La responsabilità dei “vaccinatori” (Parte prima)

Maurizio Hazan
28 Luglio 2021

Si è molto discusso, negli ultimi mesi, delle possibili reazioni avverse ai vaccini Covid 19 e, più in generale, della “esposizione” (in relazione ad ipotetiche responsabilità) del personale chiamato a somministrarli. In queste pagine l'attenzione sarà focalizzata sul tema della responsabilità dei “vaccinatori”. A questo Focus seguiranno un secondo intervento dedicato all'analisi della “posizione” del produttore di farmaci e un terzo scritto incentrato sulla posizione del Ministero della Salute.
Introduzione

Si è molto discusso, negli ultimi mesi, delle possibili reazioni avverse ai vaccini Covid 19 e, più in generale, della “esposizione” (in relazione ad ipotetiche responsabilità) del personale chiamato a somministrarli.

Il tema è senz'altro delicato perché si colloca al crocevia tra indicazioni della scienza, gestione delle informazioni e sentire comune, e diviene epicentro di costanti tensioni a motivo della sua intrinseca attinenza al bene fondamentale della salute: si tratta, insomma, di un punto nevralgico non agevolmente “governabile”, capace com'è di innescare forti suggestioni ed incontrollabili paure.

In queste pagine non si vuole entrare nel merito dei dibattiti, a cui i media hanno dedicato grande spazio, incentrati sulle modalità di comunicazione e sulle decisioni messe in atto dalle Autorità competenti nell'ambito della organizzazione ed attuazione della campagna di immunizzazione. L'attenzione sarà invece focalizzata su alcuni temi che, oltre a rivelare grande attualità, pongono questioni giuridiche di interesse, sulle quali pare opportuno provare a svolgere qualche riflessione.

L'argomento da cui prenderemo le mosse in questa “prima parte” è quello della responsabilità dei “vaccinatori”; un secondo intervento sarà dedicato all'analisi della “posizione” del produttore di farmaci e del Ministero della Salute.

L'intervento del Legislatore in ambito penale

Il 1° Aprile 2021 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge n. 44/2021 recante “Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da covid-19 e in materia di vaccinazioni anti sars-cov-2” che, all'art. 3, ha inteso disciplinare la “Responsabilità penale da somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2” così disponendo:

“1. Per i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV -2, effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del piano di cui all'articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, la punibilità è esclusa quando l'uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all'immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”.

La previsione - che è stata subito definita “scudo penale” - mirava a soddisfare le pressanti istanze di “protezione” avanzate dalla classe medica, seriamente preoccupata per le ricadute che avrebbe potuto subire, in termini di responsabilità, in conseguenza della attività di somministrazione dei vaccini (oltre che, più in generale, della erogazione delle prestazioni di cura durante tutta la pandemia).

Tale timore sembrava aver trovato serio motivo di accrescimento nel “fervore” di certe Procure che, nei mesi precedenti, avevano proceduto alla iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato dei sanitari “coinvolti” in alcuni casi di decesso avvenuti dopo la inoculazione del farmaco Astra Zeneca (eventi per fortuna rari, ma oggetto di ampia eco mediatica). Tra i primi commentatori si era osservato come dette iniziative giudiziarie apparissero, per un verso, premature e, per l'altro, estremamente “gravose”, in termini di costi “umani” ed economici, per chi si trovava a subirle, considerate anche le necessità di difesa.
Si era altresì rilevato che una imputazione causale della morte alla condotta degli operatori stessi si configurava, in generale, come improbabile, venendo semmai in linea di conto, a tutto voler concedere, ipotetici effetti collaterali del farmaco stesso o, piuttosto, eziologie diverse ed indipendenti (per un primo commento, A. Natalini, Il Sole 24 ore, 1° aprile 2021, “In Gazzetta il Dl scudo penale per i vaccinatori: c'è la norma (che però già delude gli operatori”).

L'art. 3 del D.L. n. 44/2021 non pareva aver soddisfatto le aspettative di chi invocava una più ampia tutela (anche oltre l'ambito della attività vaccinale) contro possibili “attacchi”; nel corso dei lavori di conversione (la legge di conversione n. 76/2021 è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 128 del 31 maggio) la norma si è tuttavia “arricchita” grazie alla introduzione di un nuovo articolo 3-bis, che ha inciso sulla disciplina della responsabilità penale per morte o lesioni personali verificatesi, in ambito sanitario, durante lo stato di emergenza epidemiologica.
Eccone il testo:

«Art. 3-bis (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19). -1. Durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, dichiarato con delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, e successive proroghe, i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale, commessi nell'esercizio di una professione sanitaria e che trovano causa nella situazione di emergenza, sono punibili solo nei casi di colpa grave. 2. Ai fini della valutazione del grado della colpa, il giudice tiene conto, tra i fattori che ne possono escludere la gravità, della limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SARS-CoV-2 e sulle terapie appropriate, nonché della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare, oltre che del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per far fronte all'emergenza».

Si tratta di una disposizione da lungo tempo attesa e di cui si discuteva sin dai primordi della crisi pandemica. Vari disegni di legge furono proposti ma nessuno vide la luce. Soltanto oggi il percorso sembra compiersi, segnando dunque una svolta significativa.

La nuova norma si distingue, soprattutto, per non essersi limitata a circoscrivere la responsabilità penale sanitaria, in caso di morte o lesioni, ma per aver fornito precisi indici per escludere la colpa grave, ogni qualvolta la condotta del professionista sia stata influenzata da particolari ed eccezionali fattori critici correlati alla crisi pandemica.

Resta però il fatto che l'art. 3-bis del D.L. n. 44/2021 non tocca la responsabilità civile, sulle cui coordinate occorre dunque indagare al fine di comprendere se vi siano - e quali siano – i possibili “margini di protezione”.

