La Corte UE sulla parità retributiva tra sessi in caso di lavoro (uguale o) di “pari valore” e l' efficacia diretta del principio negli stati membri

26 Luglio 2021

L'art. 157 TFUE, ha - quale norma del Trattato - efficacia diretta negli Stati membri anche nei rapporti tra privati; la disposizione stabilisce il principio di parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici che svolgono un “lavoro uguale” o di “pari valore” alle dipendenze di un unico datore di lavoro, principio che deve essere tutelato dagli Stati membri, mentre il problema di stabilire quando un lavoro sia uguale o di pari valore attiene alla fase applicativa del principio, che spetta al giudice nazionale svolgere.
Massima

L'art. 157 TFUE, ha - quale norma del Trattato - efficacia diretta negli Stati membri anche nei rapporti tra privati; la disposizione stabilisce il principio di parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici che svolgono un “lavoro uguale” o di “pari valore” alle dipendenze di un unico datore di lavoro, principio che deve essere tutelato dagli Stati membri, mentre il problema di stabilire quando un lavoro sia uguale o di pari valore attiene alla fase applicativa del principio, che spetta al giudice nazionale svolgere.

Il caso

Nel caso sottoposto dal Tribunale inglese di Watford al giudizio incidentale della Corte di giustizia, alcune lavoratrici chiedevano il medesimo trattamento retributivo di lavoratori maschi addetti a uffici diversi, ma che svolgevano lavori da esse valutati di pari valore.

In particolare, le ricorrenti rilevavano che, da un lato, il loro lavoro e quello dei lavoratori di sesso maschile impiegati dalla Tesco Stores (società rivenditrice al dettaglio di prodotti) presso i centri di distribuzione della sua rete avevano pari valore e, dall'altro lato, che esse avevano il diritto di confrontare il loro lavoro con quello di detti lavoratori, pur se svolto presso stabilimenti diversi, ai sensi sia dell'articolo 157 TFUE (perché tutti riconducibili ad una unica “fonte”, la Tesco Stores) quanto della legge inglese in materia di parità di trattamento (che richiedeva l'applicazione di condizioni di lavoro comuni nei diversi negozi e centri di distribuzione).

La società datrice di lavoro aveva, tra l'altro, obiettato che il principio di parità retributiva non può avere applicazione diretta quando si tratti di accertare se un determinato lavoro ha un valore pari a un altro, perché in tal caso, per individuare la nozione di pari valore, occorrerebbero altre disposizioni normative, nazionali o comunitarie. In particolare, secondo tale società, in sostanza, l'invocazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici nell'ambito del confronto di attività lavorative di “pari valore” si fonderebbe – a differenza dei casi di un “lavoro uguale” - su un'asserita discriminazione che potrebbe essere individuata solo in base a disposizioni più precise di quelle dell'articolo 157 TFUE.

Il Tribunale inglese, rilevata la dipendenza dei lavoratori e delle lavoratrici dallo stesso datore di lavoro, rilevava, con riguardo all'articolo 157 TFUE, che sussisteva, tra i giudici del Regno Unito, un'incertezza in merito all'efficacia diretta di tale articolo, legata, in particolare, alla distinzione formulata al punto 18 della sentenza dell'8 aprile 1976, Defrenne (43/75, EU:C:1976:56), fra le discriminazioni che si possono accertare con l'ausilio di meri criteri di identità del lavoro e di parità di retribuzione e quelle che possono essere messe in luce solo valendosi di disposizioni d'attuazione più precise, del diritto dell'Unione o nazionali, potendo rientrare, l'azione promossa dalle lavoratrici, in tale seconda categoria, priva di efficacia diretta.

La questione

Il giudice del rinvio ha, dunque, formulato le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se l'articolo 157 [TFUE] possa essere invocato quale norma ad efficacia diretta nelle azioni basate sul fatto che i ricorrenti svolgono un lavoro di valore pari a quello dei lavoratori con cui viene effettuato il raffronto.

2) In caso di risposta negativa alla prima questione, se il criterio dell'unica fonte per la comparabilità di cui all'articolo 157 [TFUE] sia distinto dalla questione del pari valore del lavoro e, in tal caso, se tale criterio abbia efficacia diretta».

Le soluzioni giuridiche

L'articolo 157 TFUE così dispone:

«1. Ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo.

