Trasferimento delle partecipazioni sociali ad un prezzo simbolico e validità delle clausole di earn-out

04 Agosto 2021

Deve ritenersi lecito l'accordo con cui le parti, nell'ambito di un contratto di trasferimento di partecipazioni sociali, avevano pattuito un prezzo simbolico ed una futura eventuale integrazione del prezzo, pari al 50% dell'eventuale attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione: tale pattuizione rientra nelle clausole c.d. di earn-out...
Massima

Deve ritenersi lecito l'accordo con cui le parti, nell'ambito di un contratto di trasferimento di partecipazioni sociali, avevano pattuito un prezzo simbolico ed una futura eventuale integrazione del prezzo, pari al 50% dell'eventuale attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione: tale pattuizione rientra nelle clausole c.d. di earn-out, volte a parametrare il corrispettivo per la cessione, suddividendolo in una parte fissa ed una variabile, parametrata all'andamento della società, quest'ultima da corrispondersi in un momento successivo.

Non può, in proposito, invocarsi la nullità della clausola, in quanto il funzionamento in concreto del meccanismo di integrazione del prezzo non dipende dall'acquirente, e non viene violato il disposto di cui all'art. 1355 c.c.: la predisposizione dei bilanci, infatti, sulla cui base viene determinato il maggior prezzo da corrispondere, non spetta al soggetto acquirente, bensì agli amministratori della società target, che nella loro attività sono tenuti al rispetto di norme imperative.

Nei contratti di trasferimento di partecipazioni sociali, così come in quelli che hanno per oggetto la cessione d'azienda o di un ramo di essa, è pienamente legittima l'indicazione di un prezzo puramente simbolico: senza necessariamente venir ricondotti nella fattispecie della vendita nummo uno o di donazione, l'indicazione del prezzo simbolico è giustificata al solo fine della tassazione dell'atto, laddove la corrispettività viene individuata, caso per caso, dall'entità dei debiti che vengono trasferiti con l'azienda o la società, ovvero da un interesse non patrimoniale del cessionario. Occorre sempre distinguere non solo tra negozio a titolo gratuito e a titolo oneroso, ma anche tra gratuità e liberalità.

Il caso

In data 24 febbraio 2016, gli attori cedevano una quota di partecipazione nel capitale sociale di una S.r.l. (Villa Letizia) in liquidazione – complessivamente rappresentativa del 60% del capitale sociale – a fronte del pagamento di un corrispettivo totale di Euro 2,00 (Euro 1,00 ciascuno). Nel maggio dello stesso anno, uno dei due acquirenti cedeva una partecipazione del 50% della s.r.l. all'altro, che poi a sua volta – nel corso dell'ottobre 2016 – trasferiva la propria intera partecipazione nella società alla Polo Re S.r.l.. Nel febbraio 2017, la partecipazione della Polo Re veniva quindi ceduta ad una S.a.s. di proprietà del primo acquirente che in ultimo, nel corso del 2018, trasferiva ulteriormente la partecipazione in Villa Letizia s.r.l. a Eco Salus S.r.l., società al tempo interamente controllata dalla Polo Re S.r.l..

Gli attori lamentavano che il primo atto di cessione fosse da considerarsi nullo e di conseguenza anche tutte le successive disposizioni patrimoniali, tutte tese a simulare la vendita a terzi in buona fede, ma dissimulanti atti di disposizione patrimoniali elusivi e tesi alla prova di un'inesistente buona fede contrattuale.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

I ricorrenti lamentavano la nullità del contratto di compravendita stipulato il 24 febbraio 2016 in quanto privo del prezzo e pertanto di una causa che giustificasse l'attribuzione patrimoniale che ne costituiva l'oggetto (combinato disposto dell'art. 1418, comma 2, c.c. e art. 1470 c.c.). In subordine, sostenevano la nullità del contratto in quanto stipulato in violazione del divieto imperativo di apporre condizioni meramente potestative (combinato disposto dell'art. 1418, comma 3, c.c. e art. 1355 c.c.). Dalla nullità del contratto del 2016, i ricorrenti traevano poi la nullità dei successivi trasferimenti delle partecipazioni sociali di Villa Letizia S.r.l. in liquidazione.

