Conseguenze del licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto con contratto di somministrazione a termine anch'esso illegittimo
22 Luglio 2021
Massime
L'utilizzatore deve essere in grado in ogni momento di dimostrare il legittimo impiego del lavoratore somministrato, anche mediante fatti e documenti che possano essere in possesso della sola agenzia di somministrazione.
La somministrazione a termine irregolare determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ma, in caso di licenziamento, non spetta l'indennità omnicomprensiva prevista per le ipotesi di conversione del contratto a termine illegittimo poiché viene meno il presupposto ontologico (la cessazione del rapporto ex contractu) che ne dà diritto.
Il mancato perfezionamento del processo di trasmissione postale di un plico non consente di ritenere giuridicamente conosciuta dal destinatario la contestazione disciplinare.
La mancanza della contestazione disciplinare rende giuridicamente inesistente il fatto posto alla base del licenziamento e, nel regime delle «tutele crescenti», rende applicabile la tutela dell'art 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015. Il caso
Nel caso esaminato dalla sentenza in commento, un lavoratore era stato assunto con un contratto di somministrazione a termine stipulato con l'agenzia il 6 luglio 2018 e decorrente dal 9 luglio 2018; il contratto è stato oggetto di due successive proroghe (la prima fino al 27 ottobre 2018 e la seconda fino al 22 giugno 2021) ed è cessato il 23 settembre 2019 per effetto del licenziamento per giusta causa irrogato dall'agenzia: dunque ben prima della sua naturale scadenza.
Ricordiamo che proprio in quel periodo veniva varato il D.L. 12 luglio 2018, n. 87 («Decreto Dignità») in vigore dal 14 luglio 2018.
Il lavoratore ha impugnato il contratto, tra l'altro, per violazione dei limiti quantitativi (c.d. «clausole di contingentamento») previsti per i contratti di somministrazione a termine; e il licenziamento, per mancanza della contestazione disciplinare.
Il Tribunale ha accolto pressoché totalmente le domande del lavoratore, riconoscendo:
Le questioni giuridiche
Le questioni analizzate dalla sentenza in esame riguardano sia il contratto di somministrazione, sia il licenziamento.
Con riferimento al contratto, sono sorte le seguenti questioni:
Con riferimento, invece, al licenziamento, le questioni sorte sono le seguenti:
Soluzioni giuridiche e osservazioni
Con riferimento al primo punto affrontato, ossia la legittimità o meno del contratto di somministrazione, il lavoratore ricorrente ha rilevato come il contratto abbia violato la normativa che, al fine della valida stipulazione di un contratto di somministrazione a termine, richiede che sussistano ragioni di carattere temporaneo e che vengano rispettati determinati limiti quantitativi nel rapporto numerico tra lavoratori somministrati e dipendenti a tempo indeterminato.
Le società resistenti, viceversa, hanno sostenuto la legittimità del contratto, poiché disciplinato dalla normativa (artt. 30 e segg., D.Lgs. n. 81/2015) in vigore prima dell'intervento del D.L. 12 luglio 2018, n. 87 («Decreto Dignità»), e, comunque, poiché il lavoratore rientrava tra quelli «svantaggiati» o «molto svantaggiati», con la conseguente esclusione dell'applicabilità dei limiti quantitativi.
Nell'accogliere la tesi del lavoratore, il Tribunale ha innanzitutto osservato come già la norma in vigore al momento della sottoscrizione del contratto (l'art. 31, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015) prevedesse che i contratti di somministrazione a tempo determinato dovessero rispettare i limiti quantitativi previsti dal CCNL applicato dall'utilizzatore (che, nel caso esaminato, era pari a massimo il 12% della media annua della totalità dei dipendenti a tempo indeterminato adibiti al singolo appalto). La stessa difesa della società indicava 80 lavoratori a tempo indeterminato e 14 somministrati a termine (mentre il numero massimo ammissibile sarebbe stato di 9,6).
Il Tribunale ha poi respinto la tesi difensiva della società secondo cui il lavoratore ricorrente sarebbe sfuggito ai limiti percentuali per via della sua posizione peculiare. Ricordiamo infatti che i predetti limiti non si applicano:
La società utilizzatrice resistente aveva sostenuto che il lavoratore appartenesse all'ultima categoria. Il Tribunale ha tuttavia evidenziato che la stessa utilizzatrice avrebbe dovuto fornire la prova di quanto affermato.
La società, tuttavia, si era limitata a dire che il lavoratore era un soggetto «svantaggiato» oppure «molto svantaggiato», sostenendo di non poter essere più precisa poiché tali informazioni erano in possesso dell'agenzia di somministrazione. Ad avviso del Tribunale, la società utilizzatrice, in quanto unico soggetto esposto alle eventuali pretese da parte del lavoratore in caso di somministrazione irregolare, deve essere in grado in ogni momento di dimostrarne il legittimo impiego. Altrimenti rimane esposta alle conseguenze dell'irregolarità.
Pertanto, i limiti quantitativi risultavano violati, con conseguente illegittimità del rapporto di somministrazione e costituzione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell'utilizzatore con inizio dalla decorrenza del contratto di somministrazione (art. 38, D.Lgs. n. 81/2015).
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Il Tribunale ha, tuttavia, respinto la domanda del lavoratore volta ad ottenere la condanna dell'utilizzatrice al pagamento dell'indennità prevista dall'art. 39, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015. Tale norma prevede che l'indennità sia dovuta a seguito di cessazione del rapporto ex contractu e non, come invece è avvenuto nel caso in esame, a seguito di licenziamento. Questo è stato chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass.n. 16052/2019 e Cass. n. 2893/2019), secondo cui l'automatismo della condanna deriva dall'esistenza del c.d. «periodo intermedio da risarcire», che intercorre tra la scadenza del contratto e la pronuncia giudiziaria. Il licenziamento, antecedente alla scadenza del contratto, fa venire meno l'applicabilità della norma, con la conseguenza che l'indennità risarcitoria non è dovuta.
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Minor fortuna, per la società, ha invece sortito la decisione in tema di licenziamento.
Il Tribunale ha dapprima chiarito che il licenziamento irrogato dall'agenzia di somministrazione, formale datrice di lavoro, è sempre imputabile all'utilizzatore. Lo prevede l'art. 38, comma 3, secondo periodo, D.Lgs. n. 81/2015, a mente del quale: «tutti gli atti compiuti ho ricevuti dal suo amministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo si intendono come compiuti ho ricevuti dal soggetto che effettivamente utilizzato la sua prestazione».
Ad avviso del Tribunale, tale conclusione non viene contraddetta, nel caso di specie, dall'art. 80-bis, D.L. n. 34/2020, secondo il quale la predetta norma deve essere interpretata: «nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento».
Quest'ultima norma, infatti, avendo portata innovativa - e non interpretativa - si applica solo pro futuro, con la conseguenza che il licenziamento, anteriore alla sua entrata in vigore della norma, è disciplinato dalle norme vigenti al tempo della sua irrogazione (23 settembre 2019), rimanendo imputabile all'utilizzatore. Ha spiegato il Tribunale che la norma citata non può essere considerata interpretazione autentica poiché non dirime alcun contrasto giurisprudenziale, né attribuisce al testo originario uno dei suoi possibili significati (Corte Cost. nn. 271/2011, 209/2010 e 24/2009); se invece lo fosse, non sarebbe soggetta al principio per cui la legge dispone solo per l'avvenire. Un'ulteriore conferma risiederebbe nella giurisprudenza che, con riferimento all'abrogato art. 27,comma 2, secondo periodo, D.Lgs. n. 276/2003 – il quale conteneva la medesima disposizione di cui all'art. 38, comma 3, secondo periodo, D.Lgs. n. 81/2015 – ha sempre ritenuto che il lavoratore somministrato licenziato dovesse impugnare il licenziamento nei confronti dell'utilizzatore (Cass. n. 17969/2016; Tribunale Milano, 23 giugno 2017).
Ciò chiarito, la questione della legittimità del licenziamento in esame riguarda il rispetto del procedimento disciplinare. Il lavoratore ha lamentato la mancata contestazione disciplinare e, quindi la violazione dell'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
L'agenzia di somministrazione ha affermato che la contestazione fosse stata inviata e ricevuta, producendo a riscontro una e-mail delle Poste Italiane recante il seguente testo: «[…] Le comunichiamo che la spedizione è stata lasciata in cassetta».
Tuttavia, la cartolina di ricevimento della lettera prodotta dall'agenzia di somministrazione non risultava firmata né dall'incaricato alla spedizione, né dal destinatario, né risultava la qualificazione del destinatario.
Ha chiarito il Tribunale che la prova della consegna è la cartolina AR, mentre non è sufficiente che l'atto venga spedito all'indirizzo corretto: è necessario provare il fatto oggettivo dell'arrivo dell'atto nel luogo di destinazione (Cass. n. 24703/2017). Nel caso esaminato, la contestazione non risultava pervenuta al destinatario e, quindi, non poteva ritenersi rispettato il procedimento disciplinare, con la conseguente illegittimità del licenziamento.
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Accertato che la contestazione disciplinare non è mai stata consegnata, il Tribunale non ha potuto che indicare le conseguenze del licenziamento viziato, identificando la disciplina nell'art 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015.
La mancanza della contestazione disciplinare del fatto equivale infatti alla sua insussistenza, vizio tale da escludere l'esistenza dell'intero procedimento disciplinare (Cass. nn. 25734/2016 e 4879/2020). Pertanto, «precludendo in origine la stessa possibilità di valutare la sussistenza del fatto, deve essere equiparata all'ipotesi di insussistenza del fatto (ndr materiale contestato) di cui all'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015» (Tribunale Roma, 14 settembre 2020).
Ad avviso del Tribunale, in conclusione, il «fatto materiale contestato» ha una duplice accezione: da una parte, un fatto accaduto e ascrivibile al suo autore; dall'altra, un fatto che deve essere stato contestato dal datore di lavoro.
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In applicazione dell'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015, il licenziamento è stato annullato e la società utilizzatrice è stata condannata a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro e a corrispondergli un'indennità risarcitoria, corrispondente al periodo intercorrente tra il licenziamento e il giorno di effettiva reintegrazione, per un massimo di dodici mensilità. Il datore di lavoro è stato altresì condannato al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali relativi al periodo vacante. Riferimenti normativi e giurisprudenziali
Riferimenti normativi Art. 7, L. n. 300/1970 Art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015 Artt. 30 segg., D.Lgs. n. 81/2015 Art. 80-bis, D.L. n. 34/2020, introdotto dalla Legge di conversione n. 77/2020
Riferimenti giurisprudenziali Corte Cost. n. 24/2009 Corte Cost n. 209/2010 Corte Cost. n. 271/2011 Cass. n. 17969/2016 Cass. n. 25734/2016 Tribunale Milano, 23 giugno 2017 Cass. n. 24703/2017 Cass. n. 30581/2018 Cass. n. 16052/2019 Cass. n. 2893/2019 Tribunale Roma, 14 settembre 2020 Cass. n. 4879/2020 |