Sul diritto di opzione dei soci in occasione di aumento di capitale mediante nuovi conferimenti e sulla cedibilità a terzi

23 Luglio 2021

L'esistenza della clausola statutaria che impedisce la circolazione delle partecipazioni sociali conferisce alla società quella peculiare caratterizzazione personalistica — estranea alla disciplina legislativa — che è funzionale al mantenimento dell'originaria composizione soggettiva della società, la quale non si concilia con l'ingresso di nuovi soci.
Massima

L'esistenza della clausola statutaria che impedisce la circolazione delle partecipazioni sociali conferisce alla società quella peculiare caratterizzazione personalistica — estranea alla disciplina legislativa — che è funzionale al mantenimento dell'originaria composizione soggettiva della società, la quale non si concilia con l'ingresso di nuovi soci. All'opposto, ove la partecipazione societaria sia suscettibile di trasferimento, il divieto di cessione del diritto di opzione si mostra privo di fondamento giustificativo. Può ritenersi, allora, che il socio, anteriormente alla scadenza del termine previsto per l'esercizio del diritto di opzione, possa liberamente cedere il diritto stesso a terzi non soci, salva la contraria previsione dello statuto dettata in tema di aumenti di capitale mediante nuovi conferimenti, e sempre che lo stesso statuto non limiti la circolazione delle partecipazioni sociali.

Il caso

Con due ricorsi, poi riuniti, depositati presso la Suprema Corte di Cassazione, tre soci di minoranza di una s.r.l. impugnavano due sentenze della Corte d'Appello di Cagliari, Sez. dist. di Sassari, che avevano rigettato le impugnative proposte dai medesimi soci avverso due sentenze del Tribunale di Sassari che, a loro volta, avevano respinto le domande degli attori aventi ad oggetto l'impugnazione di una delibera assembleare che stabiliva l'azzeramento del capitale sociale a seguito di perdite d'esercizio e, contestualmente, disponeva un primo aumento di capitale ad euro10.200,00= e un secondo aumento ad euro3.200.000,00=.

Con il primo motivo di gravame, i soci di minoranza lamentavano la violazione del comma 4 dell'art. 183 c.p.c., poiché la Corte d'Appello aveva ritenuto, d'ufficio, il difetto di interesse ad agire dei soci medesimi (ex art. 100 c.p.c.) senza avere però aperto il contraddittorio tra le parti su tale questione rilevata d'ufficio (art. 101 c.p.c).

Al riguardo, infatti, la Corte d'Appello riteneva che la mancata allegazione, da parte dei soci, del pregiudizio specifico subìto a causa della lamentata violazione del diritto di opzione (art. 2481 bis c.c.) per il mancato rispetto del termine di 30 giorni stabilito in quest'ultima norma, comportasse, per difetto di interesse ad agire, l'irrilevanza della disamina, nel merito, dell'eccezione di annullabilità della delibera assembleare che aveva previsto la facoltà per i soci di sottoscrivere l'aumento di capitale in essa stabilito entro 30 giorni dall'iscrizione della delibera medesima nel RRII (pubblicazione dell'offerta) anziché dalla comunicazione ai soci che l'aumento di capitale poteva essere sottoscritto.

Con il secondo motivo di gravame, i ricorrenti lamentavano la violazione dell'art. 2481-bis c.c.

Infatti, oltre al profilo appena richiamato dell'invalidità del dies a quo previsto nella delibera assembleare impugnata ai fini della decorrenza dei 30 giorni per la sottoscrizione dell'aumento di capitale, la delibera de qua sarebbe stata invalida anche per un secondo motivo, ovverosia poiché stabiliva che il diritto di sottoscrizione dell'aumento di capitale in misura proporzionale alle quote già possedute dai soci potesse essere esercitato solo dai soci medesimi e non da eventuali soggetti terzi che si fossero resi cessionari di tale diritto di opzione dei soci.

La Corte d'appello riteneva che tale previsione della delibera assembleare fosse conforme a quanto previsto nello statuto sociale e giudicava tale clausola dello statuto (di esclusione dei terzi dal diritto di opzione) conforme alla previsione di legge (art. 2481 bis c.c.: “L'atto costitutivo può prevedere, salvo per il caso di cui all'articolo 2482 ter, che l'aumento di capitale possa essere attuato anche mediante offerta di quote di nuova emissione a terzi”).

