Note in tema di fideiussione nulla e giudicato

Clara Letizia Riccio
22 Luglio 2021

Il contributo intende stabilire quale sia il regime giuridico di una fideiussione nulla, quando la medesima sia coperta da un provvedimento di natura giurisdizionale passato in giudicato. L'analisi e lo studio del fenomeno si spinge a rappresentare la possibilità di ritenere che il giudicato non possa coprire un rapporto fondamentale nullo e, pertanto, è possibile intraprendere una lite che abbia come obiettivo preminente proprio quello di ottenere una sentenza che declari la nullità dell'atto - nel nostro esempio la fideiussione invalida- affinché si possa superare l'exceptio iudicati.
Premessa

L'obiettivo del presente scritto è quello di stabilire quale sia il regime giuridico di una fideiussione nulla, quando la medesima sia coperta da un provvedimento di natura giurisdizionale passato in giudicato.

Si pensi al caso delle fideiussioni omnibus reputate nulle da provvedimenti qualificati di Banca di Italia che, tuttavia, rappresentano il contratto su cui è intervenuto, per esempio, un decreto ingiuntivo non opposto e perciò passato in giudicato. In questi casi anche un atto nullo - la fideiussione invalida - solo perché coperto dal decreto ingiuntivo su di esso fondato ma non opposto, diventa paradossalmente valido, per mancata impugnazione, e può rappresentare un titolo esecutivo per iscrivere ipoteca giudiziale ed incardinare un successivo pignoramento.

L'analisi e lo studio del fenomeno si spinge a rappresentare la possibilità di ritenere che il giudicato non possa coprire un rapporto fondamentale nullo e, pertanto, è possibile intraprendere una lite che abbia come obiettivo preminente proprio quello di ottenere una sentenza che declari la nullità dell'atto - nel nostro esempio la fideiussione invalida- affinché si possa superare l'exceptio iudicati, che ovviamente invoca la parte che ha interesse a mantenere saldo ed immune da censure il provvedimento.

Involge molteplici questioni; mettere in discussione:

  • il concetto stesso di giudicato formale e sostanziale.
  • il principio del ne bis in idem.
  • il principio che il giudicato copra il dedotto ed il deducibile.
  • il giudicato esterno, implicito ed in relazione alla problematica delle nullità sottese.
Giudicato in senso sostanziale

La disamina deve prendere l'abbrivio dall'art. 2907 c.c., a norma del quale «alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria su domanda di parte».

Fatto valere un supposto diritto in un giudizio, interviene un provvedimento del giudice, come prescrive l'art. 2909 c.c., a mente del quale si dirà che esso - si pensi ad una sentenza - farà «stato ad ogni effetto tra le parti, gli eredi e gli aventi causa».

È il tratto peculiare delle sentenze che contemplano un accertamento relativo ad un diritto (o uno status).

Più segnatamente, il diritto fatto valere a mezzo della domanda non è altro che l'oggetto della sentenza stessa e del giudicato che, sull'accertamento in essa contenuto, si forma. In particolare, la res iudicata può lapalissianamente qualificarsi come l'accertamento della volontà della legge codificato nella sentenza, tale che quest'ultima «debba tenersi in futuro come norma immutabile del rapporto deciso» (G. Chiovenda, Sulla cosa giudicata), di guisa che «nessun giudice possa accogliere domande dirette in qualsiasi modo a togliere o diminuire ad altri un bene della vita conseguito in virtù di un precedente atto di tutela giuridica rispetto alla stessa persona» (ibidem).

Ergo, la cosa giudicata in senso sostanziale è l'autorità che ha il provvedimento in futuro.

La “cosa giudicata” in senso formale: la teoria “processuale” e la teoria “sostanziale”, una sterile dicotomia

La normativa che tesse la trama della cosa giudicata in senso formale ci proietta alla finalità ed allo scopo di conferire una stabilità della sentenza; in aderenza all'art. 324 c.p.c., il giudicato formale si realizza quando il provvedimento summenzionato non è più impugnabile con i mezzi ordinari, con conseguente sanatoria di tutti i vizi, sia di giudizio sia di procedura, fatti salvi ed esclusi quelli che ne determinano l'inesistenza e quelli che giustificano la proposizione dei rimedi straordinari, ex art. 326 c.p.c.