Le coordinate di riferimento in ambito civile

In via di premessa generale, si può osservare che art. 3 del D.L. n. 44/2021 facendo riferimento (ai fini della esclusione della responsabilità penale) alla osservanza delle indicazioni racchiuse nel provvedimento di autorizzazione all'immissione in commercio emesso dalle competenti autorità ed alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute, sembra definire il contenuto e tracciare il confine della condotta diligente: il parametro per valutare la correttezza dell'operato è appunto costituito da appositi documenti che, come si è affermato (così Lazzeri, in Sistema Penale, 1 aprile 2021) “potrebbero già costituire – in linea con i principi generali in materia di imputazione soggettiva del fatto – un solido ed esaustivo riferimento per il giudizio di colpa”.

Il rispetto di quelle “prescrizioni” (sulle modalità di utilizzo, sulla posologia, sulla platea di soggetti a cui il farmaco può essere somministrato ecc.) dovrebbe dunque mandare esente l'esercente da ogni possibile addebito (anche se vi è chi ha rilevato come “ (..) il grado di (in)determinatezza contenutistica di tale congerie di documenti non sembra assicurare certezze a fini esimenti.”, A. Natalini, cit.).

Questo “impianto” parrebbe trovare corrispondenza, a livello civilistico, nel disegno della L. n. 24/2017, ove le coordinate della responsabilità sembrano chiaramente ancorate al paradigma della colpa, come “inosservanza di regole di comportamento”: il dato testuale dell'art. 7 della L. Gelli e la costruzione di un “sistema” fondato sulla individuazione di “linee guida” e “buone pratiche” cui attenersi nell'esercizio dell'attività sanitaria inducono infatti a ritenere che il modello congegnato dal Legislatore voglia enfatizzare la dimensione dell'“agire secondo parametri predefiniti”, che costituiscono il contenuto e l'argine della esecuzione diligente (sul punto sia consentito rinviare a D. Zorzit, “Il diritto alla sicurezza delle cure nella Legge Gelli: (verso) una nuova responsabilità civile in sanità”, in Responsabilità medica, Diritto e Pratica Clinica, 4, 2017, 497).

Ciò in accordo con la giurisprudenza più recente (ci riferiamo alle note “sentenze di San Martino bis”, Cass. Civ Sez. III, 11 novembre 2019 n. 28891n. 28892), secondo cui “(..) la prestazione oggetto dell'obbligazione non è la guarigione dalla malattia o la vittoria della causa, ma il perseguimento delle leges artis nella cura dell'interesse del creditore”.

Nel prosieguo proveremo ad immaginare alcuni “casi”, per comprendere se ed entro che margini sia ipotizzabile l'insorgenza di obblighi risarcitori a carico degli operatori in conseguenza della somministrazione dei vaccini. Ci si potrebbe però già interrogare su un punto: stiamo discorrendo di una attività sussumibile entro le maglie dell'art. 2236 cc.?

Art. 2236 c.c. e somministrazione dei vaccini

Prima facie parrebbe doversi escludere che l'attività di somministrazione dei vaccini si inserisca nell'alveo dell'art. 2236 cc., almeno se si guarda al “gesto tecnico”: l'iniezione intramuscolare è stata, anzi, espressamente considerata come “pratica routinaria” da una recente sentenza della Cassazione (Cass. 21177/2015), che ha confermato l'esclusione, nel caso di specie, di profili di colpa in capo al medico, in ragione dell'avvenuto rispetto dei protocolli (sia nella localizzazione che nella esecuzione); la Corte ha ritenuto conforme a diritto la decisione gravata secondo la quale l'evento avverso doveva ricondursi al caso fortuito «ovvero all'andamento variabile e talvolta imprevedibile del nervo circonflesso, come accertato dalla consulenza, che ha ricondotto all'esterno della sfera di controllo e di prevedibilità della professionista che ha effettuato l'intervento routinario» .

Il tema potrebbe semmai porsi con riferimento al momento della anamnesi ed alla conseguente verifica sulla utilizzabilità di un certo vaccino per quel determinato paziente (ad es. perché affetto da patologie in presenza delle quali ne è sconsigliata la somministrazione, sulla base delle prescrizioni riportate nel provvedimento di autorizzazione o nelle circolari ministeriali). Rimettendo ogni più specifica valutazione alle competenze del medico legale, ci si potrebbe già chiedere se in questa “fase” si diano “problemi tecnici di speciale difficoltà” (ad esempio perché il soggetto presenta un quadro apparentemente non riconducibile ad una specifica “controindicazione”, sul quale però incidono altri e più remoti “fattori”, non immediatamente evidenti e individuabili solo da un “luminare” , ma tali da rendere assolutamente inopportuna la somministrazione di quel farmaco).

Ed un altro aspetto da considerare potrebbe essere quello relativo alle modalità organizzative, al contesto entro il quale si svolge l'azione: così per es. nel caso in cui all'operatore si chiedesse di erogare un elevatissimo numero di prestazioni in tempi ristrettissimi e contingentati per soddisfare una grande platea di utenti, in assenza di adeguato personale di supporto, quale dovrebbe essere il “metro di giudizio”? Forse non sarebbe azzardato arrivare a sostenere che ciò che solitamente è “facile” potrebbe, in quelle circostanze, diventare “difficile”.

In questo senso potrebbe essere suggestivo il fatto che l'art. 3 del D.L. n. 44/2021 (per come convertito dalla L. n. 76/2021) parli espressamente di una «campagna vaccinale straordinaria», il che già darebbe ragione di una attività che si colloca al di fuori della normalità, per la portata e le dimensioni, in quanto destinata a coinvolgere l'intera popolazione, e per l'urgenza di condurla a termine quanto prima, onde evitare un ulteriore aggravio non solo della salute dei cittadini, ma più in generale del sistema sanitario che fatica a reggere l'urto di una curva di contagi in crescita.