Come già anticipato, la compravendita del 2016 veniva perfezionata ad un prezzo assolutamente simbolico (complessivamente pari a Euro 2,00). Secondo le prospettazioni dei ricorrenti, i contratti di cessione di partecipazioni sociali possono essere ricondotti al genus dei contratti di compravendita, la cui causa va individuata nello scambio di un bene verso un corrispettivo pecuniario. Recita infatti l'articolo 1470 c.c. che “la vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo”. Per tale ragione, prevendendo il contratto del 2016 un prezzo meramente simbolico e privo di valore reale (e pertanto ritenuto del tutto inesistente dai ricorrenti) avrebbe dovuto concludersi per l'assenza totale di qualsiasi corrispettivo, con la conseguenza che “l'atto sarebbe privo di un elemento necessario a ricondurre il contratto sotto lo schema causale della compravendita”.

La Corte non ha ritenuto il rilievo meritevole di seguito sostenendo che – con particolare riferimento non solo ai contratti di trasferimento di partecipazioni sociali, ma anche a quelli aventi ad oggetto l'azienda o un ramo di essa – sia pienamente legittima l'indicazione di un prezzo puramente simbolico (in questo caso, Euro 1,00 per ciascun venditore-ricorrente), spesso giustificata al fine della tassazione dell'atto o della sua repertoriazione. Va quindi tenuta concettualmente distinta la “corrispettività del trasferimento” dal mero “pagamento del corrispettivo”, non potendosi identificare interamente la prima nella seconda; è ben possibile che la parte cedente, pur non ricevendo un corrispettivo per il trasferimento delle partecipazioni (o ricevendone uno meramente simbolico), consegua ugualmente e appieno un diverso interesse anche non patrimoniale.

La mera previsione di un prezzo simbolico non consentirebbe neanche un'automatica riconduzione del contratto alla fattispecie della vendita a nummo uno o della donazione (richiedendo quest'ultima un animus donandi e un arricchimento del donatario).

La Corte rigetta pertanto la ricostruzione dei ricorrenti.

Il contratto del 2016 prevedeva inoltre una clausola di integrazione di prezzo sino a concorrenza del 50% dell'eventuale attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione, da pagare in contanti entro 30 giorni dal deposito del bilancio finale di liquidazione nel Registro delle imprese.

Simili clausole (c.d. di earn-out, dall'inglese “earned” dovendo suddetta componente di prezzo variabile essere “guadagnata” – così: Accomero, Le clausole di earn out nei contratti di compravendita di partecipazioni societarie, in Le Società, n. 10, 2017, 1077 ss.) consentono all'alienante di ottenere il pagamento di un complemento di prezzo, meramente eventuale e variabile, in un momento differito rispetto al trasferimento di proprietà della partecipazione e dipendente da una serie diversa di parametri negozialmente concordati tra le parti(per maggiori dettagli in merito alle clausole di earn-out, si veda ex multis, Accornero, op. cit.., Sangiovanni, Contratto di cessione di partecipazione sociale e clausole sul prezzo, in I Contratti, n. 12, 2011, 1161 e ss., Bonelli, Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento: le garanzie del venditore, in Dir. comm. internaz., n. 2, 2007, 293 e ss.).

I ricorrenti, richiamando autorevole dottrina, sostenevano la nullità di simili clausole evidenziando che, al fine della determinazione dell'importo dell'earn-out, sia necessario fare riferimento ad una situazione finanziaria o ad un bilancio – successivi alla data del closing dell'operazione di compravendita – predisposti dall'organo amministrativo della target. In altre parole, il buyer si obbligherebbe a pagare un complemento di prezzo, la cui determinazione dipenderebbe tuttavia dal buyer stesso; spetterà infatti all'acquirente, in veste di nuovo socio della target, nominare dopo il closing l'organo amministrativo incaricato della redazione di suddetti documenti. Ciò quanto basta ai ricorrenti per concludere che il pagamento dell'earn-out sia rimesso al mero arbitrio dell'acquirente e la sua determinazione dipenda pertanto da una condizione meramente potestativa idonea a travolgere di nullità il contratto.