Se ne deduce, quindi, che il giudicato formale e quello sostanziale, pur essendo istituti distinti, sono complementari: l'uno è il presupposto dell'altro.

La formula “processuale” - l'atto non può più essere impugnato, perché sono decorsi i termini previsti dalla legge, il codice di rito - impone che «l'osservanza della cosa giudicata si risolve in una “norma processuale di comportamento” per il giudice futuro: la sentenza passata in giudicato sarebbe vincolante per le parti, ma solo come conseguenza del vincolo per il giudice» (così, R. Caponi, L'efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, Giuffrè, 1991, 227).

Il giudicato si dice, invece, sostanziale, perché contiene precetti disciplinanti direttamente il comportamento delle parti, intorno al bene dedotto in giudizio.

Il problema sta nel fatto che, secondo la teoria tradizionale, tale vincolo avvolge e copre anche ipotesi di nullità sottostanti, che né le parti né il giudice hanno visto ed esaminato. Ne consegue che le parti debbano improntare il loro comportamento in ottemperanza all'accertamento giudiziale, così come il giudice futuro non può discostarsi da quest'ultimo, anche nell'ipotesi in cui sia stato riscontrato un diritto inesistente o, viceversa, quando sia stato negato un diritto in realtà esistente (R. Caponi, op. cit., passim).

Siamo al fenomeno che il giudicato conferisca efficacia costitutiva anche alla sentenza ingiusta, perché copre una nullità insanabile.

Eppure, è draconiano richiamare il principio di chiovendiana memoria, in ragion del quale il giudicato si amplia al rapporto dedotto e si estende ai rapporti pregiudiziali, i quali verrebbero sì conosciuti dal giudice, ma non accertati.

In altri termini, pur in presenza di una nullità sottostante che il Giudice non vede e non accerta, con il suo provvedimento - sentenza, decreto ingiuntivo - conferisce tutela al richiesto, al dedotto. La parte soccombente non impugna, e la sentenza o il decreto ingiuntivo non opposto passa in giudicato.

Caliamo questo ragionamento in relazione alle fideiussioni nulle. Il Giudice del monitorio non vede e non provvede circa la nullità della fideiussione, questione preliminare, pregiudiziale, eppure concede il decreto ingiuntivo, tutela il credito del ricorrente. L'ingiunto non solleva e non spiega opposizione alcuna: il decreto ingiuntivo passa in giudicato, anche al cospetto di un rapporto fondamentale nullo.

La pregiudizialità tecnica e la pregiudizialità logica

Si affaccia irruentemente un doveroso interrogativo: è legittimo che il giudicato possa avviluppare anche rapporti o questioni pregiudiziali mai passate al vaglio dell'organo giudicante? È pressoché apodittico che la risposta da parte della giurisprudenza sia affermativa: con la sua pronuncia il giudice copre e risolve anche la questione preliminare, senza averla neppure esaminata, e perché le parti non glielo hanno chiesto e perché lui non se n'è accorto: nel senso che la cosa giudicata imbriglia anche il rapporto giuridico fondamentale per il solo fatto che esso abbia costituito un passaggio obbligato nell'iter argomentativo del giudice (quest'ultimo ne abbia conosciuto per decidere del diritto dipendente), a prescindere da richieste di parte o previsioni di legge intorno alla produzione di tali effetti.

Eppure, ogni dubbio viene fugato, se si guarda al dettato codicistico dell'art. 34 c.p.c., in virtù del quale “il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest'ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui”.

A tal proposito, Andrea Proto Pisani assevera che l'art. 34 c.p.c. esclude tangibilmente che il giudicato, in mancanza di una manifesta domanda in tal senso o di una volontà di legge, possa estendersi al diritto o rapporto pregiudiziale (così, A.P. Pisani, Appunti sul giudicato civile, Napoli, 1996).

Ancor di più, tale posizione è corroborata da Giovanni Verde, il quale, a ragione, asserisce che «l'art. 34 c.p.c. non affida al giudice il compito di stabilire che cosa va deciso con efficacia di giudicato, ossia non affida al giudice il potere di determinare i confini del conflitto o i limiti della discussione, ma lo riserva alle parti e alla legge. Il giudice è tenuto a rispettare le indicazioni delle parti o le imposizioni della legge», indi ragion per cui «l'estensione dei limiti oggettivi del giudicato, laddove non vi sia una specifica richiesta delle parti, è l'eccezione e deve trovare giustificazione in una espressa e non equivoca disposizione di legge» (G. Verde, Considerazioni inattuali su giudicato e poteri del giudice, in Riv. Dir. Proc., 2017, 1, 13).

Ebbene, non può che concludersi, quindi, che nelle circostanze in cui il potere giurisdizionale si arroga superbamente il diritto di ampliare a dismisura i limiti di cui sopra, in nome di tanto declamate esigenze di economia processuale e della penuria di risorse economiche, ciò ineluttabilmente determina l'impiego di un potere nitidamente arbitrario da parte dell'organo giudicante, dal momento che egli non è né vincolato alle richieste delle parti né legittimato da un preciso ordine normativo. Vale a dire che «il giudice fa questa operazione esercitando l'imperium, senza attenersi alla scientia. Non risolve la singola controversia, su cui deve interloquire, ma si preoccupa di un'esigenza di carattere generale di cui non è e non può essere responsabile» (G. Verde, op. cit., ibidem).

È d'uopo riprodurre le parole di Proto Pisani, quando afferma che «la giurisprudenza ha nella sostanza ignorato l'emanazione dell'art. 34 c.p.c. e, sulla base della massima tralaticia dell'estensione del giudicato agli antecedenti logici necessari, molto spesso intende i limiti oggettivi del giudicato in modo estremamente lato, comprensivo dei rapporti c.d. pregiudiziali: giungendo fino a ritenere che il giudicato si estenda anche ai rapporti pregiudiziali di cui il giudice non ha conosciuto, poiché non erano stati trasformati dai punti in questioni pregiudiziali» (A.P. Pisani, op. cit., ibidem).

L'oggetto del giudicato e l'antecedente logico-necessario

Per amor di precisione, vale la pena continuare a sciorinare quanto disaminato da Proto Pisani. L'insigne studioso muove dal quesito in ordine al quale il giudicato si costituisca sulla singola coppia pretesa-obbligo dedotta in giudizio in qualità di petitum o, invece, necessariamente anche sul rapporto giuridico nel suo complesso di cui è parte o su cui si fonda la singola coppia di cui sopra?

In altri termini, il dilemma pertiene all'oggetto del processo, in particolare se esso sia determinato

- sulla base della sola domanda dell'attore, per cui può limitarsi alla coppia pretesa-obbligo, immediatamente rilevata in giudizio;

- si dirami all'intero rapporto a cui quest'ultima appartiene e ciò, a prescindere dalla contestazione del convenuto;

- sia circoscritto non solo dall'oggetto della domanda attorea, ma anche dalle difese del convenuto che detengono la potenzialità di rendere controverso l'intero rapporto complesso alla base.

Si riporti l'esempio dell'erede che faccia valere in giudizio il diritto al pagamento del prezzo derivante dal contratto di compravendita stipulato dal de cuius. Il diritto dedotto in ambito processuale sarà inesistente sia nel caso in cui l'attore non sia vero erede, sia nella fattispecie in cui il contratto sottoscritto dal medesimo de cuius sia inesistente, nullo, annullabile ecc.

Sicché, le spinte centripete della giurisprudenza hanno incessantemente corroborato la tesi secondo la quale «nell'ipotesi di questione pregiudiziale in senso logico, l'efficacia del giudicato copre, in ogni caso, non soltanto la pronuncia finale, ma anche l'accertamento che si presenta come necessaria premessa o come presupposto logico-giuridico della pronuncia medesima» (Cfr. Cass. 11 maggio 2012, n. 7405, cit.; Cass. 29 aprile 2009, n. 10027; Cass. 7 novembre 2005, n. 21490; Cass. 16 novembre 2004, n. 21703; Cass. 21 giugno 2000, n. 8447; Cass. 19 gennaio 1999, n. 462; Cass. 7 marzo 1995, n. 2645; Cass. 9 giugno 1995, n. 6532).

