Discriminazione di genere: l'agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente

02 Agosto 2021

In tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, considerata l'agevolazione probatoria di cui all'art. 40 del d.lgs. n. 198 del 2006, grava sul datore di lavoro l'onere di provare le circostanze inequivoche idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, essendo demandata alla parte ricorrente la sola deduzione delle circostanze minime essenziali da cui presuntivamente inferire la lamentata discriminazione.
Massima

In tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, considerata l'agevolazione probatoria di cui all'art. 40 del d.lgs. n. 198 del 2006, grava sul datore di lavoro l'onere di provare le circostanze inequivoche idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, essendo demandata alla parte ricorrente la sola deduzione delle circostanze minime essenziali da cui presuntivamente inferire la lamentata discriminazione.

Il caso

S.C., lavoratrice in forze presso un ente pubblico di ricerca in virtù di successivi contratti a termine, lamentava la mancata proroga dell'ultimo contratto di lavoro a tempo determinato e chiedeva vedersi riconosciuto il diritto all'accesso alla procedura di stabilizzazione indetta dall'ente medesimo.

La pronuncia del Tribunale di Roma, che aveva dichiarato la natura discriminatoria della mancata concessione della proroga – per aver l'ente accordato il rinnovo dei contratti a tutti i colleghi nelle medesime condizioni contrattuali della lavoratrice e per non averlo riconosciuto a quest'ultima, a causa del suo stato di gravidanza –, era stata riformata dalla Corte d'Appello della medesima sede, che riteneva invece infondate le pretese della lavoratrice non avendo essa fornito alcuno specifico elemento di fatto idoneo a provare la lamentata discriminazione e non avendo, in particolare, fornito elementi circa le proroghe ovvero le stipule di nuovi contratti da parte degli altri colleghi, fondati sulla medesima causale di quello dell'appellata.

La questione

La Corte di cassazione ha affrontato la questione relativa alla ripartizione dell'onere probatorio ove si agisca per dimostrare la sussistenza di una discriminazione fondata sul sesso, avendo nel caso di specie il datore di lavoro concesso il rinnovo dei contratti a termine a tutti i colleghi nelle medesime condizioni contrattuali della ricorrente e non a quest'ultima, a causa del suo stato di gravidanza.

Il collegio, preliminarmente rilevando come la questione sottoposta ai giudici di merito non vertesse sulla sussistenza di un diritto soggettivo al rinnovo di un contratto a termine in essere tra le parti, ma sulla presenza di una discriminazione, ha rigettato le argomentazioni con cui il controricorrente aveva invocato l'esercizio di un potere discrezionale circa l'opportunità di disporre il rinnovo di un contratto in scadenza e riaffermato come, pur nell'ambito dell'esercizio di un potere discrezionale, sia possibile verificare se ad una lavoratrice sia stato riservato un trattamento meno favorevole, a parità di situazioni, in ragione del suo stato di gravidanza.

Soluzioni giuridiche e osservazioni

La Corte è pervenuta al principio di diritto secondo cui, considerata l'agevolazione probatoria di cui all'art. 40 del d.lgs. n. 198 del 2006 – in linea con quanto disposto dall'art. 19 della direttiva n. 2006/54/CE –, a fronte dell'avvenuta deduzione delle circostanze minime essenziali da cui presuntivamente inferire la lamentata discriminazione, l'onere di provare, all'interno di esse, i fatti negativi grava sul datore di lavoro, fermo restando il potere d'ufficio del giudice di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, in ragione dei rispettivi oneri, per colmare eventuali lacune delle risultanze di causa.

Per comprendere la portata di tale principio sarà necessario procedere ad una ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.

La normativa di fonte comunitaria ha nel tempo approntato forme di tutela volte a proteggere la gravidanza, la maternità e la genitorialità (art. 157 TFUE, sulla parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e femminile; art. 33, paragrafo 2, Carta UE, contro il licenziamento per motivi legati alla maternità, che sancisce anche il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l'adozione di un figlio; direttiva 92/85/CE, concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento; direttiva 2006/54/CE, sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego; direttiva 2010/18/UE in materia di congedo parentale), costituendo la discriminazione collegata alla gravidanza e alla maternità una forma particolare di discriminazione di genere. Quanto alla concreta dimostrazione della sussistenza di una discriminazione di tal genere, l'art. 4 della direttiva 97/80/CE (il cui testo è riprodotto dall'art. 19 della direttiva n. 2006/54/CE, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego), in merito alla ripartizione dell'onere probatorio nei casi di discriminazione basata sul sesso prevede che gli Stati membri adottino i “provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l'insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta”.

