dell'individuo. A livello costituzionale, invece, si richiamavano l'obbligo di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà sociale ex artt. 2 e 4 Cost., così come la sovraordinazione della dignità della persona umana rispetto ai diritti di libertà e autodeterminazione (VALLINI). Ancora, secondo questo orientamento, l'art. 32, comma 2, Cost. porrebbe solo un diritto a non farsi curare, non anche a lasciarsi morire. In questi termini, assumerebbe rilievo decisivo la distinzione tra trattamenti di sostegno vitale e interventi terapeutici ritenuti non necessari.

Tale tesi, tuttavia, finiva per trasformare il “diritto alla salute” in “dovere alla salute”. In altri termini, il benessere dell'individuo rischiava di essere inteso non come prerogativa del singolo, bensì come preoccupazione dello Stato e della società, “implicante una pretesa verso il singolo, affinché egli si tenga bene in forma per meglio poter servire alla collettività” (VALLINI). Da queste ultime considerazioni, quindi, prende le mosse quell'indirizzo liberale che sancisce espressamente l'illiceità di ogni trattamento sanitario contra voluntatem, salvo i casi espressamente previsti dalla legge.

In questo senso, si riscontrano plurime pronunce giurisprudenziali anticipatrici della l. n. 219/2017. In particolare, una questione analoga all'intervento coattivo nei confronti del detenuto in sciopero della fame si è posta, ad esempio, con riferimento:

a) alle emotrasfusioni, com'è noto rifiutate dai testimoni di Geova. Con riguardo a tale fattispecie, la giurisprudenza maggioritaria riteneva (e ritiene tutt'ora) che il principio dell'idoneità della volontà del paziente potesse legittimamente escludere l'obbligo di intervento dei medici (anche nelle ipotesi in cui da tale rifiuto possano derivare lesioni permanenti alla propria integrità fisica o persino la morte), sempre che la coscienza e la volontà dell'interessato non fossero venute meno (cfr. Trib. Cagliari, 8 aprile 2001, in Foro it., Rep, 2005, Cass. civ., sent. 23 febbraio 2007, n. 4211. Sul punto, si veda poi Cass. civ., 15 settembre 2008, n. 23676, secondo cui il dissenso alle cure, per essere valido ad esonerare il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, pertanto, una generica manifestazione di dissenso formulata ex ante ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, ossia dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure);

b) alla legittimità del rifiuto da parte del paziente in relazione all'intervento chirurgico di amputazione di un arto in cancrena (pur ritenuto indispensabile dal sanitario per garantire la sopravvivenza del degente), al quale abbia fatto seguito la morte dello stesso.

A dette conclusioni si perviene oggi in ragione dei principi affermati dalla l. n. 219/2017, la quale ha puntualizzato che per trattamento sanitario devono intendersi anche l'idratazione e la nutrizione artificiali.

Il rifiuto di una terapia, anche se già iniziata, costituisce un diritto costituzionalmente garantito e già perfetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi col paziente, il dovere giuridico di consentirne l'esercizio, con la conseguenza che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per l'interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e segnatamente di quella prevista dall'art. 51 c.p. (in questi termini, la sentenza del G.U.P. di Roma, 27 luglio 2007, n. 2049, resa sul noto caso Welby). Secondo questa impostazione, più in particolare, occorre differenziare i casi di rifiuto delle cure sin dall'inizio, che farebbero venir meno l'esistenza in capo al medico (e nel caso di specie, anche al Magistrato di Sorveglianza investito di una richiesta ex art. 41, comma 3, ord. pen.) di una posizione di garanzia, dai casi di richiesta del paziente di interrompere il trattamento, che ricadrebbero invece nell'alveo della scriminante di cui all'art. 51 c.p.

Merita comunque di essere evidenziato che parte della dottrina (CUPELLI), in epoca tuttavia anteriore alla l. n. 219/2017, aveva optato per la radicale atipicità del comportamento del sanitario (e, quindi, nel nostro caso, anche del Magistrato di Sorveglianza). Tale orientamento, invero, sosteneva che il consapevole consenso espresso dal paziente al trattamento sanitario rappresentasse non solo il presupposto ma anche il limite della posizione di garanzia del medico. Ne conseguiva che, in presenza della richiesta del privato di non essere sottoposto a cure, doveva ritenersi non più gravante sul sanitario l'obbligo giuridico di curare il paziente stesso, con il conseguente venir meno della tipicità del fatto, difettando un'omissione penalmente significativa (ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p.).

In definitiva, la pronuncia in commento si pone condivisibilmente in linea di continuità con il rinnovato dato normativo e l'indirizzo giurisprudenziale inaugurato sin dai primi anni 2000, nella consapevolezza che lo Stato, in linea generale, non può ergersi a decisore delle scelte terapeutiche del singolo, a pena di un inammissibile ritorno ad una visione corporativa e assolutista del sistema giuridico di riferimento.

Guida all'approfondimento

E. FASSONE, Sciopero della fame, autodeterminazione e libertà personale, in Quest. giust., 1982, p. 351 s.;

V. ONIDA, Dignità della persona e diritto di essere malati, cit., p. 361 s.;

D. PULITANÒ, Sullo sciopero della fame di imputati in custodia preventiva, cit., p. 317; Allegranti-Giusti, Lo sciopero della fame del detenuto. Aspetti medico - legali e deontologici, Cedam, 1983, p. 69 s.;

VIGANÒ, Stato di necessità e conflitti di doveri: contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Giuffrè, 2000, p. 450 s., p. 523 s.

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