Qualche spunto potrebbe anche essere ricavato dalla Circolare del Ministero della Salute relativa all'“Aggiornamento del modulo consenso e strumenti operativi campagna vaccinale anti SARS-CoV-2/COVID-19”: nel testo del 25 Marzo 2021 veniva esplicitato che, ai fini della raccolta del consenso alla vaccinazione, «la presenza del secondo Professionista Sanitario (ndr. per la firma del quale è previsto un apposito spazio sul modulo) è utile ma non indispensabile in caso di Vaccinazione a domicilio o in contesto di criticità logistico-organizzativa». Nella successiva Circolare del 28 Marzo 2021, denominata “Modulo consenso campagna vaccinale anti-SARS-CoV-2/COVID-19. Aggiornamento”, il Ministero della Salute si preoccupava di precisare: «Rispetto alla precedente versione (ndr. quella appunto del 25 marzo) si chiarisce che, relativamente alla firma del consenso alla vaccinazione COVID-19, la presenza del secondo professionista sanitario non è indispensabile in caso di vaccinazione in ambulatorio o altro contesto ove operi un singolo medico, al domicilio della persona vaccinanda o in stato di criticità logistico-organizzative».

In termini generali, vale la pena osservare che la presenza di un secondo operatore non è, di norma, necessaria (non è prevista dalla L. n. 219/2017) per la raccolta del cd. “consenso informato”: pare tuttavia evidente come l'affiancamento di altro professionista miri (idealmente) a soddisfare esigenze di maggior trasparenza e garanzia, oltre che di prova (potendosi ragionevolmente ritenere che il “controllo in doppio”, per un verso, offra al paziente maggiori possibilità di ascolto /spiegazione/ comprensione, e per l'altro renda “più sicura” , in termini di correttezza, completezza ed accuratezza, la fase della raccolta delle informazioni necessarie per valutare il quadro clinico.

Il fatto che tale “cautela” (che parrebbe rappresentare l'”optimum” nell'ambito di un modello di condotta “superdiligente”) ben possa “cadere” - per disposizione espressa del Ministero della Salute - di fronte allo «stato di criticità logistico – organizzative» dovrebbe essere indicativo: le peculiarità della “emergenza” (vaccinare il più possibile in tempi brevissimi) legittimano, per così dire, un allentamento, un minor rigore.

Resta però da chiedersi se questo valga anche sul piano delle responsabilità: come dovrà essere “giudicato” il medico che si sia trovato da solo a gestire in una giornata (ad es. con un turno massacrante) più di 200 pazienti nel caso in cui, per es., abbia commesso un errore nella anamnesi somministrando il vaccino ad un soggetto nonostante le controindicazioni? Ammesso che sia dimostrabile il nesso tra l'effetto avverso e l'inoculazione, potrà mai farsi applicazione dell'art. 2236 c.c.?

Sul punto la giurisprudenza civile non sembra “concedere molto”: è noto come l'orientamento maggioritario abbia interpretato la norma in modo restrittivo, escludendone l'operatività nelle ipotesi di imprudenza e negligenza ed applicandola ai soli casi del tutto nuovi, straordinari ed eccezionali, ossia non sufficientemente studiati dalla scienza e dibattuti quanto alla individuazione dei sistemi diagnostici e terapeutici (si vedano ex plurimis Cass. 1132/1976; Cass 2042/2005).

Vero è, tuttavia, che la Cassazione penale ha da tempo mostrato significative “aperture”: non si può non tener conto della lucida motivazione di Cass. pen. (est. Blaiotta) 10 giugno 2014 n. 24528: “(..) la disciplina di cui all'art. 2236 c.c., …. indipendentemente dalla sua discussa, diretta applicabilità all'ambito penale, esprime un criterio di razionalità del giudizio. Si è così affermato (Sez. 4, n. 39592 del 21 giugno 2007, Buggè, Rv. 237875) che la norma civilistica può trovare considerazione anche in tema di colpa professionale del medico (..) come regola di esperienza cui il giudice può attenersi nel valutare l'addebito di imperizia sia quando si versa in una situazione emergenziale, sia quando il caso implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Questa rivisitazione della normativa civilistica appare importante, non solo perché recupera le ragioni profonde che stanno alla base del tradizionale criterio normativo di attenuazione dell'imputazione soggettiva, ma anche perché, in un breve passaggio, la sentenza pone in luce i contesti che per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione benevola del comportamento del sanitario: da un lato le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche; e dall'altro (aspetto mai prima enucleato esplicitamente) le situazioni nelle quali il medico si trovi ad operare in emergenza e quindi in quella temperie intossicata dall'impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose facili. Quest'ultima notazione, valorizzata come si deve, apre alla considerazione delle contingenze del caso concreto che dischiudono le valutazioni sul profilo soggettivo della colpa, sulla concreta esigibilità della condotta astrattamente doverosa”.

La pronuncia ben sottolinea la necessità di tener conto delle contingenze nelle quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi e della cura, sovente accresciuta dall'urgenza, e si colloca nel solco di quelle altre decisioni (Cass. pen. Sez. IV, 9 aprile 2013, n. 16237) che, in modo lucido ed icastico, ha evidenziato come «il rimprovero personale che fonda la colpa personalizzata, spostata cioè sul versante squisitamente soggettivo, richiede di ponderare le difficoltà con cui il professionista ha dovuto confrontarsi; di considerare che le condotte che si esaminano non sono accadute in un laboratorio o sotto una campana di vetro e vanno quindi analizzate tenendo conto del contesto in cui si sono manifestate. Da questo punto di vista, si è concluso, l'art. 2236 c.c. non è che la traduzione normativa di una regola logica ed esperienziale che sta nell'ordine stesso delle cose».

Nella direzione di valorizzare le specifiche circostanze del caso concreto si muove, del resto, lo stesso art. 3-bis del D.L. n. 44/2021, laddove stabilisce – con riferimento ai «fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale, commessi nell'esercizio di una professione sanitaria e che trovano causa nella situazione di emergenza» che ai fini della valutazione del grado della colpa, il giudice tiene conto, tra i fattori che ne possono escludere la gravità, «(..) della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare (..)».

Come si accennava, nell'ambito della giurisprudenza civile non sembra, però, che siano ancora maturi i tempi per una lettura “espansiva” dell'art. 2236 c.c.., nei termini prospettati dalla Cassazione penale; questa, almeno, è l'impressione che si ricava dall'esame dei precedenti, non avendosi evidenza di sentenze che, nel rapporto paziente – professionista, arrivino ad escludere la responsabilità di quest'ultimo (valutando la colpa come “lieve”) in ragione di situazioni organizzative che hanno inciso, limitandole, sulle obiettive modalità di esecuzione della prestazione.