Attraverso numerose pronunce la CGUE ha stabilito che, poiché soltanto le donne possono rimanere incinte, costituiscono discriminazione diretta fondata sul sesso – non giustificabile da alcun interesse, compreso quello economico del datore di lavoro – il rifiuto di assumere o il licenziamento di una donna incinta per il suo stato di gravidanza o maternità (CGUE 3 febbraio 2000, Mahlburg, C-207/98, § 27-30; CGUE 8 novembre 1990, Hoejesteret, C-179/88; CGUE 14 novembre 1989, Dekker, C-177/88, § 12), il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a tempo determinato motivato dallo stato di gravidanza della lavoratrice (CGUE 4 ottobre 2001, Jiménez Melgar, C-438/99, § 45-46), nonché qualsiasi trattamento sfavorevole direttamente o indirettamente connesso alla gravidanza o alla maternità (CGUE 5 maggio 1994, Habermann- Beltermann, C-421/92; CGUE 14 luglio 1994, Webb, C-32/93; CGUE 19 ottobre 2017, Otero Ramos, C-531/2015). La Corte di Giustizia ha inoltre ribadito come una donna non sia tenuta a comunicare la sua gravidanza al datore di lavoro nel processo di assunzione o in qualsiasi altra fase del rapporto di lavoro (sent. Webb cit.; CGUE 27 febbraio 2003, Busch, C-320/01).

La protezione contro la discriminazione fondata sul sesso è ben sviluppata anche dalla Carta Europea dei Diritti dell'Uomo, nell'ambito della quale la Corte EDU ha dichiarato che l'uguaglianza di genere è uno dei principali obiettivi perseguiti dagli Stati del Consiglio d'Europa (CEDU 22 marzo 2012, Konstantin Markin c. Russia [GC], n. 30078/06, § 127; v. anche CEDU 2 dicembre 2014, Emel Boyraz c. Turchia, n. 61960/08; CEDU 16 novembre 2004, Ünal Tekeli v. Turkey, n. 29865/96, § 49; CEDU 22 febbraio 1994, Burghartz v. Switzerland, n. 16213/90, § 27; CEDU 24 giugno 1993, Schuler-Zgraggen v. Switzerland, n. 14518/89, § 67).

Nel diritto interno il d.lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) si è specificamente occupato del comportamento discriminatorio fondato sul sesso ed ha promosso, sul piano sostanziale, le pari opportunità di carriera e di lavoro tra i sessi, lasciando all'attore la scelta tra il rito "ordinario" del lavoro e un rito speciale appositamente delineato – ricondotto al modello del rito sommario di cognizione ex art. 702 bis e ss. c.p.c. ad opera del d.lgs. 150/2011. In merito alla concreta dimostrazione di una situazione discriminatoria l'art. 40 (il cui contenuto riproduce quanto già previsto dall'art. 4, comma 5, l. 125/1991 ed è a sua volta ripreso dal d.lgs. 150/2011, art. 28, comma 4) prevede che «quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione».

Per quanto concerne la concreta applicazione di tale principio la Corte di Cassazione ha da tempo affermato che, nei giudizi antidiscriminatori – siano essi proposti con le forme del procedimento speciale o con quelle dell'azione ordinaria (Cass. n. 14206 del 2013) –, i criteri di riparto dell'onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all'art. 2729 cod. civ., bensì quelli speciali, che non stabiliscono un'inversione dell'onere probatorio ma solo un'agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente; ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore, privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione (Cass. n. 1 del 2020; Cass. n. 25543 del 2018). Si aggiunga che l'onere della prova attenuato riferito al fattore di rischio nei termini di cui si è detto va anche coordinato con il generale “principio di vicinanza della prova” (Cass. SS. UU. n. 13533 del 2001) che porta a ritenere che i contratti rinnovati ovvero prorogati si trovino nella materiale disponibilità di parte datrice.

Nel caso in esame, dunque, è stata cassata la sentenza con cui la Corte territoriale aveva finito per porre a carico della ricorrente una prova piena di tutti gli elementi significativi di una discriminazione laddove, come detto, il legislatore ha posto a carico della stessa solo la dimostrazione di una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio, dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione.