Principio costituzionale di solidarietà nelle obbligazioni

Cesare Trapuzzano
05 Agosto 2021

Il principio di solidarietà permea l'intero sistema della responsabilità civile, costituendo il nucleo essenziale attraverso cui leggere il requisito dell'ingiustizia del danno. In questa dimensione dinamica la solidarietà, non solo ha consentito l'estensione della tutela risarcitoria a favore di diritti inviolabili della persona - che fuoriescono da una elencazione tassativa e che emergono dal contesto storico-sociale relativo all'epoca in cui la pretesa è azionata -, ma ha altresì permesso un'adeguata quantificazione delle somme a tale titolo spettanti, attraverso il riconoscimento delle pertinenti voci di pregiudizio rispetto alla fattispecie concreta dedotta. Nondimeno, secondo un andamento a fisarmonica, ad una fase estensiva del risarcimento in chiave solidaristica è subentrata una fase di contenimento, volta ad attribuire alla solidarietà la funzione di filtro bagatellare e di calmiere nelle liquidazioni, cui ha fatto seguito, sempre in ragione dell'art. 2 Cost., una rinnovata e “calibrata” apertura, registrata negli ultimi anni e testimoniata dagli approdi nomofilattici sulla discriminazione tra danno biologico e danno morale, sul ristoro della perdita di chance non patrimoniale, sull'ammissione della categoria del danno punitivo, seppure nelle sole fattispecie tipiche e prevedibili contemplate dall'ordinamento.
Abstract

Il principio di solidarietà permea l'intero sistema della responsabilità civile, costituendo il nucleo essenziale attraverso cui leggere il requisito dell'ingiustizia del danno. In questa dimensione dinamica la solidarietà, non solo ha consentito l'estensione della tutela risarcitoria a favore di diritti inviolabili della persona - che fuoriescono da una elencazione tassativa e che emergono dal contesto storico-sociale relativo all'epoca in cui la pretesa è azionata -, ma ha altresì permesso un'adeguata quantificazione delle somme a tale titolo spettanti, attraverso il riconoscimento delle pertinenti voci di pregiudizio rispetto alla fattispecie concreta dedotta. Nondimeno, secondo un andamento a fisarmonica, ad una fase estensiva del risarcimento in chiave solidaristica è subentrata una fase di contenimento, volta ad attribuire alla solidarietà la funzione di filtro bagatellare e di calmiere nelle liquidazioni, cui ha fatto seguito, sempre in ragione dell'art. 2 Cost., una rinnovata e “calibrata” apertura, registrata negli ultimi anni e testimoniata dagli approdi nomofilattici sulla discriminazione tra danno biologico e danno morale, sul ristoro della perdita di chance non patrimoniale, sull'ammissione della categoria del danno punitivo, seppure nelle sole fattispecie tipiche e prevedibili contemplate dall'ordinamento.

Inquadramento: il principio di solidarietà in chiave civilistica

Il significato di solidarietà – al quale si riferisce la Carta fondamentale, all'art. 2 – è in verità, più che univoco, polimorfo, requisito che nel tempo ha reso la solidarietà un principio leggibile in una dimensione “dinamica”.
L'espressione si può trarre dalle considerazioni di un autorevole studioso (Rodotà), secondo cui «parole che sembravano perdute tornano nel discorso pubblico, e gli imprimono nuova forza. “Solidarietà” è tra queste, e pur immersa nel presente, non è immemore del passato, e impone di contemplare il futuro».

Se ne scorge, allora, la sua naturale dinamicità, a fronte di un testo statico, mai toccato da alcuna modifica, ma oggi evocato dai moderni istituti e dalle ricorrenti riflessioni di dottrina e giurisprudenza. Al riguardo, taluni istituti giuridici, alla stregua della loro radice solidaristica, hanno potuto evolversi anche in significati ed effetti opposti rispetto a quelli originari, pur a fronte di una solidarietà che, seppur rimasta letteralmente invariata nel tempo, è stata capace di sospingere il sistema in direzioni differenti e, talvolta, appunto, opposte. In altre parole, la solidarietà si è manifestata in diverse accezioni, facendosi essa stessa motrice dell'evoluzione di taluni istituti giuridici, che ancora oggi continuano ad essere ricondotti all'art. 2 Cost., ma sotto una diversa forma. Cosicché nell'accostarsi alla solidarietà è necessario guardare al principio, per il significato che esso riveste all'attualità, consci del fatto che questo significato racchiude la sua storia passata e, al contempo, influenzerà la storia futura di numerosi istituti, che – pur conservando la loro origine solidaristica – perderanno, in parte, l'originario contenuto, così evidenziandosi la polisemia insita nell'art. 2 Cost.

In questa prospettiva, e traslando il tema sul piano strettamente privatistico, la responsabilità civile sembra far emergere, allo stato odierno, quanto meno sotto certi profili, un'allocazione del danno che segue, anziché la traccia dell'ingiustizia vera e propria, nella sua valenza tecnico–giuridica, un criterio di analisi economica del diritto, nella logica della comparazione tra costi e benefici, volto non già a riparare, bensì a traslare l'aggravio economico (ovvero i rischi economici) collegato ai vincoli giuridici. In merito, la solidarietà è stata all'origine di una “tendenza espansiva” del sistema risarcitorio e – pur a fronte della medesima base giuridica – è diventata, nell'ultimo decennio, almeno in parte qua, motore di un'opposta “tendenza contenitiva”. A quest'ultima, secondo uno sviluppo per così dire a fisarmonica, sembra far seguito, negli ultimi anni, un ritorno a una lettura ampliativa, seppure orientata entro canali ben delineati di assestamento sistemico, diretti a non derogare integralmente ai passaggi ormai consolidati cui è approdata la giurisprudenza. In proposito, assai emblematico appare il confronto tra le sentenze di San Martino del 2008 e il decalogo ricavabile dalle sentenze di San Martino del 2019.