Il profilo “logistico” potrebbe, però, assumere rilievo nei rapporti interni, e cioè ai fini della rivalsa che la struttura sanitaria potrebbe proporre nei confronti nell'esercente, posto che lo stesso art. 9 della L. n. 24/2017 prevede che «ai fini della quantificazione del danno , fermo restando quanto previsto dall'articolo 1, comma 1 bis, della legge 14 gennaio 1994 n. 20, e dall'articolo 52, secondo comma, del testo unico di cui al regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, si tiene conto delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l'esercente la professione sanitaria ha operato».

Vi è da chiedersi se tale norma, dettata testualmente per le strutture sanitarie pubbliche (l'incipit del comma 5 ha riguardo all'«azione di responsabilità amministrativa»), sia “agganciata” alla sola disciplina speciale di cui alla L. n. 29/1994 e al R.D. n. 1214/1934, intenda cioè attribuire alla Corte dei Conti il potere di ulteriormente modulare la riduzione dell'addebito in considerazione, appunto, delle eventuali disfunzioni interne all'ente che abbiano condizionato l'operato del sanitario in rapporto di servizio.

Non sembra, tuttavia, che vi siano ostacoli assolutamente insuperabili ad estendere la disposizione, in parte qua (ed anche solo in via analogica), all'ipotesi della rivalsa proposta in sede civile. L'art. 9 comma 5, infatti, menziona espressamente l'art. 1916 cc. (dunque, potrebbe riferirsi anche all'azione esercitata innanzi all'A.G.O.); inoltre, la circostanza che le «situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche organizzativa, della struttura sanitaria» siano indicate dopo il (separato) richiamo agli istituti tipici del giudizio contabile (con l'inciso «fermo restando») potrebbe suggerire che quella previsione ha una sua autonomia e una vocazione più ampia, non riguarda cioè soltanto il giudizio erariale ma anche quello “comune”.

E' vero peraltro che, stando al dato testuale, le “situazioni di particolare difficoltà” devono essere valutate «ai fini della quantificazione del danno»; tale complemento potrebbe essere letto come sinonimo di “riduzione dell'addebito” (ed essere quindi correlato alla sola azione speciale innanzi alla Corte dei Conti); tuttavia, l'espressione potrebbe anche essere intesa come riferita alla “individuazione della quota” (del risarcimento dovuto al terzo) da porre a carico del medico in sede civile, nel riparto interno ex art. 2055 cc. (la quale potrebbe anche essere pari a zero ove si ritenesse che la colpa non è grave).

D'altro canto, se si vuole guardare la questione sotto diverso profilo, si potrebbe dire che la norma pone in primo piano e conferma una regola generale, ricavabile dalla disciplina comune: è chiaro infatti che ove la struttura sanitaria abbia concorso con la propria negligenza “organizzativa” a cagionare l'evento lesivo, dalla rivalsa dovrà essere esclusa la “parte” (del complessivo costo del pregiudizio) alla stessa imputabile.

L'art. 9 non impedisce certamente di fare applicazione dei normali criteri fissati dall'art. 2055 comma 2 cc. per la individuazione dei rispettivi “apporti” nella causazione del sinistro: sarebbe infatti inaccettabile riversare sul sanitario la “frazione” di danno che è ascrivibile alla condotta dell'Ente di cura (si pensi per es. al fatto che il medico sia stato lasciato solo a gestire una platea numerosissima di vaccinandi senza alcun ausilio o personale di supporto) o ai colleghi che hanno parimenti contribuito a provocare la lesione. Del resto, il presupposto della rivalsa è, appunto, la colpa grave (o il dolo) dell'esercente stesso: non si può pertanto gravare il professionista della quota “riferibile” al comportamento di altri.

L'espressa necessità di tener conto delle «particolari difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura» potrebbe, in definitiva, essere letta vuoi come parametro che consente di modulare e valutare il grado della colpa dello stesso sanitario (sì da ritenere meno rimproverabile la condotta che sia condizionata dalle “disfunzioni” del contesto operativo), vuoi come criterio che impedisce di accollare all'esercente il costo di (quella parte di) pregiudizio ascrivibile all'ente ospedaliero (in applicazione dell'art. 2055 cc.)..

Qualche spunto potrebbe essere tratto da una recente sentenza con cui la Corte dei Conti (Corte dei Conti Lombardia - Milano 3 luglio 2019 n. 171) ha ritenuto di applicare la riduzione dell'addebito, valutando così con minor rigore la condotta del responsabile proprio in quanto inserita in un contesto operativo non facile, al medico che aveva dovuto visitare in un solo pomeriggio ben 26 pazienti, tra l'altro in una giornata particolarmente afosa (sul presupposto, che parrebbe ricavarsi per implicito, che l'Azienda sanitaria avrebbe dovuto meglio organizzare il pronto soccorso affiancando al convenuto altri operatori, in numero adeguato a far fronte alle obiettive esigenze di quel nosocomio).

In tale pronunzia la Corte ha qualificato in termini di “gravità” la colpa del medico del pronto soccorso che, dopo aver descritto come “sporca” la ferita da taglio, non aveva accertato, in concreto, se sussistesse o meno la copertura antitetanica (il paziente si era riservato di consultare la documentazione relativa alle proprie vaccinazioni una volta rientrato al domicilio, ma il sanitario si era dimenticato di ricontattarlo per conoscere l'esito di detta verifica). Il Giudice contabile ha ritenuto che la condotta omessa fosse doverosa e di agevolissima realizzazione anche a mezzo telefono “(..) Unica alternativa a tale differita, ma fulminea, acquisizione, nelle 24 ore, di risposta da parte del Mo [ndr del paziente] ( da riportare in cartella) sulla avvenuta copertura antitetanica, era la immediata somministrazione doverosa di immunoglobine da parte del medico del pronto soccorso al momento del ricovero, evitabile solo se vi fosse stato rifiuto scritto del paziente , qui non formulato, essendo secondo ordinarie (e doverosamente note) conoscenze mediche, la vaccinazione antitetanica o l'immunoglobina necessaria per i completamento della profilassi a seguito di morsi o ferite lacere o puntorie, ustioni o ulcere profonde e in situazioni di storia vaccinale sconosciuta”.