I soci di minoranza eccepivano che lo statuto non prevedeva, invece, una clausola che limitasse o impedisse l'esercizio del diritto di opzione a terzi, cessionari delle quote dei soci e, pertanto, questi ultimi avevano tutto il diritto di cedere il proprio diritto di opzione (diritto di credito disponibile) a terzi (art. 1260 c.c.), diversamente opinando risultando leso il proprio interesse a ricavare utilità patrimoniali mediante tale cessione onerosa del diritto di opzione a terzi.

Con il terzo motivo, i soci di minoranza ricorrenti lamentavano la violazione dell'art. 1421 c.c., poiché la Corte d'appello non aveva rilevato d'ufficio la nullità della delibera assembleare che aveva approvato il bilancio straordinario d'esercizio (e con la quale erano stati anche disposti gli aumenti di capitale di cui si discute) nonostante il bilancio medesimo fosse viziato per mancanza di chiarezza e verità (come sarebbe emerso sulla base delle allegazioni effettuate dai soci stessi, i.e.: perdite patrimoniali non registrate a bilancio); ebbene, dalla rilevazione d'ufficio della nullità della delibera di approvazione del bilancio, sarebbe derivata anche l'invalidità delle decisioni adottate con la delibera medesima, relative all'azzeramento del capitale sociale e alla sua ricostituzione con i due contestuali aumenti deliberati ad €10.200,00 e a €3.200.000,00.

Le questioni

La Corte di Cassazione si concentra in particolare sul tema della “cedibilità del diritto d'opzione” spettante ai soci di s.r.l. quando viene disposto un aumento di capitale attraverso nuovi conferimenti, richiamando gli artt. 1260 e 2481 bis c.c.

La Suprema Corte precisa che la Corte d'appello ha ritenuto, sulla base della previsione contenuta nella delibera impugnata, di pacifica interpretazione, che, in occasione di un aumento di capitale mediante nuovi conferimenti, il diritto di opzione spettante ai soci non fosse cedibile a terzi.

Partendo da tale precisazione, la Corte di Cassazione passa ad analizzare la previsione di cui all'art. 2481 bis c.p.c., che attribuisce al socio il diritto di sottoscrivere l'aumento di capitale proporzionalmente alla propria quota sociale e consente che tale diritto sia limitato o escluso solo sulla base di una previsione in tal senso contenuta nello statuto, salvo il diritto di recesso del socio in caso di limitazione/esclusione di tale suo diritto.

Ciò premesso, la Cassazione evidenzia che la norma de qua consente che il diritto di opzione spettante ai soci sia compresso qualora vi sia una disposizione statutaria che permetta che l'aumento di capitale mediante nuovi conferimenti sia effettuato offrendo le nuove partecipazioni a soggetti terzi, estranei alla società.

La ratio di tale norma è dunque quella di preservare i medesimi rapporti di forza tra i soci di s.r.l., valorizzando l'interesse del socio a non vedere diluita la consistenza della propria partecipazione in seno alla società in occasione di aumento di capitale con nuovi conferimenti: il fine di tale norma, quindi, evidenzia la Suprema Corte, non è quello di rendere intrasferibile il diritto di opzione del socio a terzi per impedire il mutamento della compagine sociale, secondo una concezione personalistica “forte” della s.r.l., che può essere fatta valere solo attraverso un'apposita previsione statutaria.

Pertanto, non sussistendo disposizioni di legge che vietino la cedibilità del diritto di opzione del socio a terzi, dirimente risulta solo l'interesse del socio medesimo a non veder diluita la propria partecipazione sociale: qualora egli non abbia interesse a mantenere inalterata la propria partecipazione, ben potrà rinunciare al correlato diritto di opzione, oppure potrà cederlo a terzi.

Infatti, solo in presenza di una clausola statutaria che espressamente vieti la cedibilità del diritto di opzione, oppure che escluda la libera circolazione delle partecipazioni, il diritto di opzione non potrà essere trasferito dai soci a terzi; viceversa, nel “silenzio” dello statuto, deve ritenersi possibile la cessione a terzi del diritto di opzione da parte dei soci.

Effettuate queste doverose premesse, la Corte di Cassazione ritorna sulla questione affrontata e decisa dalla Corte d'Appello, la quale, chiamata a decidere sulla legittimità della delibera assembleare impugnata dai soci di minoranza, che vietava ai soci di cedere a terzi il loro diritto di opzione, ha ritenuto che la delibera de qua fosse legittima poiché conforme alla previsione statutaria che escludeva la libera trasferibilità del diritto di opzione sulla quota sociale.