Il che implica che se il Giudice non ha delibato l'antecedente logico giuridico - l'essere erede, la validità o meno del contratto e nemmeno le parti con le rispettive difese vi hanno fatto cenno, seppur questioni invalide - non è erede, è nullo il contratto - la sentenza non impugnata passa in giudicato, che farà stato tra le parti, diventa intangibile e titolo esecutivo, anche se, paradossalmente, intrinsecamente nullo.

Il giudicato implicito. La dilatazione dei limiti oggettivi della res iudicata: un discutibile atteggiamento della giurisprudenza

Da tale postulato del diritto giurisprudenziale sorge il collegamento – ritenuto necessario – con la nozione di giudicato implicito, destinato a prodursi ogni qualvolta la cosa giudicata si estende al rapporto fondamentale per il solo fatto (ed in quanto) esso sia costruito quale antecedente logico necessario del ragionamento giudiziale volto alla decisione sul diritto pregiudicato. In diversi termini, con l'assunto secondo cui «il giudicato copre anche l'indispensabile presupposto logico-giuridico della pronuncia, altro non si vuol dire se non che è la logica interna al rapporto giuridico a qualificare come necessario il giudicato sui vari effetti che ne possono derivare, affrancandolo dall'esplicita richiesta della parte o dalla volontà di legge» (così, Cass. 11 maggio 2012, n. 7405).

Eppure, è irrefutabile che le suddette argomentazioni, colonne portanti della più larga espansione del giudicato al rapporto giuridico fondamentale, spianano la strada al rischio di imprimere sfuggenti confini alla cosa giudicata. Tale rischio è evidentemente percettibile quando si esclude dall'esame e capita spesso l'accertamento dirimente sulla questione pregiudiziale. Proprio perché nulla è detto dal Giudice e dalle parti ma la questione fa parte dell'incarto processuale, anche se non delibata è implicitamente decisa.

Per di più, l'identificazione fra giudicato implicito e pregiudizialità logica, confortata dalla corrente maggioritaria della giurisprudenza, non solo non tiene conto «del che, come invece ben noto, nell'alveo del giudicato implicito si ritengono confluire anche questioni ben diverse da quelle pregiudiziali logiche, specie le questioni pregiudiziali di rito», ma soprattutto del fatto che «se, come detto, il giudicato implicito comunque presuppone sempre una volontà decisoria, ancorché inespressa, la concentrazione della cognizione giudiziale sul mero fatto modificativo, impeditivo o estintivo, con esclusione della verifica completa della fattispecie costitutiva del diritto dedotto in giudizio, rende impossibile postulare l'estensione della cosa giudicata sulla questione pregiudiziale logica» (così, S. Recchioni, Rapporto giuridico fondamentale, pregiudizialità di merito c.d. logica e giudicato implicito, in Riv. Dir. Proc., 2018, 6, 1595).

Occorre onorare la memoria di Lancellotti, il quale proferiva che «conoscere non vuol dire affatto decidere, ossia, esternare quella volontà decidente che, soltanto quale substrato di vero accertamento giudiziale, può far aspirare il relativo prodotto alla regiudicata» (F. Lancellotti, Variazioni dell'implicito rispetto alla domanda, alla pronuncia e dal giudicato, in Riv. Dir. Proc., 1980, 465 ss.).

Ergo, l'assorbimento delle questioni pregiudiziali, ormai prassi consolidata del diritto giurisprudenziale, nonché, come già in precedenza sottolineato, pietra miliare dell'economia processuale, «acquista portata sostanziale in quanto l'effetto preclusivo collegato al giudicato finisce col riguardare anche ciò che non è stato oggetto di dibattito processuale; il che avviene per una ritenuta incompatibilità fra quanto si è accertato e definitivamente fissato e ciò che potrebbe essere ancora oggetto di discussione. Il giudicato, in tal modo, si estende alle situazioni che il giudice avrebbe potuto e dovuto esaminare in via pregiudiziale rispetto a ciò che è stato l'oggetto specifico della sua decisione» (G. Verde, op. cit., ibidem).

