Risponde di diffamazione anche colui che si rivolge ad un unico interlocutore quando le offese sono percepibili da terzi

Simone Bonfante
20 Luglio 2021

La condotta vietata dall'art. 595 c.p. si configura anche nel caso in cui l'agente, pur rivolgendosi ad una sola persona, si renda perfettamente conto che, per le modalità della propalazione delle frase offensive, queste raggiungeranno certamente anche altre persone, presenti o meno al momento del fatto...
Massima

La condotta vietata dall'art. 595 c.p. si configura anche nel caso in cui l'agente, pur rivolgendosi ad una sola persona, si renda perfettamente conto che, per le modalità della propalazione delle frase offensive, queste raggiungeranno certamente anche altre persone, presenti o meno al momento del fatto.

Il caso

Il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice dell'appello, confermava la sentenza di condanna emessa dal Giudice di Pace per il delitto di diffamazione (art. 595 c.p.) ai danni di un avvocato del libero Foro commesso in occasione di un incontro presso lo studio legale del professionista ed in presenza di altre persone.

L'imputato presentava ricorso per Cassazione lamentando, tra l'altro: 1) violazione di legge in quanto l'agente, lungi dall'avere comunicato frasi offensive a più persone, si sarebbe limitato a rivolgersi solo ad uno dei presenti;

2) violazione di legge in quanto non sussisterebbe nel caso di specie l'elemento soggettivo (dolo) richiesto dalla norma ed in particolare la volontà di offendere la reputazione professionale;

3) il mancato riconoscimento della scriminante del legittimo diritto di critica nei confronti dell'operato del professionista.

La Suprema Corte dichiarava tuttavia inammissibile il ricorso sostenendo che i giudici del merito avrebbero fatto buon governo degli istituti di diritto penale sostanziale in quanto avrebbero ritenuto correttamente sussistente nel caso di specie sia il requisito della comunicazione con più persone sia quello dell'elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie di cui all'art. 595 c.p. ed escludendo, per converso, che si versasse in ipotesi di esercizio del diritto di critica.

La Corte dichiarava inoltre inammissibile il ricorso essendo taluni motivi stati proposti al di fuori dei casi previsti dalla legge ed in particolare sulla base del rilievo che, a norma dell'art. 606, comma 2-bis, c.p.p.: “contro le sentenze di appello pronunciate per reati di competenza del giudice di pace, il ricorso può essere proposto soltanto per i motivi di cui al comma 1, lettere a), b) e c)”.

La questione

La questione di cui si è dovuta occupare la pronuncia in esame è la seguente: in quali caso può dirsi configurato il requisito della comunicazione con più persone contemplato dal delitto di diffamazione? Quale dolo è richiesto ai fini dell'integrazione del delitto in parola? Quali sono i limiti del diritto di critica rispetto all'attività svolta da un professionista?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, nel dichiarare inammissibili il ricorso, ha in gran parte ribadito orientamenti ormai noti in materia di configurabilità sia dell'elemento oggettivo che di quello soggettivo del delitto di diffamazione.

Prima di esaminare tali arresti, nonché la soluzione offerta nel caso di specie dalla sentenza in commento, vale la pena ricordare che con il delitto contemplato dall'art. 595 c.p., la legge punisce “chiunque, fuori dei casi indicati dall'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione”.

Deve innanzitutto ricordarsi come il concetto di reputazione in giurisprudenza sia stato perlopiù definito come quella particolare stima di cui gode l'individuo nella collettività di appartenenza (Cass.pen., sez. V, n. 43184/2012). In dottrina si è in proposito parlato di “riflesso oggettivo dell'onore inteso in senso ampio” (F. Antolisei, Manuale di Diritto Penale, Parte Speciale I, Milano, 1999, p. 201). Si tratterebbe in sostanza dell'insieme delle qualità che conferiscono valore sociale ad un individuo. Qualcuno potrebbe obiettate che, siccome non tutti gli individui godono di una “particolare stima” nella comunità di appartenenza, il reato non si configurerebbe nel caso in cui l'agente prendesse di mira un soggetto con una reputazione già compromessa. Si è tuttavia affermato che anche in questi casi potrà integrarsi il delitto di diffamazione poiché i concetti di onore e reputazione vanno intesi in senso formale o apparente “in quanto concernono sentimenti e valutazioni relativi ad ogni individuo, a prescindere dai suoi meriti effettivi” (M. Spasari, Diffamazione e ingiuria, Enc. del Diritto, Milano, Vol. XII, p. 482; nello stesso senso, Cass. pen., sez. V, n. 35032/2008).