Nel caso di specie tuttavia, la Corte dei Conti ha fatto uso del potere riduttivo dell'addebito in considerazione di diverse circostanze, tra cui assumono particolare rilievo ( ai nostri fini) le seguenti: a) il non avere l'assistito stesso informato la dottoressa, né in sede di ricovero né successivamente, della avvenuta ( o meno) copertura antitetanica, essendo suo onere fornire ogni basilare informazione utile alla cura (fermo restando l'assorbente e prevalente obbligo accertativo in capo al sanitario); b) l'elevato numero di pazienti (n. 26) seguiti dal medico in quella giornata, tra l'altro “onerosamente estiva”.

I possibili “ambiti di responsabilità”

Veniamo ora alla (immaginaria) “casistica” (che non si pretende certo esaustiva ma, se non altro, indicativa).

a) L'errore nella condotta “esecutiva”

Una prima ipotesi potrebbe essere quella dell'errore nella condotta materiale cioè nel “gesto” della iniezione intramuscolare. L'evenienza parrebbe improbabile, trattandosi, come si è visto supra, di “pratica routinaria” (e quindi intrinsecamente non difficile); ad ogni modo, anche alla luce di quanto rilevato da Cass. 21177/2015, ferma la necessità dell'accertamento del nesso, la responsabilità dovrebbe potersi affermare allorquando sussista una colpa, ossia quando sia ravvisabile la violazione delle leges artis e dei protocolli relativi alla localizzazione ed alla esecuzione dell'atto stesso.

Analoghe considerazioni dovrebbero valere con riguardo ad altri aspetti inerenti alla fase della inoculazione, come ad es. il dosaggio: l'osservanza delle prescrizioni contenute nelle indicazioni fornite in sede di immissione in commercio del farmaco dovrebbe rappresentare parametro ed argine per la valutazione della correttezza dell'operato.

Le cronache hanno dato conto di qualche isolato caso in cui, per errore, il vaccino è stato somministrato in quantità eccessiva (da quel che consta, di norma le fiale consegnate dalla casa produttrice contengono più “dosi” che vanno suddivise per ogni singolo paziente; ciò che, verosimilmente, non è avvenuto nelle ipotesi testè menzionate). Senza voler entrare nel merito di tali vicende, in astratto parrebbe difficile negare la “colpa”; richiamando quanto più sopra osservato, sarebbe interessante cercare di capire se, in ragione delle specifiche contingenze concrete, possa invocarsi l'applicabilità dell'art. 2236 cc. (nella prospettiva, si ripete, valorizzata dalla giurisprudenza penale, volta a considerare le circostanze in cui si inserisce la condotta, che “possono rendere difficili anche le cose facili”: così, il rimprovero da muovere potrebbe, in ipotesi, essere qualificato come non “grave” ove l'azione sia avvenuta in un contesto molto poco organizzato, con ritmi elevatissimi e concitati di lavoro, con poco personale ed una affluenza notevole e mal gestita di pazienti). Si tratta, comunque, come si è avuto modo di osservare, di una strada difficilmente percorribile allo stato dell'arte (almeno nei rapporti paziente – esercente, potendosi semmai diversamente ragionare nell'ottica della rivalsa interna). In ogni caso, ai fini di una (ipotetica) responsabilità risarcitoria resterebbe comunque ferma la necessità della prova di un danno e del relativo nesso.

b) Somministrazione di vaccino in presenza di controindicazioni

Altra ipotesi da considerare è quella della responsabilità per gli eventi avversi (prevedibili e ricollegabili al vaccino sulla base delle conoscenze scientifiche del momento) che si siano verificati perché il farmaco è stato somministrato nonostante la presenza di specifiche controindicazioni, riportate nella documentazione relativa alla autorizzazione all'immissione in commercio (e/o nelle circolari ministeriali), ma non considerate o comunque ignorate dal medico.

Lasciando da parte il profilo organizzativo e l'incidenza che le difficoltà logistiche potrebbero avere su una corretta anamnesi (ai fini dell'art. 2236 cc. o della rivalsa, su cui supra), si potrebbe pensare al caso in cui il sanitario non abbia doverosamente verificato le condizioni del paziente, “dimenticandosi” di raccogliere o comunque di esaminare le informazioni rilevanti per comprendere se quel dato preparato fosse o meno adatto (l'operatore non ha chiesto se /o comunque ha trascurato di considerare che, per es.: il soggetto aveva manifestato determinate allergie, assumeva certi farmaci, era affetto da talune patologie ecc.).

Nell'ipotesi in cui la persona abbia riportato danni alla salute in conseguenza della vaccinazione potrebbe aprirsi la via ad un risarcimento, sul presupposto dell'avvenuto accertamento di una condotta negligente /imperita/imprudente dell'esercente.

Per quanto concerne la dimostrazione del nesso, l'assolvimento dell'onere potrebbe qui apparire “agevolato” (in termini di ragionamento probabilistico) dal fatto che la reazione manifestatasi rientri nel novero di quelle attese – sulla base delle evidenze scientifiche – nei soggetti per i quali è appunto sconsigliata la somministrazione di quel preparato. Il fatto stesso, insomma, che in sede di immissione in commercio si siano individuate determinate categorie di individui per i quali quel farmaco è “controindicato” postula che a monte vi sia stata la presa d'atto della esistenza del maggior rischio, per costoro, di subire effetti collaterali (ad es. in ragione di correlazioni note tra le sostanze impiegate e particolari predisposizioni/caratteristiche individuali ecc.).