Malgrado ciò, è invidiabile la sperticante coerenza della giurisprudenza che, nonostante le “ingombranti” avvisaglie della dottrina summenzionate, persevera in un'invereconda dilatazione dei limiti oggettivi della res iudicata, non solo trasgredendo il diritto positivo (art. 34 c.p.c.), ma anche schierandosi contro una lampante evidenza.

Le sentenze “gemelle” della Cassazione. La problematica delle nullità contrattuali e della loro rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado del processo. Le risposte della dottrina

Ordunque, è imperativo il riferimento alle sentenze delle S.U., n. 26242 e n. 26243 del 12.12.2014, attinenti ad un giudizio di impugnativa negoziale (nella specie, una domanda di risoluzione contrattuale), in ordine alla quale, tuttavia, si poneva in dubbio la validità del contratto. La Cassazione, in questa sede, ha tratteggiato un vero e proprio “sistema” delle impugnative negoziali e dell'azione di nullità.

In special modo, il thema decidendum si trasfondeva nella rilevabilità d'ufficio della nullità del contratto da parte del giudice, a norma dell'art. 1421 c.c. È sempre rilevabile, cioè, la nullità del contratto ad opera del giudice, indipendentemente dal tipo di azione proposta, puntualizzando sul fatto che non sempre al rilievo dell'invalidità seguirà la dichiarazione della stessa, potendo il giudice optare per una pronuncia fondata sulla ragione più liquida di rigetto della domanda, in forza dei principi di speditezza, economia e celerità delle decisioni, oppure più semplicemente escludere l'invalidità, re melius perpensa, alla luce dell'istruttoria svolta?

È palmare che tali statuizioni siano state bersaglio di pioventi contestazioni. Ciononostante, occorre precipuamente testificare che sembra lampante l'obiettivo da parte della Corte di legittimità di ampliare quanto più possibile i limiti della cosa giudicata, svincolandoli così dall'iniziativa di parte, per imbrigliarli nell'accertamento giudiziale nella sua obiettività.

Per amor di precisione, è d'uopo porre l'accento sul fatto che, nell'impostazione privilegiata dalle Sezioni Unite, non emerge schiettamente l'intelaiatura di un rifiuto in merito alla regola dell'antecedente logico necessario, dal momento che tali scelte devono talora essere condivise per ragioni “di sistema”, più che per stringenti regole tecniche, per l'esigenza, cioè, di tutelare i “valori funzionali del processo”, quali la corrispettività sostanziale, l'armonizzazione e concentrazione delle decisioni, l'effettività della tutela, la giustizia delle decisioni, l'economia (extra)processuale, la non illimitata risorsa-giustizia, la lealtà e probità processuale, l'eguaglianza formale tra le parti (si veda il punto 4.3 della motivazione).

Inoltre, nel fuligginoso ordito della pronuncia in questione, il giudice di legittimità sembra voler confessare di soppiatto la sua non capillare adesione al postulato del giudicato implicito, in primis appellandosi al diritto positivo. Si legge, infatti: «va osservato come, al di là delle varie posizioni assunte dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza di questa Corte, il nostro ordinamento positivo non riconosca cittadinanza all'idea di un giudicato implicito che postuli il rigoroso e ineludibile rispetto dell'ordine logico-giuridico delle questioni» e, ancor di più, si staglia in prima linea l'insistente riferimento alla sentenza 14828 del 4 settembre 2012, sempre ad opera delle Sezioni Unite.

Nel corpus di tale provvedimento nomofilattico, dunque, emerge che: «pur ponendosi nella linea della rilevabilità officiosa del contratto ex art. 1421 c.c. anche nell'ipotesi di domanda di risoluzione di esso, (la Cassazione) ha osservato che la pronunzia di rigetto non costituisce giudicato implicito - con efficacia vincolante nei futuri giudizi - laddove le questioni concernenti l'esistenza, la validità e la qualificazione del rapporto che ne costituisce il presupposto logico-giuridico non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice». Indi ragion per cui, come illustrato dalla S.C. nel 2014, «la locuzione finale che si legge al punto 2.4. della sentenza poc'anzi ricordata […] scomposta e semplificata, sembra invece significare che la formazione del giudicato implicito sulla validità del contratto è esclusa per quelle decisioni prive di statuizioni implicanti (e cioè dalle quali implicitamente desumere) l'affermazione della validità del contratto. Dunque, il giudicato implicito sulla non nullità andrebbe a formarsi con riferimento a quelle sole decisioni contenenti statuizioni che implichino (e dunque non affermino esplicitamente) la ritenuta validità del contratto. La mancanza di statuizioni da cui ricavare, per implicito, un riconoscimento di validità contrattuale sarebbe, pertanto, ostativa al formarsi del giudicato implicito sulla non nullità del negozio».