La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica: [...]

b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.».

La Corte di Giustizia - premesso che ai sensi dell'articolo 86, paragrafi 2 e 3, dell'accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall'Unione europea e dalla Comunità europea dell'energia atomica, la Corte stessa resta competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sulle domande presentate dai giudici del Regno Unito prima della fine del periodo di transizione - afferma che anche in caso di lavori di “pari valore” l'art. 157 TFUE attribuisce ai singoli un diritto di parità retributiva che deve essere tutelato dagli Stati membri, mentre il problema di stabilire quando un lavoro sia uguale o di pari valore attiene alla fase applicativa del principio, valutazione che spetta al giudice nazionale svolgere.

Tale articolo impone, in modo chiaro e preciso, un obbligo di risultato e ha carattere imperativo tanto per quanto riguarda uno «stesso lavoro» quanto con riferimento a un «lavoro di pari valore»; produce effetti diretti creando, in capo ai singoli, diritti che i giudici nazionali hanno il compito di tutelare; la valutazione se, nel caso di specie, ricorra uno stesso lavoro o un lavoro di pari valore è un accertamento di fatto che compete al giudice del rinvio.

Il divieto di discriminazione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile non solo riguarda le pubbliche autorità, ma vale del pari sia in sede di stipulazione di contratti collettivi che nell'ambito del contratto individuale e può essere fatto valere qualora il lavoro sia svolto nella stessa azienda o ufficio, privato o pubblico. Tale principio costituisce l'espressione specifica del principio generale di uguaglianza che vieta di trattare in maniera diversa situazioni analoghe, a meno che tale differenza di trattamento non sia obiettivamente giustificata.

In particolare, le discriminazioni che traggono origine da disposizioni legislative o dai contratti collettivi di lavoro nonché i casi di diversa retribuzione di lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per uno stesso lavoro, svolto nella stessa azienda o ufficio, privato o pubblico possono essere accertati dal giudice con l'ausilio dei soli criteri di identità del lavoro e di parità di retribuzione indicati dall'articolo 157 TFUE, potendo in tali casi il giudice procurarsi tutti gli elementi di fatto che gli consentono di accertare se un lavoratore di sesso femminile sia retribuito meno di un lavoratore di sesso maschile che svolge le stesse mansioni.

La CGUE conclude affermando che:

l'articolo 157 TFUE deve essere interpretato nel senso che ha efficacia diretta nelle controversie tra privati in cui è dedotta l'inosservanza del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per un «lavoro di pari valore», sancito in tale articolo.

Osservazioni

Il principio di parità di trattamento retributivo tra donne e uomini è sancito dall'art. 37, primo comma, Cost.

Inoltre, il codice delle pari opportunità, d.lgs. n. 198 del 2006, art. 28 (come sostituito dall'art. 1, comma 1, lett. s), n. 19 del d.lgs. n. 5 del 2010) vieta qualsiasi discriminazione, diretta o indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione della retribuzione, per quanto riguarda uno “stesso lavoro” o un lavoro al quale è attribuito un “valore uguale”. La disposizione prevede, altresì (al comma 2), che i sistemi di classificazione professionale, ai fini della determinazione delle retribuzioni, debbono adottare criteri comuni per uomini e donne ed essere elaborati in modo da eliminare le discriminazioni.

Come ribadito più volte dalla sentenza della CGUE in commento, il principio di parità di trattamento retributivo tra uomini e donne per un lavoro di “uguale valore” è di immediata operatività, ed è stato altresì trasfuso negli artt. 4 e 14 della direttiva 2006/54. Il principio è stato poi corroborato dall'evolvere del quadro normativo: l'Unione «promuove» la parità tra donne e uomini (art. 3, comma 3, del Trattato sull'Unione europea) e conferma un tale impegno nelle sue «azioni» (art. 8 TFUE).

Anche l'art. 21 della CDFUE vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata [...] sul sesso», mentre l'art. 23 della stessa Carta dispone che «La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione».

