Ancora sull'art. 84 CCI: tra antinomie normative e questioni aperte, sarà vera gloria?

Alessandro Corrado
03 Agosto 2021

L'Autore esamina la disposizione di cui all'art. 84 CCI e si domanda se sia possibile un'interpretazione in linea con il diritto comunitario e con la giurisprudenza interpretativa della Corte di giustizia e, di pari passo, soprattutto un largo utilizzo. La norma, infatti, congegnata in modo meritorio per dare forte impulso al concordato preventivo con continuità aziendale diretta o indiretta con l'esplicito fine di salvaguardare i livelli occupazionali, presenta una serie di problematiche che hanno suscitato le perplessità della dottrina e della magistratura.
Premessa

Intervenendo ad un convegno organizzato via Webinar dall'ODCEC di Ferrara il 5 maggio 2021 e suggestionato dalla data che ha coinciso con il duecentesimo anniversario della morte di Napoleone, mi sono domandato (A. Corrado, Tra continuità diretta ed indiretta: il trasferimento d'azienda dell'impresa in stato d'insolvenza nel Codice della Crisi) se sia possibile un'interpretazione dell'art. 84 CCI in linea con il diritto comunitario e con la giurisprudenza interpretativa della Corte di giustizia (giusto per ricordare le lapidarie parole usate dalla legge delega n. 155/2017) e, di pari passo, soprattutto un largo utilizzo, contrariamente a quanto potrebbe sembrare dando credito alle voci che si sono levate da più parti.

Già, perché la norma congegnata in modo meritorio per dare forte impulso al concordato preventivo con continuità aziendale diretta o indiretta con l'esplicito fine di salvaguardare i livelli occupazionali, presenta una serie di problematiche che hanno suscitato le perplessità della dottrina e della magistratura: la prima, ne ha giustamente sottolineato l'antinomia con il suo parente stretto, il nuovo comma 4-bis dell'art. 47 legge n. 428/90.

Questo, introdotto dal CCI proprio per correggere l'infelice formulazione usata dal legislatore nazionale dopo la sentenza di condanna della Corte giustizia 11 giugno 2009, causa C-561/07, nelle operazioni di trasferimento d'azienda riguardanti imprese in crisi (ma non insolventi al punto da non poter proseguire l'attività, in via diretta o indiretta), limita la possibilità di comprimere i diritti garantiti dall'art. 2112 c.c., ora con un testo molto più in sintonia con il testo della Direttiva n. 23/2001/CE.

I Giudici, pur con tutti i legittimi dubbi alimentati dalla complessità della novella legislativa, saranno per forza di cose chiamati ad interpretarla ed applicarla, ed alcuni (come per il provvedimento reso dal Trib. Milano 28 novembre 2019, seppure il CCI non sia già in vigore per il rinvio disposto a causa dell'emergenza sanitaria) si sono già cimentati verificando il rispetto del requisito dimensionale ivi previsto (che in caso di cessione d'azienda pretende mantenimento o riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione) ai fini della qualificazione del concordato preventivo in continuità indiretta.

La disposizione normativa di cui all'art. 84 CCI

La norma si cala in un generalizzato contesto da anni teso ad intercettare, regolamentare e sostenere la crisi, prima che si arrivi a situazioni di insolvenza che devono poi – in modo inevitabile e forzato – sfociare nella liquidazione atomistica dei beni del debitore.

La disciplina legislativa comunitaria dell'insolvenza infatti, con la direttiva n. 1023/2019, enfatizza la necessità di ristrutturazioni preventive e rilevazioni precoci della crisi.

Inoltre, al contrario di quanto previsto dal Codice della crisi (le cui norme riguardanti le procedure di allerta tacciono in modo colpevole), pone l'accento sull'importanza di predisporre un quadro di obblighi di informazione e consultazione per permettere a lavoratori e OO.SS. di essere aggiornati sull'evoluzione della situazione dell'imprenditore.

