Computo delle assenze per congedo parentale nel calcolo del premio di risultato e discriminazione in ragione dello status di genitore
26 Luglio 2021
Massima
L'analisi del meccanismo di attribuzione del premio e il riscontro del trattamento sfavorevole riservato ai lavoratori che fruiscono del congedo parentale fa emergere chiaramente la natura discriminatoria della norma in danno dei lavoratori genitori. Il caso
Il lavoratore padre è ricorso in giudizio deducendo di avere subito un'indebita riduzione del premio di risultato, di cui all'accordo sindacale applicato in azienda, determinata delle assenze connesse al congedo parentale, subendo, pertanto, un trattamento meno favorevole rispetto ai colleghi di lavoro inquadrati nel medesimo livello contrattuale. La questione
La questione che il giudice del lavoro è chiamato ad affrontare riguarda l'accertamento della condotta discriminatoria determinata dall'applicazione di un meccanismo di riduzione del premio di risultato per assenze conseguenti alla fruizione, da parte del lavoratore padre, dei congedi parentali. La soluzione adottata dal giudice
Il Tribunale di Asti, argomentando che lo status di genitore costituisce un autonomo fattore di discriminazione, rispetto al quale l'ordinamento giuridico individua appositi strumenti di tutela e sancisce il divieto di porre in essere trattamenti meno favorevoli nei confronti della lavoratrice madre e del lavoratore padre, si è espresso nel senso di ritenere illegittimo, perché discriminatorio, il computo delle assenze per congedo parentale nel meccanismo del calcolo del premio di risultato.
Ad avviso del Giudice di prime cure, infatti, la natura illecita della norma di cui all'accordo sindacale applicato in azienda emerge ancor più chiaramente in ragione del fatto che altre tipologie di assenza –assenze di cui alla l. n. 104 del 5 febbraio 1992, permessi sindacali, permessi retribuiti di vario genere– sono state considerare irrilevanti ai fini del medesimo calcolo, mentre l'assenza per congedo parentale rileva negativamente, a danno del lavoratore appartenente ad una categoria protetta che subisce uno svantaggio economico. Osservazioni
La prima nota è di carattere procedurale.
Il ricorrente, infatti, ha agito ai sensi e per gli effetti del disposto di cui all'art.38 del Decreto legislativo n.198 del 11 aprile 2006. La norma de qua configura lo strumento processuale per reagire contro le discriminazioni, perpetrate in violazione delle regole sulla parità, con particolare riguardo all'accesso al lavoro, alla formazione delle competenze, alle condizioni di svolgimento della relazione professionale, compresa la retribuzione e, per esteso, ogni elemento remunerativo.
Lo schema procedimentale ricalca, in alcuni punti, quello previsto dall'art.28 dello Statuto dei Lavoratori, con qualche differenza rilevante.
Infatti, l'azione contro le discriminazioni in materia di lavoro è concepita dal legislatore come individuale; di conseguenza, la legittimazione ad agire in giudizio appartiene al soggetto che lamenta la condotta illegittima; mentre il sindacato e la consigliera di parità –parimenti contemplati nella disposizione– non sono titolari di un'azione autonoma a tutela di un interesse collettivo, bensì intervengono solo su delega del lavoratore, e, dunque, nel ruolo di garante dell'interesse individuale del rappresentato.
L'art.38 del Decreto legislativo n.198 del 11 aprile 2006, prevede un procedimento sommario molto rapido ed estremamente semplificato, in cui il contradditorio delle parti è assicurato dalla loro convocazione, che può essere effettuata con ogni mezzo idoneo a garanzia del diritto di difesa.
L'accertamento dei fatti è compiuto in modalità semplici ed informali, con l'assunzione di sommarie informazioni ad opera del giudice del lavoro. Nella pratica, il termine dei due giorni è inteso come meramente ordinatorio, e, in quanto tale, regolarmente superato; inoltre, non di rado accade che, nelle controversie più complesse, in luogo dell'assunzione di sommarie informazioni si svolga una vera e propria istruzione probatoria, con evidenti ricadute negative sui caratteri della straordinaria rapidità e sommarietà delineati dalla disposizione in esame.
Il procedimento si conclude con decreto motivato, nel quale si ordina al datore di lavoro la cessazione della condotta discriminatoria e la rimozione degli effetti. Il contenuto dell'ordine è, quindi, ampiamente indeterminato e deve essere individuato dal giudice del lavoro. Il Tribunale di Asti, nel caso specifico, ha dichiarato l'illegittimità dell'accordo sindacale nella parte in cui indicava le assenze per maternità e paternità facoltative quali cause legittimanti la riduzione del premio di risultato, con condanna della società a corrispondere al lavoratore la differenza tra la somma percepita ed il dovuto.
Il provvedimento che conclude la procedura di cui all'art. 38 del Decreto legislativo n. 198 dell'11 aprile 2006, è immediatamente esecutivo e la sua efficacia non può essere revocata o sospesa se non con la sentenza che definisce il giudizio di opposizione, instaurabile dal datore di lavoro soccombente nel termine di quindici giorni. Se l'opposizione non viene proposta il decreto diviene definitivo e produce gli effetti di una sentenza di condanna passata in giudicato; mentre, in caso contrario, si apre un procedimento di primo grado, che si svolge secondo le regole di cui all'art.409 e seguenti e dà luogo ad una cognizione piena sull'oggetto della controversia.
In ordine alla parte sostanziale, l'excursus argomentativo del Tribunale di Asti è ineccepibile.
Il giudicante, dapprima, definisce gli spazi del divieto di discriminazione di genere di cui al codice delle pari opportunità, che, alla luce delle modifiche apportate dal Decreto legislativo n.5 del 25 gennaio 2010, non è limitata ai trattamenti meno favorevoli sul luogo di lavoro in ragione del sesso, estendendo il proprio raggio di tutela anche alla genitorialità.
Del resto, la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio n.54 del 05 luglio 2006 (recepita dal Decreto legislativo n.198 del 11 aprile 2006, come modificato dal Decreto legislativo n. 5 del 25 gennaio 2010), riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ha statuito che ‹‹qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso›› (considerando n.23) e che ‹‹è altresì opportuno prevedere esplicitamente la tutela dei diritti delle lavoratrici in congedo di maternità, in particolare per quanto riguarda il loro diritto a riprendere lo stesso lavoro o un lavoro equivalente e a non subire un deterioramento delle condizioni di lavoro per aver usufruito del congedo di maternità nonché a beneficiare di qualsiasi miglioramento delle condizioni lavorative cui dovessero aver avuto diritto durante la loro assenza›› (considerando n.25).
Da ciò deriva anche che la condotta discriminatoria di cui al commentando decreto rientri nella categoria delle “discriminazioni dirette”, posto che la riduzione del premio di risultato determinata dalla fruizione del congedo parentale discenda da una clausola pattizia che non è apparentemente neutra – come invece avviene nelle “discriminazioni indirette” – ma colpisce negativamente una categoria protetta, quella del lavoratore che riveste lo status di genitore.
Infine, è giusto il caso di segnalare che, come confermato anche da orientamento giurisprudenziale consolidato, non è richiesta la volontarietà della condotta datoriale per l'integrazione della fattispecie illecita, poiché ogni forma di discriminazione opera obiettivamente. Pertanto, la valutazione dei fatti ad opera del giudicante non si estende all'elemento soggettivo del datore di lavoro, del tutto irrilevante, con evidenti riflessi anche sull'onere probatorio.
Cfr.: I. Seghezzi, Il principio di non discriminazione applicato al calcolo del comporto del lavoratore disabile. |