L'efficacia diretta del principio di parità di retribuzione tra uomini e donne è stata più volte ribadita, nel corso degli anni, dalla Corte di Lussemburgo: cfr. la sentenza 8 aprile 1976, Defrenne C-43/75, sulla modalità di accertamento della discriminazione in materia di parità retributiva e sulla efficacia diretta dell'art. 157 TFUE; successivamente, sentenze: 27 marzo 1980, in causa 129/79, Macarthys LTD contro Wendy Smith, punto 10; 31 marzo 1981, in causa 96/80, J.P. Jenkins contro Kingsgate LTD, punti da 16 a 18; 7 febbraio 1991, in causa C-184/89, Helga Nimz contro Freie und Hansestadt Hamburg, punto 17; 7 ottobre 2019, Safeway, C 171/18 che ha ribadito come l'art. 157 TFUE produce effetti diretti creando, in capo ai singoli, diritti che i giudici nazionali hanno il compito di tutelare).

Vanno, inoltre, menzionate: CGUE CGUE 4 febbraio 1988, C-157/86 secondo cui l'art. 157 TFUE impone l'applicazione del principio della parità di retribuzione dei lavoratori di sesso maschile e di quelli di sesso femminile nel caso in cui il lavoro sia uguale ovvero sia di valore uguale; CGUE 26 giugno 2001, C 381/99 che ha rilevato come il divieto di differente retribuzione tra uomo e donna a parità di lavoro non è altro che la specificazione del principio generale di uguaglianza; CGUE 17 settembre 2002, C 320/00, con riferimento ad un appalto interno di pulizie e ristorazione, secondo cui il principio di parità di trattamento tra sessi non si applica se, pur a parità di lavoro, la differenza di retribuzione dipende dalla diversità dei contratti collettivi e dei datori di lavoro; C 320/00 e 13 gennaio 2004, C 256/01 che ha precisato che il principio di non discriminazione vale unicamente nel caso in cui le prestazioni di lavoro possano essere ricondotte ad una unica fonte/datore di lavoro, anche se l'attività viene svolta presso stabilimenti diversi; CGUE 3 ottobre 2006, C 17/05 secondo cui il principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore costituisce uno dei principi fondamentali dell'Unione; CGUE 8 maggio 2019, C-486/18, che ha precisato come il divieto di discriminazione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile vale, oltre che nell'ambito pubblico, sia per i contratti collettivi che per i contratti individuali.

Con specifico riguardo agli aspetti terminologici, “l'eguale valore” del lavoro è stato escluso in un caso di attività esercitata da soli uomini per un lungo periodo con abilitazione professionale specifica ( CGUE 11 maggio 1999, C-309/97).

La violazione dell'art. 157 TFUE è stata altresì ribadita dalla CGUE in caso di fissazione di un requisito di età variabile in base al sesso ai fini della concessione della pensione, in quanto rappresenta un trattamento sostitutivo della retribuzione, adottando – la Corte di Lussemburgo - un'accezione ampia di licenziamento, comprensivo della cessazione del rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di età (v., in tal senso, sentenze 17 maggio 1990, C-262/88; 12 settembre 2002, C-351/00; 13 novembre 2008, Commissione/Italia, C-46/07; 18 novembre 2010, C-356/09; 7 febbraio 2018, concernente la disciplina transitoria dettata dalla legge italiana, d.l. n. 64 del 2010, art. 3, comma 7 conv. in L. n. 100 del 2010, per i lavoratori dello spettacolo appartenenti alle categorie dei tersicorei e ballerini; da ultimo, CGUE Grande Sezione del 05 novembre 2019, C 192/18 con riguardo alla legge polacca che ha introdotto un'età per il pensionamento differente per le donne e per gli uomini appartenenti alla magistratura giudicante dei Tribunali ordinari e del Sad Najwyzszy -Corte suprema, o alla magistratura del pubblico ministero polacco).