Ebbene, guardando al passato, è lapalissiano il costante richiamo da parte della S.C. dell'obbligo riscontrantesi nell'art. 1421 c.c.: il giudice deve rilevare ex officio la nullità, dal momento che «la funzione dell'art. 1421 c.c. è di impedire che il contratto nullo, sul quale l'ordinamento esprime un giudizio di disvalore, possa spiegare i suoi effetti», poiché è d'uopo «evidenziare in giudizio la mancanza di fondamento di una domanda che presupponga la sussistenza dei requisiti di validità del contratto» (Cass. n. 14828 del 2012). Ancor di più, se tale dettato prende le mosse da una statuizione della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, Sez. 4, 4 giugno 2009, causa 0243/08 che «ha stabilito che il giudice deve esaminare d'ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e, in quanto nulla, non applicarla, tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga» (Ibidem).

Ergo, a dispetto della littera legis (che, all'interno dell'art. 1421 c.c., ricalca l'uso del termine “può” e non anche “deve”, riguardo all'operato del giudice), si può dire ormai acquisita la «consapevolezza del concetto di dovere dell'ufficio di rilevare la nullità ogniqualvolta il contratto sia elemento costitutivo della domanda» (Ibidem).

Ciò, in quanto «il giudice che ritenga, dopo l'udienza di trattazione, di sollevare una questione rilevabile d'ufficio e non considerata dalle parti, deve sottoporla ad esse al fine di provocare il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle opportune difese, dando spazio alle consequenziali attività. La mancata segnalazione da parte del giudice comporta la violazione del dovere di collaborazione e determina nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell'esercizio del contraddittorio, con le connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria» (Ibidem).

Eppure, se così imprescindibile è rilevare la nullità ad opera del giudice, al contrario «il giudicato sulla validità del contratto, secondo il paradigma ormai invalso, (cfr. Cass. sez. un. n. 24883 del 2008; n. 407 del 2011; n. 1764 del 2011)potrà formarsi tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito, con esclusione delle sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l'affermazione della validità del contratto».

È inconfutabile che «un abuso del giudicato implicito corra il rischio di sfociare nella patologia con effetti pregiudizievoli per le parti. Dire che, qualora il giudice abbia deciso la causa nel merito – ad esempio sulla risoluzione del contratto – la sentenza è destinata a produrre un giudicato implicito sulla validità del negozio, significa ammettere che la cosa giudicata si produca su questione, non solo non dedotta in giudizio dalle parti, ma neppure rilevata d'ufficio dal giudice, né resa oggetto di discussione.

Così facendo, se da un lato si produce il vantaggio di estendere la potenziale stabilità della decisione oltre la domanda di parte (pure su questioni non discusse, ma oggetto implicito del ragionamento logico giudiziale) – evitando che di validità del contratto si torni a discutere in futuro – dall'altro, si sacrifica il diritto di difesa delle parti, vincolate ad una decisione su questioni mai trattate in corso di causa.

L'obiezione non è diversa da quella che si può muovere al principio dell'antecedente logico necessario: il quale, se da un lato, ha il pregio di assicurare stabilità alla pronuncia, dall'altro, finisce per vincolare le parti senza che esse si siano consapevolmente difese su profili implicitamente esaminati, ma mai dichiarati» (R. Tiscini, Itinerari ricostruttivi intorno a pregiudizialità tecnica e logica, in Riv. Trim. Giustiziacivile.com, n. 3, 2016).

Tant'è vero che «sembra che qui emerga un eccesso della prospettiva giuspubblicistica che, in nome dell'esigenza di evitare il più possibile la celebrazione di diversi processi in relazione ad un medesimo contratto, finisce per decurtare di molto il liberale principio della domanda. Oltretutto con la ancor meno liberale conseguenza di lasciare le parti in balia del giudice, che potrebbe anche ridurre l'oggetto del processo in virtù dell'uso di una ragione più liquida» (M. Bove, Rilievo d'ufficio della questione di nullità – Rilievo d'ufficio della questione di nullità e oggetto del processo nelle impugnative negoziali, in Giur. It., 2015, 6, 1386).

Alla luce di quanto riprodotto, è cristallino ormai che all'interrogativo di cui sopra circa la possibilità dell'attore o convenuto di proporre una domanda autonoma, onde rilevare la patologia di nullità o invalidità affliggente il contratto pregiudiziale, posto alla base, e quindi postulato pregiudiziale dell'impugnativa negoziale, la dottrina risponda, senza ombra di dubbio, affermativamente.

Nelle pieghe delle sentenze gemelle e nella parte motiva queste considerazioni sembrano accolte anche dalla Corte Suprema: vale a dire che, se si persegue l'intento di mettere in discussione un giudicato derivante da una sentenza o decreto ingiuntivo non opposto, occorre avviare un'azione autonoma il cui oggetto è il prius, l'antecedente logico giuridico.

Indi ragion per cui, se il giudice non ha reso alcun accertamento sul rapporto fondamentale - la nullità della fideiussione - perché non sollecitato dalle parti o per sua sciatteria o pigrizia argomentativa, la parte non si trova al cospetto di un giudicato implicito o di un deducibile che gli impedisca - non potendo ottenere la revocazione - che con un'azione autonoma si prenda di petto la questione di nullità, non trattata dal giudice medesimo. La sentenza o il decreto ingiuntivo non opposto, seppur giudicato formale, non impedisce che l'organo giudicante possa sindacare la sussistenza o meno della nullità totale o parziale della fideiussione

o anche del rapporto fondamentale, posto alla base.

Le atipicità dei giudici milanesi: la superabilità del giudicato

Ciononostante, non bisogna trascurare talune atipicità che spiccano nell'anodino marasma giurisprudenziale. Di rilievo è l'ordinanza emessa dal Tribunale di Milano il 31.10.2019, che continuativamente evoca la giurisprudenza della Corte di Giustizia che, seppur in presenza di determinate condizioni, ha ammesso la superabilità del giudicato.

In special modo, due sono le sentenze in ordine alle quali tale fenomeno si è verificato:

- nella decisione del 6 ottobre 2009, C-40/08, la Corte ha escluso che un giudice spagnolo, investito di una domanda di esecuzione forzata di un lodo arbitrale non impugnato e formatosi all'esito di procedimento al quale il consumatore non ha partecipato, potesse agire d'ufficio. In particolare, la Corte ha comunque ritenuto superabile il giudicato sulla base del principio di equivalenza ed ha quindi affermato che “qualora un giudice nazionale investito di una domanda per l'esecuzione forzata di un lodo arbitrale definitivo debba, secondo le norme procedurali interne, valutare d'ufficio la contrarietà di una clausola compromissoria con le norme nazionali d'ordine pubblico, egli è parimenti tenuto a valutare d'ufficio il carattere abusivo di detta clausola alla luce dell'art. 6 della direttiva 93/13”. Tale normativa, infatti, statuisce che “gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive”.

- nella pronuncia del 26 gennaio 2016, C-421/14,la Corte ha emanato tale principio: "in presenza di una o di più clausole contrattuali la cui eventuale abusività non sia stata ancora esaminata nell'ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un'opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d'ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l'eventuale abusività di tali clausole".

Sulla scorta delle suddette decisioni, il Tribunale meneghino avanza il dubbio se le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche, alla base del giudicato stesso, siano tali da produrre medesimi effetti, in termini di stabilità della pronuncia, tanto in caso di giudicato esplicito, quanto in caso di giudicato implicito, ovvero se gli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE, letti alla luce dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, consentano il superamento del giudicato implicito allorquando la decisione passata in giudicato (implicito) sia manifestamente in contrasto con il diritto ad un rimedio effettivo. A tal proposito, infatti, afferma che il giudicato implicito trova fondamento nell'argomento logico per il quale se il giudice si è pronunciato su una determinata questione ha, evidentemente, risolto in senso non ostativo tutte le altre questioni da considerare preliminari rispetto a quella esplicitamente decisa (in questo senso, v. Cass., S.U., 12 dicembre 2014, n. 26242). Non necessariamente, tuttavia, un simile argomento logico corrisponde all'iter decisionale concretamente percorso dal giudice e, in ogni caso, per definizione, un simile iter logico non è mai manifestato, non potendo quindi escludersi taluni possibili profili di incertezza in ordine all'effettivo oggetto della decisione”.

Ma non finisce qui.

Lo stesso tribunale, nell'anno 2020, ha emesso un'ulteriore ordinanza (n. 27134), in ragion della quale i giudici meneghini hanno asserito che «si ritiene conformemente a quanto statuito anche recentemente dalla S.C., con riferimenti proprio a delle nullità dei contratti a valle delle fideiussioni omnibus, che, non potendosi maturare preclusioni o giudicati impliciti in materia di nullità rilevabili d'ufficio, il potere di rilievo officioso della nullità del contratto per violazione delle norme sulla concorrenza spetta al giudice investito del gravame relativo ad una controversia sul riconoscimento di una pretesa che suppone la validità ed efficacia del rapporto contrattuale, oggetto di allegazione e che sia stata decisa dal giudice di primo grado, senza che questi abbia prospettato ed esaminato, né le parti abbiano discusso, di tale validità ed efficacia, trattandosi di questione afferente ai fatti costitutivi della domanda ed integrante, perciò, un'eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio anche in appello (cfr. Cass. 4175/2020; Cass. S.U. 7294/2017; Cass. 8841/2007; Cass. 19251/2018). Nel caso di specie, infatti, è circostanza pacifica che nel giudizio di opposizione né le parti, né tantomeno il tribunale adito abbiano mai sollevato la questione relativa alla nullità dei contratti di fideiussione omnibus a valle delle singole clausole, attuativi di un'intesa posta in essere tra imprese per ledere la libera concorrenza. In difetto di ciò, è dunque possibile, per la parte che si ritiene lesa, agire in un separato giudizio, proponendo una domanda di nullità del contratto o delle singole clausole, potendo sollevare tale eccezione, per altro rilevabile anche d'ufficio […] potenzialmente anche nel giudizio davanti alla S.C.».

Ebbene, se tale pronuncia costituisce una patente eccezione, allo stesso tempo non è sacrilego ritenere che l'atteggiamento che cinge l'intera giurisprudenza si ispiri sì ad un'inveterata esigenza di economia processuale, ma soprattutto ad un'interinale pigrizia, che conduce i giudici ad inerpicarsi solo a delle massime telegrafiche, scarne e laconiche, non addentrandosi mai tra i meandri, nemmeno troppo arcani, delle parti motive delle sentenze stesse, non osando mai sviscerarle nella loro intrinseca essenza.

E non solo. Il principio secondo cui il giudicato inviluppi sia il “dedotto” sia il “deducibile”, sulla scorta di quanto acclarato precedentemente, si affaccia come un anemico pretesto, un lacunoso alibi che il diritto vivente adopera, affinché non si moltiplichino i processi; in altri termini, per non sfacchinarsi ad indagare circa una data questione, ma lasciare la stessa tra le briglie di capisaldi giurisprudenziali innalzatisi sulle fondamenta di una lasciva trascuratezza, di un abietto disinteresse.

Attualissime sono le parole di Giovanni Verde: «stiamo celebrando il tramonto del positivismo giuridico, che era visto anche come uno scudo protettivo contro il rischio di involuzioni autoritarie. Viviamo da tempo in democrazia e abbiamo fiducia che essa non debba essere protetta. Abbiamo, pertanto, cominciato a coltivare l'idea di un nuovo giusnaturalismo fondato sull'esaltazione dei diritti fondamentali ed irrinunziabili quali per solito sono fissati nelle carte costituzionali e in quelle delle comunità internazionali. In questo modo apriamo le porte ad un governo dei giudici» (G. Verde, op. cit., ibidem).

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