Sul tema può essere utile ricordare che in una recente sentenza la Cassazione (Cass. civ., 13 agosto 2018n. 20727) ha confermato il rigetto delle domande proposte dai genitori di un bimbo per ottenere la condanna al risarcimento dei danni derivati al figlio minore nei confronti della ASL e del medico che aveva proceduto alla vaccinazione antipertussica; la Corte ha ritenuto conforme a diritto la decisione del Giudice di merito che, una volta accertata, all'esito di apposita CTU, l'esistenza del nesso tra l'inoculazione ed il “successivo sviluppo di un'encefalopatia”, aveva tuttavia escluso la responsabilità del sanitario (e dell'Azienda) sulla base dei seguenti rilievi: a) non vi erano controindicazioni “clinicamente evidenti” alla somministrazione “e, in particolare, quelle specificate nella circolare ministeriale n. 9 del 1001, o anche solo di previ elementi di sospetto circa una predisposizione in tal senso del piccolo”; b) “l'insorta complicanza neurologica non era ragionevolmente prevedibile in quanto evento documentato ma estremamente raro”.

Dall'esame della pronuncia potrebbe quindi ricavarsi che il parametro di riferimento per valutare la condotta sia costituito dalla esistenza di “controindicazioni clinicamente evidenti” (sulla base delle conoscenze scientifiche del momento) oppure anche solo dalla presenza di “elementi di sospetto circa una predisposizione in tal senso” in relazione alla situazione specifica del soggetto (in tale secondo caso parrebbe darsi per implicito che le regole di diligenza e prudenza impongano maggiore cautela: di fronte al “sospetto”, il medico dovrebbe fermarsi e richiedere un approfondimento diagnostico).

La Cassazione, inoltre, nel condividere le considerazioni del giudice del merito, sembra lasciare intendere (punto b) che il fatto che un certo trattamento comporti dei rischi “estremamente rari” non lo rende, per ciò solo, “controindicato” e comunque non espone chi lo somministra a responsabilità (resterebbero salvi, semmai, i profili legati al consenso informato, su cui infra).

Del resto, potrebbe osservarsi che tutti i farmaci sono “pericolosi”, nel senso che comportano (con diversa incidenza e gravità) degli effetti collaterali, tanto è vero che (come si dirà nella Parte II) la loro fabbricazione è ricondotta dalla giurisprudenza nell'alveo dell'art. 2050 cc. (proprio in ragione della intrinseca natura del bene): il fatto che un medicinale comporti dei “rischi” non è circostanza da sola idonea a generare una responsabilità (per chi li produce e per chi li prescrive o somministra), anche perché, se così fosse, l'alternativa (per sfuggire ad un obbligo risarcitorio) sarebbe quella di non utilizzarli mai (rinunziando così ai benefici che da essi derivano e che spesso sono di enorme rilevanza). Occorre quindi una operazione di bilanciamento, a cui solitamente provvede la legge stessa: “(..) le normative che si occupano dei prodotti potenzialmente pericolosi per la salute umana hanno già al loro interno elaborato lo standard di rischio accettabile” (sul punto si veda Lalage Mormile, Il principio di precauzione fra gestione del rischio e tutela degli interessi privati in GIURETA, Rivista di Diritto dell'Economia, dei Trasporti e dell'Ambiente, Vol. X,2012, 247 ss.). Il tema verrà ripreso ed approfondito allorquando si tratterà della responsabilità delle aziende farmaceutiche. Per quanto riguarda il medico, egli dovrà valutare se, in ragione delle avvertenze del produttore e delle condizioni di salute del paziente, quel preparato sia o meno “indicato” o se la prudenza imponga di sceglierne un altro, privo di un certo principio attivo (ad es. perché, sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili, esso è potenzialmente dannoso se utilizzato in presenza di determinate predisposizioni o patologie concorrenti). La diligenza dovrebbe cioè misurarsi in relazione alla prevedibilità /evitabilità; in termini più generali è utile ricordare quanto chiarito dalla stessa Cassazione, in merito al concetto di “complicanza”.

La Cass. 11 novembre 2019, n. 28985 (tra le note sentenze di “San Martino bis”) ha ritenuto di dover “ribadire il principio secondo cui nel giudizio di responsabilità medica, per superare la presunzione di cui all'art. 1218 c.c. non è sufficiente dimostrare che l'evento dannoso per il paziente costituisca una "complicanza", rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione (indicativa nella letteratura medica di un evento, insorto nel corso dell'iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile) priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 13328 del 30 giugno 2015)”.

Per chiudere sul punto, è opportuno dare conto, per completezza, del fatto che le ipotesi di errata diagnosi o comunque di mancata (colposa) acquisizione di elementi rilevanti ( es. presenza di allergia o sottoposizione ad una specifica terapia farmacologica) che, se conosciuti, avrebbero imposto scelte terapeutiche diverse vengono generalmente ricondotte dalla giurisprudenza nell'alveo della violazione del consenso informato ( Cass. 19.02.2013 n. 4030 ; Cass 7385/2021).

Qui si afferma che l'omessa informazione è “premessa causale della lesione del diritto alla salute” sul presupposto che, ove quelle notizie fossero state debitamente assunte, il trattamento, che si è risolto in danno del paziente, non sarebbe stato eseguito. La fattispecie si presta ad essere ricondotta alle ipotesi che la recente Cass. 11 novembre 2019 n. 28985 ha tratteggiato (nell'ambito del proprio “decalogo”) sub “caso B)”, ossia quello della “omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente”.