Requisito fondamentale ai fini della perpetrazione del delitto di diffamazione è inoltre la “comunicazione con più personedelle espressioni offensive. La comunicazione, pertanto, che nel caso concreto potrà avvenire sia a voce, sia per iscritto sia attraverso gesti o immagini, dovrà essere percepita o percepibile da almeno due persone. Per quanto di interesse in questa sede è doveroso ricordare che la Suprema Corte in proposito ha avuto modo di affermare come si verta in ipotesi di comunicazione con più persone anche quando l'agente comunichi in via riservata con una sola persona con la volontà “da parte dell'agente medesimo, dell'ulteriore diffusione delcontenuto diffamatorio attraverso il destinatario” (Cass.civ., sez. III,n. 11271/2020).

Terzo ed ultimo requisito è, per comune opinione, rappresentato dall'assenza dell'offeso. Tale elemento negativo della fattispecie lo si può si può senza dubbio desumere dalla clausola di esclusione contenuta nella fattispecie di cui all'art. 595 c.p. rispetto a quanto previsto dal (ormai ex) delitto di ingiuria.

Giova ricordare come i predetti elementi costitutivi siano stati di recente riconosciuti necessari e sufficienti ai fini di ravvisare il reato in parola anche dalla giurisprudenza di merito: “La realizzazione del reato di diffamazione richiede la contestuale ricorrenza dei seguenti elementi: a) l'assenza dell'offeso, da intendersi come impossibilità per il soggetto passivo di percepire la condotta diffamatoria e difendersi dall'addebito; b) la comunicazione, anche se non contemporanea e diretta, con più persone (almeno due), in grado di percepirne il contenuto; c) l'offesa all'altrui reputazione, quale opinione sociale dell'onore di una persona, attraverso l'utilizzo di espressioni attributive di qualità sfavorevoli o comunque idonee a gettare una luce negativa su quest'ultima” (Trib. Taranto, sez. I, 5 maggio 2021, n. 599).

Sotto il profilo soggettivo si segnala come la giurisprudenza sia ormai concorde nel ritenere che non solo il dolo generico ma anche quello eventuale, sub specie di accettazione del rischio di offesa, sia compatibile con la diffamazione (Cass. pen., sez. V, n. 8419/ 2013; Cass.pen., sez. V, n. 4364/2012). Sarà pertanto sufficiente che l'agente abbia la consapevolezza di utilizzare parole che potranno essere intrepretate come lesive dell'altrui reputazione mentre non è invece ritenuto necessario il dolo specifico ed in particolare il c.d. animus diffamandi cioè la finalità di arrecare un effettivo o potenziale nocumento alla reputazione della persona offesa (Cass. pen., sez. V, n. 4364/2012; Cass. pen., sez. V, n. 7597/1999).

Ora, esaurito questo breve ma necessario inquadramento della fattispecie di reato, vediamo se ed in che modo la sentenza in commento si sia attenuta ai suddetti principi nell'affrontare la questione sottopostagli.

Tre sono infatti i principali temi affrontati dalla pronuncia per effetto di specifici motivi di ricorso presentati dalla difesa dell'imputato: la comunicazione con più persone, la sussistenza dell'elemento psicologico e la ravvisabilità del diritto di critica.

Volendo partire dal requisito della comunicazione con più persone è a dirsi come la sentenza si sia nel caso di specie allineata al prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il reato si integrerebbe ugualmente quando l'agente, pur rivolgendosi ad una persona sola, per le modalità utilizzate, è certo che altri vengano a conoscenza delle frasi offensive (in questo caso perché pronunciate a voce alta; di questo avviso anche Cass. pen., 6 ottobre 1981, La Macchia, in Cass. Pen., 1983, p. 63). Deve in proposito considerarsi dato pacifico, stante l'assenza di censure sul punto da parte della difesa, che, pur essendosi svolti i fatti presso lo studio dell'avvocato diffamato, quest'ultimo non fosse presente al momento del fatto, nel qual caso ovviamente sarebbe venuto meno il delitto di diffamazione che, come noto, presuppone l'assenza dell'offeso. Si tenga infatti presente come la legge punisca più severamente l'autore della lesione alla reputazione proprio in considerazione dell'impossibilità da parte della vittima di “giustificarsi o ritorcere immediatamente l'offesa” (F. Antolisei, Manuale di Diritto Penale, Parte Speciale I, Milano, 1999, p. 201).