Il Tribunale non ha condiviso tale impostazione. Non corrisponderebbe infatti al vero che il funzionamento del meccanismo di earn-out dipenda dall'acquirente. La predisposizione dei bilanci sulla cui base determinare l'eventuale maggior prezzo da corrispondere al venditore spetta infatti all'organo amministrativo della target e non al socio-acquirente, trattandosi di soggetti funzionalmente ben distinti fra di loro. Ricorda inoltre la Corte come la condotta degli amministratori sia presidiata da norme imperative che regolano tanto la responsabilità degli stessi (e, dunque, la condotta), quanto le metodologie da seguire nella predisposizione del bilancio. Neppure la circostanza per cui vengano a coincidere l'acquirente della partecipazione e l'organo amministrativo chiamato a valutare la possibile integrazione di prezzo assume per la Corte alcun rilievo. Tale circostanza, essendo di mero fatto, non incide – da un lato – sulla validità della clausola e – dall'altro – “la coincidenza delle persone fisiche non esclude che l'attività del soggetto sia presidiata dalle regole di condotta prima sommariamente richiamate”.

In ultimo, i ricorrenti sostenevano che il pagamento del corrispettivo variabile fosse rimesso alla mera eventualità che la liquidazione venisse definita con un attivo da ripartire fra i soci, eventualità che a sua volta dipendeva dalla conduzione della procedura di liquidazione, rimessa all'esclusivo ed insindacabile arbitrio del liquidatore. Conseguentemente, non essendo predeterminati i criteri da seguirsi per l'integrazione del prezzo e divenendo così il prezzo di acquisto della partecipazione indeterminabile, il contratto avrebbe dovuto essere dichiarato nullo in virtù del combinato disposto dell'art. 1418, comma 2, c.c. con l'art. 1346 c.c.

Anche quest'ultimo rilievo non è apparso al Tribunale meritevole di seguito. Il contratto del 2016 era chiaro nel prevedere l'integrazione del prezzo in misura pari ad una frazione “dell'eventuale attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione, risultando certamente determinati i criteri di determinazione dell'integrazione del prezzo.

Osservazioni

Le soluzioni fornite dal Tribunale con il provvedimento in commento risultano del tutto convincenti.

È ormai un dato assodato, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, che nel contesto di una compravendita di partecipazioni sia pienamente legittima l'indicazione di un prezzo puramente simbolico, non venendo per ciò solo meno la corrispettività del trasferimento. Ricondurre ad unum il concetto di corrispettività e di corrispettivo risulta infatti una lettura quantomeno limitante. Come giustamente sostenuto dalla Corte, anche in assenza di un corrispettivo (o in presenza di un corrispettivo meramente simbolico) è ben possibile per la parte alienante realizzare appieno un diverso interesse giuridico (anche non patrimoniale); l'interesse del venditore potrebbe infatti essere anche ravvisato – a titolo d'esempio – nella semplice liberazione dai propri debiti o responsabilità, soprattutto se questi sia socio di maggioranza o amministratore. Nel caso di specie, inoltre, se è vero che il prezzo iniziale risultava del tutto simbolico (si ricorda, Euro 1,00 per ciascun venditore), è anche vero che il contratto stesso non limitava il corrispettivo alla sola componente fissa, ma prevedeva altresì una possibile integrazione di prezzo grazie alla clausola di earn-out.

Altrettanto convincente è la soluzione raggiunta dai giudici in relazione all'impossibilità di invocare la nullità delle clausole di earn-out sulla scorta del disposto dell'articolo 1355 c.c. (secondo cui “È nulla l'alienazione di un diritto o l'assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell'alienante o, rispettivamente, da quella del debitore”). La predisposizione dei bilanci sulla cui base determinare l'eventuale maggior prezzo da corrispondere al venditore spetta infatti all'organo amministrativo della target e non al socio-acquirente, trattandosi di soggetti funzionalmente ben distinti fra di loro. È certamente d'obbligo rimarcare l'esistenza di una netta separazione funzionale tra soci e organo amministrativo, separazione che continua a persistere anche nel caso di una coincidenza soggettiva tra i due. La difesa dei ricorrenti sembra invece (voler) del tutto ignorare l'esistenza tanto della separazione funzionale ora richiamata, quanto dell'impianto di norme imperative particolarmente stringenti che regolano l'incarico gestorio nelle società.

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