Resta però qualche dubbio, a parere di chi scrive, sulla effettiva possibilità di individuare, nel caso concreto, “danni – conseguenza” (in termini quanto meno sofferenziali) ontologicamente diversi ed autonomamente risarcibili (correlati, rispettivamente, alla lesione del diritto all'autodeterminazione ed al vulnus alla salute).

c) Violazione del consenso informato

Un'altra ipotesi potrebbe essere quella della mancanza o della non corretta acquisizione del consenso; la casistica può essere la più varia: il soggetto ha aderito alla campagna vaccinale ed ha accettato di sottoporsi all'iniezione senza avere ben chiari i rischi, i benefici, ecc. ( ad es. perché non ha ricevuto le informazioni in modo limpido ed intellegibile o perché non era in grado di comprenderle); o ancora, non sono state rispettate le eventuali formalità o procedure stabilite dalla legge per una valida manifestazione della volontà (es. soggetti incapaci ; si veda anche il recente D.L. 1 aprile 2021, n. 44che all'art. 5 disciplina la “ Manifestazione del consenso al trattamento sanitario del vaccino anti SARS-CoV-2 per i soggetti che versino in condizioni di incapacità naturale” ed estende la particolare procedura prevista dall'art.1-quinquies del decreto legge 18 dicembre 2020, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 gennaio 2021, n. 6, anche alle persone non ricoverate nelle strutture assistenziali, attribuendo in tal caso le funzioni di amministratore di sostegno al direttore sanitario della ASL o ad un suo delegato).

Occorre premettere che, in linea generale, secondo l'orientamento della Cassazione, il consenso “deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell'intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all'uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico” (Cass. 2177/2016). Nello stesso senso si è rilevato che “Posto che tale informazione è condizione indispensabile per la validità del consenso, consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, è necessario che il sanitario fornisca al paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili riguardanti le terapie che intende praticare o l'intervento chirurgico che intende eseguire, con le relative modalità (v. Cass. n. 15698/2010).).

Ma fino a che punto si deve spingere l'obbligo informativo?

Vale la pena rilevare che, secondo un indirizzo che pareva consolidato, il dovere del medico “ si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l'id quod plerumque accidit, in quanto, una volta realizzatisi, verrebbero comunque ad interrompere il necessario nesso di causalità tra l'intervento e l'evento lesivo (Cass. n. 27751/2013)”.

Tale orientamento mirava a realizzare un “bilanciamento”, nell'interesse del malato stesso, perché muoveva, testualmente, dalla considerazione per cui non si poteva “disconoscere che l'operatore sanitario deve contemperare l'esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento”. (Cass. civ., 15 gennaio 1997 n. 364, in Foro it., 1997, I, 771; in senso sostanzialmente conforme, si vedano anche Cass. 26 marzo 1981 n. 1773; Cass. 9 marzo 1965, n. 375, in Foro it. 1965, I, 1040; più di recente Cass. civ., 8 marzo 2016, n. 4540; Cass. civ., 9 febbraio 2010, n. 2847; Cass. civ., 30 luglio 2004, n. 14638).

Da ultimo, tuttavia, la Cassazione sembra volersi allontanare dai propri precedenti: vi sono infatti alcune sentenze, anche recenti, che affermano – nell'ottica della rinnovata centralità attribuita all' autodeterminazione – che il medico deve riferire tutte le possibili conseguenze negative “anche qualora la probabilità di verificazione dell'evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito [...], perché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto ed il professionista o la struttura sanitaria non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni” (così Cass. civ., 10 dicembre 2019, n. 32124. Nello stesso senso, cfr. Cass. civ., 19 settembre 2014, n. 19731).

Tale posizione parrebbe, del resto, trovare conferma nella legge n. 219/2017 che riconosce, all'art. 1, il diritto di ogni persona ad “essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.

La previsione normativa sembrerebbe estesa ad ogni “rischio”, senza alcuna specificazione/limitazione: il che potrebbe indurre a pensare che ai fini dell'informazione (che deve essere “completa”) non fa differenza la percentuale statistica di verificazione dell'evento (la quale semmai può rilevare, come si vedrà infra, ai fini del nesso causale).

Volendo dunque calare queste prime osservazioni nel contesto attuale si potrebbe pensare al paziente al quale non sia stato riferito, per es., che il vaccino (seppur non “controindicato” nel caso di specie) potrebbe comunque (in astratto) provocare eventi avversi, in percentuale peraltro bassissima (es. con riferimento ad Astra Zeneca dalla stampa si evince che i primi studi condotti attesterebbero che il rischio di trombosi e di conseguente morte si aggira intorno a 0,0003% - Corriere della sera 10.04.2021 “Vaccini, dopo gli errori serve una operazione verità” di Lorenzo Bini Smaghi).

Poniamo che, disgraziatamente, quella reazione grave si verifichi effettivamente: quali potrebbero essere le conseguenze per l'esercente che ha inoculato il preparato (muovendo dall'assunto che egli non abbia commesso alcun errore nella esecuzione della prestazione, salvo appunto il profilo della omessa informazione)?

Se si prende a riferimento la pronunzia di Cass., 11 novembre 2019, n. 28985 –che costituisce indubbio “faro” per l'interprete facendo parte delle sentenze di San Martino bis relative al cd. “Progetto sanità” - sembra doversi concludere che la strada per un risarcimento sia un poco in salita.

Ciò per due motivi: in primo luogo la Suprema Corte nella citata sentenza ha chiarito che:

“Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito "secundum legem artis", ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione - perfezionatosi con la condotta omissiva violativo dell'obbligo informativo preventivo - e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.”.

La Cassazione (sempre nella decisione n. 28985/2019) ha ulteriormente precisato che: «Il paziente che alleghi l'altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che: a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicché la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. "vicinanza della prova"; c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell'intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all'"id quod plerumque accidit".Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell'operazione, non potendosi configurare, "ipso facto", un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l'impredicabilità di danni "in re ipsa" nell'attuale sistema della responsabilità civile».

Già solo alla luce di questi elementi pare si possa dire che è del tutto inverosimile ed improbabile che il paziente, se informato di un rischio (astratto) di morte per es. dello 0,0003% in seguito alla inoculazione – e di una contrapposta, enormemente superiore, alea di decedere per effetto del contagio da virus - avrebbe rifiutato di sottoporsi alla iniezione.

D'altro canto, non può trascurarsi il fatto che siamo di fronte ad una vaccinazione che è stata fortemente raccomandata dall'autorità governativa, e di cui sono evidenti gli indubbi benefici (anche a livello mediatico, si pensi ad es. al confronto con altri Paesi, in cui, grazie al rapido svolgersi della campagna di immunizzazione, il tasso di mortalità e di contagi è stato drasticamente abbattuto).

Del resto pare piuttosto indicativa la polemica che si è levata per stigmatizzare il comportamento di coloro che (additati come “furbetti”) hanno ottenuto la vaccinazione prima degli altri (nell'ambito delle maglie lasciate aperte dal provvedimento del Ministero della Salute 08.02.2021 "Raccomandazioni ad interim sui gruppi target della vaccinazione anti SARS-CoV-2/COVID-19"): ciò sulla base dell'evidente condiviso presupposto che costoro abbiano ottenuto un indebito - ed agognato - vantaggio a discapito delle categorie degli anziani e dei più fragili.

Si aggiunga, infine, che la questione del “rischio” di eventi avversi correlato alla inoculazione (in particolare con riferimento ad Astra Zeneca) è stata oggetto di così ampia diffusione da far apparire piuttosto irrealistica una (eventuale) tesi circa la mancata conoscenza (almeno in termini generali) dello stesso.

L'altro profilo che, poi, osterebbe al risarcimento, attiene alla prova del nesso causale: ove si muova dalla considerazione che la possibilità che il preparato provochi l'evento avverso è - per stare all'esempio di cui sopra - dello 0,0003%, pare assai arduo arrivare a dimostrare (seppur solo in termini di più probabile che non) che nel caso concreto è stato proprio il farmaco a determinare l'evento (essendo in realtà statisticamente molto più verosimile il contrario, ossia che sia intervenuta una eziologia diversa, legata a cause che ad es. hanno maggiore incidenza sulla base delle osservazioni ed evidenze).

Si consideri in proposito che il caso qui in discussione parrebbe riconducibile entro l'ipotesi che la Cassazionen. 28985/2019 ha tratteggiato sub C) nel corpus del proprio “decalogo” (passaggio 2.5 della motivazione); «Possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni conseguenti ad una omessa od insufficiente informazione: (..): «- C) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute - da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l'intervento non sarebbe stato eseguito - andrà valutata in relazione alla eventuale situazione "differenziale" tra il maggiore danno biologico conseguente all'intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto».

Perché possa esservi spazio per il risarcimento del danno occorrerebbe dunque non solo dimostrare che il paziente non si sarebbe sottoposto alla terapia, ma anche che l'evento lesivo della salute di fatto verificatosi sia una concretizzazione di quel rischio di cui il soggetto non è stato informato, sia cioè una conseguenza effettivamente derivata da quel trattamento (come “complicanza non prevedibile o inevitabile” correlata appunto a quell'atto medico). Lo schema di ragionamento seguito dalla Corte è questo: il paziente ha subito una compromissione fisica non imputabile a colpa dei sanitari perché si tratta di un “effetto collaterale” non scongiurabile che rientra tra i potenziali rischi dell'intervento. E tuttavia, il medico viene comunque chiamato a risarcire il danno alla salute (oltre a quello per la violazione del consenso, in via equitativa) perché il paziente, ove informato, avrebbe rifiutato, e ciò avrebbe in radice impedito l'evento.

Il nesso è elemento indefettibile; ove fosse dimostrato che non è l'atto medico ad aver causato quella lesione (in quanto dovuta ad una eziologia indipendente), l'omessa informazione perderebbe totalmente di rilievo (perché l'accadimento avverso si sarebbe verificato anche se il paziente non si fosse sottoposto alla terapia).

Resta da dire che nel caso, invece, in cui non si verifichi alcun effetto negativo in conseguenza della vaccinazione, pare davvero difficile configurare una responsabilità per la mera violazione del consenso: riconoscere un risarcimento vorrebbe dire, verosimilmente, ammettere un danno in re ipsa, discendente dal mero vulnus del diritto (in assenza di apprezzabili e serie conseguenze in termini di deminutio).

Sul punto la Cassazione ha icasticamente ribadito che non basta la lesione in sé, essendo necessario individuare le specifiche ricadute negative che ne costituiscono l'effetto (in tal senso Cass. civ., 11 novembre 2019, n. 28985: “non potendosi configurare, "ipso facto", un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l'impredicabilità di danni "in re ipsa" nell'attuale sistema della responsabilità civile”).

Anche Cass. 7385/2021 ha sottolineato in modo icastico che: “Quel che deve ribadirsi è che tutte le volte in cui – in base ad un giudizio comparativo tra la situazione verificatasi in seguito all'omessa informazione e quella che si sarebbe avuta se la gestante fosse stata posta nelle condizioni di autodeterminarsi – non sia dato scorgere alcun tipo di pregiudizio al di là della mera privazione del diritto di scegliere fine a se stessa e/o la lesione subita non possa di per sé raggiungere un sufficiente livello di offensività non è possibile dar luogo ad una tutela risarcitoria”.

Una prima sintesi

All'esito di queste riflessioni, parrebbe potersi dire che lo spazio per affermare una responsabilità dei vaccinatori non sia “drammaticamente ed irrimediabilmente esteso”. L'ipotesi che, forse, pare più realistica è quella della non corretta anamnesi, in relazione ad “effetti indesiderati” derivanti dalla inoculazione di un preparato che, nella specie, era controindicato (sulla base di quanto riportato nel documento di autorizzazione alla immissione in commercio e comunque alla luce delle evidenze scientifiche allo stato maturate).

Resta da chiedersi peraltro, in linea assolutamente generale, se, nella sfortunata ipotesi in cui il soggetto abbia riportato danni, una volta escluso (per difetto di colpa o di nesso) l'obbligo di risarcimento in capo ai sanitari che hanno effettuato l'iniezione, la “vittima” resti senza protezione.

La risposta dovrebbe essere negativa, sia perché, per un verso, potrebbero aprirsi le porte per una tutela indennitaria (L. 25 febbraio 1992 n. 210 – L. 299/2005) , sia perché occorrerebbe comunque esplorare altri piani di indagine (che potrebbero per es. condurre, sempreché ne sussistano i presupposti, alla affermazione di una responsabilità del Ministero della Salute o del produttore di vaccini…). Su questi ulteriori temi avremo modo di tornare nella Parte Seconda e Terza.

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