Quanto alla ricorrenza dell'elemento psicologico, la difesa, lamentando un errore di diritto nella interpretazione della norma, ha censurato la sentenza di merito per non avere considerato che l'imputato non voleva in realtà offendere la reputazione della persona offesa ma esporre una critica, anche se colorita, dell'operato del professionista (un avvocato).

Censura questa agevolmente respinta dalla Suprema Corte che, nel richiamare il citato orientamento, ha ribadito come, ai fini dell'integrazione del delitto di diffamazione non sia necessario l'animus diffamandi ma solo la consapevolezza di proferire frasi che potevano ledere l'altrui reputazione. Interpretazione questa peraltro assolutamente coerente con la natura di reato di pericolo della fattispecie di cui all'art. 595 c.p.

Né, afferma la Suprema Corte, è pensabile che nel caso di specie l'agente si sia limitato ad esprimere legittime critiche all'operato dell'avvocato che aveva assistito la sorella.

Osservazioni

Ora, muovendo proprio dal contesto in cui si sono svolti i fatti, la sentenza in commento ci offre l'occasione per ragionare intorno ai limiti dell'esercizio del diritto di critica nei confronti dell'operato di un professionista ed in particolare di un avvocato che, in ipotesi, potrebbe effettivamente avere commesso errori nella gestione di causa.

La via maestra pare essere quella tracciata dalla giurisprudenza di legittimità in materia di diffamazione a mezzo stampa la quale, come noto, ha in più occasioni richiamato il concetto “continenza” nella formulazione di una critica.

Evenienza questa che non può certo considerarsi verificata nel caso affrontato dalla sentenza di cui ci stiamo occupando.

L'agente, in presenza di terze persone, all'interno dello studio della persona offesa, rivolgendosi per di più ad una collega, dopo avere espresso severe censure sulle capacità professionali dell'avvocato che aveva assistito la sorella, lo avrebbe definito “stupido” ed “incapace”.

È assai arduo pertanto ipotizzare che una simile espressione possa costituire legittimo esercizio del diritto di critica dell'attività professionale prestata dal legale. Si tratta a ben vedere di un mero attacco personale del tutto avulso dall'attività che si intende censurare. Diverse pronunce di legittimità hanno infatti affermato come non possa in alcun modo essere scriminato l'utilizzo di espressioni quali “instabile”, “narcisista”, “imbecille” o “mascalzone” che, ben lungi dall'atteggiarsi a censura motivata dell'altrui operato, degradano ad attacco diretto nei confronti della sfera privata.

Del medesimo avviso la dottrina secondo cui quando i modi utilizzati sono di per sé offensivi concretizzandosi in contumelie e denigrazioni il diritto di critica dovrebbe ritenersi per ciò solo varcato (F. Antolisei, Manuale di Diritto Penale, Parte Speciale I, Milano, 1999, p. 209; nello stesso senso: M. Polvani, La diffamazione a mezzo stampa, Cedam, 1998, p. 63).

Lo stesso contesto (un incontro programmato presso lo studio di un professionista) in cui si sono svolti i fatti imponeva peraltro all'agente un particolare rispetto nei confronti dei suoi interlocutori che, peraltro, aveva liberamente scelto quali professionisti a cui affidarsi.

Da ultimo preme segnalate come la Suprema Corte, in un caso simile a quello in commento, abbia affermato come il sempre più frequente utilizzo di espressioni indelicate e svilenti non ne possa in alcun modo affievolire l'offensività: «Va cassata la sentenza del giudice di merito che in maniera del tutto apodittica statuisce che termini quale "stupido" e "cretino" costituiscano espressioni censurabili dal punto di vista comportamentale e nei rapporti sociali, ma prive di rilevanza penale; nel particolare caso di specie non si vede perché nei rapporti fra due soggetti in contenzioso per questioni debitorie dovrebbe intendersi sedimentata una sorta di sensibilizzazione a termini offensivi, che perderebbero, per consuetudine, rilevanza penale». (Cass.pen., sez. V, 15 gennaio 2013, n. 27980).

Guida all'approfondimento

F. Antolisei, Manuale di Diritto Penale, Parte Speciale I, Milano, 1999;

M. Polvani, La diffamazione a mezzo stampa, Cedam, 1998, p. 63);

M. Spasari, Diffamazione e ingiuria, Enc. del Diritto, Milano, Vol. XII.

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