La Corte di Cassazione ritiene dunque condivisibile la decisione della Corte d'Appello, non censurabile, e respinge i due ricorsi dei soci di minoranza.

Osservazioni

In questa ordinanza la Suprema Corte sposa una concezione della s.r.l. connotata da un carattere personalistico “debole”, che si discosta da una forte esaltazione dell'intuitus personae in questa tipologia societaria, che si ritiene non vincolata all'immutabilità della sua composizione originaria (in tal senso, è bene richiamare l'art. 2469, comma 1, c.c., che stabilisce che le partecipazioni della s.r.l. sono liberamente trasferibili, salvo contraria disposizione dell'atto costitutivo).

La Corte, esaminando l'art. 2481 bis c.c., rileva che la s.r.l. è concepita dal legislatore come un ente aperto, almeno di regola, all'ingresso di nuovi soci, salvo diversa previsione dell'atto costitutivo e ciò che viene, invece, valorizzato, è l'interesse del socio a non vedere ridotta la propria partecipazione all'interno della compagine societaria in occasione di aumenti di capitale con offerta di nuovi conferimenti.

In questo senso, anche il Consiglio Notarile di Milano, Commissione società, con la Massima n. 157 del 17 maggio 2016 “Circolazione del diritto di opzione e disciplina della prelazione sull'inoptato nelle s.r.l.” ha affermato che: “Prima della scadenza del termine per l'esercizio del diritto di opzione, il medesimo può essere alienato a qualsiasi titolo ai soci e/o a terzi, nel rispetto degli eventuali limiti stabiliti dallo statuto per il suo trasferimento ovvero, in mancanza di clausole limitative espressamente riferite al trasferimento dei diritti di opzione, nel rispetto degli eventuali limiti stabiliti dallo statuto per il trasferimento delle partecipazioni sociali e comunque nel rispetto di quanto eventualmente stabilito dalla deliberazione di aumento del capitale sociale”.

Pertanto, in mancanza di una regola convenzionale (nello statuto e nella delibera di aumento di capitale) che disciplini espressamente il trasferimento del diritto di opzione, viene affermata la regola della trasferibilità del diritto de quo nei limiti eventualmente sussistenti per la circolazione delle partecipazioni sociali, secondo lo stesso regime previsto dalla legge o dallo statuto per la circolazione di queste ultime. Pertanto, se la circolazione delle quote è priva di limiti convenzionali, altrettanto libera sarà la circolazione dei diritti correlati alle quote; se la circolazione delle quote è limitata da diritti di prelazione o da clausole di gradimento, gli stessi limiti incontrerà anche il trasferimento dei diritti di opzione.

Conclusioni

A parere di chi scrive, pare condivisibile la concezione personalistica della s.r.l. in senso “debole” valorizzata dalla Suprema Corte con l'ordinanza in commento, secondo la quale la caratterizzazione in senso personalistico di questa tipologia societaria sarebbe volta a garantire ai soci di mantenere inalterata la propria partecipazione sociale, a non vederla diluita, e non a conservare inalterata la composizione originaria, in senso soggettivo, della società medesima, chiudendola a terzi (concezione “forte”). Ecco, allora, che la disciplina legislativa del diritto di opzione (art. 2481 bis c.c.) è volta a preservare proprio i medesimi rapporti di forza tra i soci all'interno della s.r.l., mettendo i soci nelle condizioni di acquisire le quote di nuova emissione in misura proporzionale alle quote già possedute, attraverso l'esercizio, appunto, del diritto di opzione sulle nuove quote.

Assolutamente condivisibile si ritiene anche la conclusione della Suprema Corte circa la necessità di una clausola statutaria che, affinchè il diritto di opzione sia ritenuto non trasferibile, vieti - direttamente o indirettamente - la cessione del diritto de quo dai soci a terzi, non potendosi rinvenire alcuna norma di legge che imponga un tale divieto.

Pertanto, una delibera assembleare che, nel disporre l'aumento di capitale tramite nuovi conferimenti, si mostri conforme alla previsione statutaria in tema di trasferibilità del diritto di opzione/circolazione delle partecipazioni societarie, non potrà essere ritenuta invalida (annullata).

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