Prima ancora, sul versante nazionale, il decreto legislativo n. 148/2015, nel riordinare la regolamentazione degli ammortizzatori sociali, aveva escluso dai casi di intervento quello della cessazione dell'attività produttiva dell'azienda, limitando l'intervento a favore dei lavoratori dipendenti di imprese in crisi alla sola continuità aziendale (reso possibile dalle note Circolari ministeriali 5 ottobre 2015, n. 24; 1° gennaio 2016, n. 1; 8 agosto 2016, n. 27).

Ed ora, una delle principali scommesse del Codice della crisi è proprio anticipare la disclosure della crisi con le procedure d'allerta, che – non a caso – sono all'origine dello slittamento dell'entrata in vigore per via dell'emergenza sanitaria.

E se, alla fine di un'interminabile serie di rinvii dell'entrata in vigore, il Codice non dovesse neppure in parte vedere la luce, assisteremo a qualcosa di paradossale: oltre a quello già citato del Tribunale di Milano su un caso di concordato preventivo con continuità aziendale indiretta, sono diverse le decisioni giudiziali che si ispirano alle norme già varate, ma non ancora entrate in vigore (mi riferisco alla sentenza con cui la Corte d'Appello di Milano 11 febbraio 2019 ha condannato l'INPS al pagamento delle quote di TFR maturate da due lavoratori durante la vigenza del rapporto di lavoro con la datrice di lavoro poi fallita, il cui rapporto è stato trasferito ad una società aggiudicataria del ramo cui erano addetti. La Corte ha di fatto anticipato gli effetti previsti dal nuovo comma 5-bis dell'art. 47 L. n. 428/1990; tuttavia, la Cassazione – ribadendo il proprio orientamento –, ha negato tale diritto ancora con la sentenza 23 febbraio 2021, n. 4897 (cfr. il mio recente Blog del 7 aprile 2021, “Tra Fondo di tesoreria e Fondo di garanzia: ultime novità giurisprudenziali sul pagamento del TFR nell'insolvenza”).

L'altra grande scommessa del Codice è decisamente la tutela dei livelli occupazionali, che viene perseguita spostando l'asse degli interessi in gioco anche a costo di rischiare, come da più parti osservato, l'incostituzionalità per eccesso di delega: contrariamente alla prescrizione dell'art. 2, comma 1, lett. g) legge delega n. 155/2017, di prevedere proposte di superamento della crisi assicurando “la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori” (in linea con quanto attualmente prevede l'art. 186-bis l.f.), l'art. 84 non solo mette in chiaro la funzione premiale dell'obbligo di mantenimento di “un numero di lavoratori pari ad almeno la metà di quelli in forza nei due esercizi antecedenti … per un anno dall'omologazione”.

Ma, nel caso di concordato preventivo atipico (o c.d. misto) introduce una vera e propria presunzione assoluta di prevalenza, “quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività di impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi precedenti il momento del deposito del ricorso” (in tal senso il già citato provvedimento del Trib. Milano 28 novembre 2019).

Paradossalmente, tuttavia, questa finalità viene perseguita secondo una soluzione che sembra contrastare sia con la Direttiva 23/2001/CE che tutela i diritti dei lavoratori nelle operazioni di trasferimento d'azienda o di rami d'azienda, sia con il nuovo comma 4-bis dell'art. 47 L. n. 428/1990 così come riscritto dall'art. 368 CCI proprio per adeguare la normativa italiana a quella comunitaria.

L'antinomia è data dal fatto che, come ampiamente noto, nei casi di continuità aziendale indiretta come quelli previsti dall'art. 84, comma 2, CCI – seppure il trasferimento d'azienda avvenga nell'ambito di una crisi aziendale che, a determinate condizioni, rende possibile comprimere le tutele previste dall'art. 2112 c.c. a favore dei lavoratori coinvolti sul fronte di retribuzione, mansioni, orario ed altre condizioni di lavoro – l'operazione non può mai prevedere la deroga alla norma che prevede l'obbligo di trasferire tutti gli addetti all'azienda oggetto di cessione.