Con riguardo alla giurisprudenza nazionale, la Corte Costituzionale, con sentenza 12 maggio 2017, n. 111, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli art. 24, comma 3, primo periodo, d.l. 6 dicembre 2011 n. 201, conv., con modificazioni, dalla l. 22 dicembre 2011 n. 214, come interpretato dall'art. 2, comma 4, d.l. 31 agosto 2013 n. 101, e 2, comma 21, l. 8 agosto 1995 n. 335, nella parte in cui impone il collocamento a riposo al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età delle impiegate che abbiano maturato i requisiti per il conseguimento della pensione con il raggiungimento del sessantunesimo anno di età e di venti anni di contribuzione alla data del 31 dicembre 2011, laddove gli impiegati, che si trovino nella medesima condizione lavorativa, sono collocati a riposo al raggiungimento dell'età di sessantasei anni e tre/sette mesi, in riferimento agli art. 3, 37, comma 1, cost. e, in relazione agli art. 157 TFUE e 21 della carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, 11 e 117, comma 1, cost. Il giudice delle leggi, rilevato che la normativa veniva censurata in quanto in contrasto con l'art. 157 del TFUE, ha ritenuto - anche alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia che ha riconosciuto a tale norma efficacia diretta - che il giudice a quo avrebbe dovuto non applicare le disposizioni in conflitto con il principio di parità di trattamento, previo ricorso, se del caso, al rinvio pregiudiziale, ove ritenuto necessario, al fine di interrogare la medesima Corte di giustizia sulla corretta interpretazione delle pertinenti disposizioni del diritto dell'Unione e, quindi, dirimere eventuali residui dubbi in ordine all'esistenza del conflitto (cfr. altresì sentenze n. 226 del 2014, n. 267 del 2013, n. 86 e n. 75 del 2012, n. 227 e n. 28 del 2010, n. 284 del 2007; ordinanze n. 48 del 2017 e n. 207 del 2013). Questo percorso, secondo il giudice delle leggi, una volta imboccato, avrebbe reso superflua l'evocazione del contrasto con i parametri costituzionali in sede di incidente di legittimità costituzionale: l'art. 157 del TFUE, direttamente applicabile dal giudice nazionale, lo vincola all'osservanza del diritto europeo, rendendo inapplicabile nel giudizio principale la normativa censurata e, perciò, irrilevanti tutte le questioni sollevate.

La giurisprudenza ha chiarito che per parità di lavoro si intende parità di mansioni e non di rendimento (Cass. n. 5773 del 1982 e, seppur con riguardo ai minori, Cass. n. 18856 del 2010). Nello stesso senso, Cass. 11 gennaio 1984, n.209 secondo cui il principio della parità di trattamento, in materia di lavoro, tra uomini e donne, sancito dall'art. 37 Cost. e recepito dalle l. 22 maggio 1956 n. 741 e 14 ottobre 1957 n. 1203 (che hanno reso esecutivi in Italia, rispettivamente, la convenzione di Ginevra 29 giugno 1951 ed il trattato istitutivo della C.E.E.), comporta il conferimento alle lavoratrici di un diritto soggettivo alla parità giuridica e salariale con i lavoratori, che spiega i suoi effetti nei contratti collettivi ed individuali di lavoro contenenti clausole contrastanti con il suddetto precetto costituzionale. Tale diritto deve ritenersi violato quando la disparità di trattamento tra uomini e donne non trovi giustificazione in una diversità obbiettiva delle prestazioni di lavoro, in quanto la " parità di lavoro ", cui esso è subordinato dall'art. 37 citato, non deve essere intesa come parità di rendimento o parità di durata delle prestazioni lavorative affidate ai lavoratori di ambo i sessi. (Nella specie, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione di merito che aveva negato la legittimità del trattamento tabellare differenziato tra lavoratori e lavoratrici perché fondato non sulla diversità di concrete mansioni, ma su una presunzione di minor rendimento della donna, a parità di qualifica professionale e di mansioni).

Degna di nota, seppur risalente, è, infine, Cass. 5 marzo 1986, n.1444, che, con riguardo al rimborso, unicamente a favore delle lavoratrici, delle rette sostenute per l'asilo e la scuola materna dei figli e richiamando la essenziale funzione familiare di madre riconosciuta alla donna lavoratrice dalla Costituzione, ha affermato che il principio della parità salariale a parità di lavoro, enunciato nell'art. 37 Cost. esclusivamente in favore delle donne e dei minori, non è estensibile - in via di inversione - in favore degli uomini le cui prestazioni siano retribuite in misura inferiore a quella delle donne, essendo riferito a soggetti considerati dai costituenti in via esclusiva. Tale inversione, inoltre, non può farsi derivare nè dall'art. 3 Cost., discendendo da questo l'obbligo per il solo legislatore e non anche per i privati di osservare la regola della parità di trattamento fra i due sessi, nè, infine, dall'art. 36 Cost., limitandosi questo a stabilire il principio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, e non enunciando un principio di comparazione intersoggettiva, cioè di parità di trattamento economico a parità di qualifica e di mansioni tra i dipendenti di una stessa unità produttiva.

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