Per brevità, sul punto si può rimandare all'esaustivo excursus con cui la Corte di cassazione (sentenza 1° giugno 2020, n. 10474), grazie ad un'elegante interpretazione del comma 4-bis dell'art. 47 L. 428/1990 ancora in vigore, che supera i dubbi di non conformità con la Direttiva 23/2001/CE, ha escluso la possibilità di licenziare i dipendenti nell'ambito di una vicenda circolatoria il cui fine non sia la liquidazione dei beni del cedente.

Prima dei Giudici di legittimità, erano stati quelli di merito a stabilire in modo netto che nei casi di continuità aziendale indiretta è solo possibile flessibilizzare le condizioni di lavoro dei lavoratori. Ma proprio una di tali rigorose pronunce (Trib. Padova 27 marzo 2014) ha affermato espressamente la possibilità di attuare operazioni di ristrutturazione in continuità aziendale indiretta con mantenimento parziale della forza lavoro, e quindi in deroga all'art. 2112 c.c., purché – condizione imprescindibile, data l'inderogabilità della norma – con “l'accordo stipulato con il singolo lavoratore interessato ex artt. 410-411 c.p.c.” necessario “per incidere sui diritti allo stesso assicurati dai commi 1 e 2 dell'art. 2112 c.c.”.

Bisogna quindi chiedersi se l'antinomia tra l'art. 84 CCI, la Direttiva 23/2001/CE ed il comma 4-bis dell'art. 47 L. n. 428/1990 è risolvibile, ed in quali termini.

Appare inevitabile, ed anzi la norma sembra congegnata in tal senso, che tutti gli attori in gioco facciano la propria parte: l'imprenditore in crisi e quello designato per la continuazione dell'attività imprenditoriale dovranno ispirare il proprio operato e le proprie scelte, oltre che ovviamente nel rispetto dei requisiti dimensionali previsti dal comma 2 dell'art. 84, a buona fede e correttezza. Solo così, l'interlocuzione con Organizzazioni Sindacali e singoli lavoratori potrà essere scevra da polemiche e dare i frutti sperati.

Questi ultimi sono i soggetti che si trovano nella posizione più scomoda: poiché difatti gli viene chiesto di sopportare il sacrificio maggiore (i singoli esclusi nell'interesse della collettività), saranno l'ago della bilancia dell'intera operazione (cfr. il mio Focus, Necessario il consenso dei lavoratori nel concordato con continuità indiretta parziale, in questo portale, 30 settembre 2019). Aderire o meno all'operazione sarà una decisione necessariamente influenzata anche dal panorama legislativo riguardante ammortizzatori sociali e politiche attive disponibili per i lavoratori esclusi.

Infine, il Tribunale garante ed arbitro della partita, sarà chiamato a verificare il rispetto delle regole ed avrà un incisivo potere di veto sull'operazione potendo sospendere l'operazione con la richiesta di rimodulare la proposta di concordato preventivo in modo che sia conforme alla legge (cfr. Trib. Padova 27 marzo 2014) o, in modo più pragmatico, di integrarla pretendendo il rispetto del requisito dimensionale previsto dalla norma (cfr. Trib. Milano 28 novembre 2019).

Conclusioni

Sullo sfondo, restano da risolvere i dubbi sollevati da avvertita dottrina: l'obbligo di mantenere i livelli occupazionali per un anno dall'omologazione si potrà davvero tradurre per l'imprenditore subentrante nell'obbligo di assumere un numero di lavoratori almeno pari a quelli necessari per raggiungere la soglia minima? Tale obbligo potrà scattare anche nel caso in cui il numero dei lavoratori impiegati dovesse scendere sotto la soglia per cause non imputabili all'imprenditore, come nel caso di dimissioni? Il lavoratore che ritenga di essere stato escluso in modo illegittimo potrà agire per ottenere un risarcimento del danno prodotto dalla perdita di chance? (cfr. Alvino, Continuità aziendale, trasferimento d'azienda e tutela dell'occupazione, in RIDL, 2019, 431).

La violazione dell'obbligo di mantenere una determinata quota di occupazione potrà incidere sulla validità del concordato? (cfr. Arato, Il concordato in continuità nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Fall., 2019, 855).

Ai posteri, ed alla prassi, l'ardua sentenza!

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