All'esito del conclamato e risalente passaggio da una solidarietà “individuale” ad una solidarietà “sociale”, a partire dalle pronunce del 2008, pare essersi affermata, sempre entro certi limiti, una nuova solidarietà sociale, in una dimensione bidirezionale: la si invoca per imporre obblighi ai consociati, anziché per tutelarne appieno i loro diritti. E recentemente questi ultimi diritti, almeno in una chiave settoriale, sembrano riapparire, per imporsi avverso una ricostruzione limitativa, che costituisce oggetto di rimeditazione, proprio sull'onda della solidarietà: quest'ultima rappresenta lo snodo per la rivisitazione di alcuni arresti, reputati eccessivamente penalizzanti delle ragioni della vittima, nella misura che di seguito si esaminerà. Per converso, la prospettiva di una solidarietà sociale “bidirezionale” permette al singolo di auto-crearsi diritti (si pensi all'obbligo di rinegoziare un contratto divenuto squilibrato, in forza della buona fede integrativa di matrice solidaristica), ovvero di auto-creare degli obblighi di “sopportare una parte del danno” derivante da un fatto illecito, anziché salvaguardarne l'integrale riparazione, secondo quanto espressamente sancito, seppure con i conseguenti temperamenti giustificativi e satisfattivi della vittima, nella sentenza della Corte costituzionale sulle lesioni micro-permanenti. Pronuncia, questa, successivamente ripresa in sede nomofilattica, allorché sono state contemplate le condizioni generali della personalizzazione nella quantificazione del risarcimento, oltre i limiti tabellari prefissati.

Sulla riparazione integrale del danno secondo il sistema tabellare

ORIENTAMENTI IN EVOLUZIONE

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), impugnato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 32, 76 e 117, primo comma, Cost., nonché 2, 3, 6 e 8 della CEDU, 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione medesima, 6 del Trattato UE, 1 e 3, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali UE, in quanto introduce un meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico (permanente o temporaneo) da lesioni di lieve entità derivanti da sinistro stradale, ancorato a livelli pecuniari ex ante riconosciuti come equi. Il Governo - chiamato a definire il riassetto normativo e a realizzare la codificazione della legislazione regolante la materia, confermando, se del caso, le norme previgenti - si è mosso lungo il binario di scelte rientranti nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi, della legge di delega e del decreto delegato, dettando una disposizione (quella censurata) avente lo stesso tenore dell'art. 5, comma 4, della legge n. 57 del 2001. Quanto alla paventata limitazione del diritto risarcitorio, essa attiene alla garanzia dell'oggetto di tale diritto, e non all'aspetto dell'azionabilità in giudizio, la quale non è in alcun modo pregiudicata dalla norma de qua. La prospettata disparità di trattamento in presenza di identiche lievi lesioni è poi smentita dalla constatazione che, nel sistema, la tutela risarcitoria dei danneggiati da sinistro stradale è più incisiva e sicura rispetto a quella dei danneggiati da eventi diversi, poiché solo i primi, e non anche gli altri, possono avvalersi della copertura assicurativa, ex lege obbligatoria, del danneggiante - o, in alternativa, direttamente di quella del proprio assicuratore - che si risolve in garanzia dell'an stesso del risarcimento. Inoltre, la legge non trascura la diversa incidenza che identiche lesioni possano avere nei confronti dei singoli soggetti, consentendo al giudice di aumentare fino ad un quinto l'importo liquidabile, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato. L'asserita esclusione della liquidabilità del danno morale si fonda su una premessa interpretativa erronea, posto che esso, secondo la giurisprudenza di legittimità, rientra nell'area del danno biologico e, ricorrendone in concreto i presupposti, può essere giudizialmente riconosciuto. Infine, è ragionevole il bilanciamento operato dal legislatore tra i contrapposti valori coinvolti nel vigente sistema di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata, nel quale le assicurazioni, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici e l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi. Infatti, l'introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno, attinente al solo specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica, lascia spazio al giudice per personalizzare l'importo risarcitorio risultante dall'applicazione delle tabelle.

Corte cost. 16 ottobre 2014, n. 235

In tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, la misura “standard” del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato negli uffici giudiziari di merito (nella specie, le tabelle milanesi) può essere incrementata dal giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, solo in presenza di conseguenze anomale o del tutto peculiari (tempestivamente allegate e provate dal danneggiato), mentre le conseguenze ordinariamente derivanti da pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età non giustificano alcuna “personalizzazione” in aumento.

Cass. civ., sez. III, sent. 11 novembre 2019, n. 28988; sez. VI-III, ord. 7 maggio 2018, n. 10912

Sembra che il sistema si trovi innanzi ad un corto circuito, nel quale la tutela del singolo, di fronte ad una scarsità di risorse, è subordinata all'interesse complessivo dell'ordinamento, che impone di fargli sopportare solidaristicamente una parte di pregiudizio, pena il suo collasso: si pensi appunto alla materia assicurativa o, più in generale, alla delimitazione delle voci di pregiudizio non patrimoniale riparabili. Se poi la si analizza all'interno della nostra Carta fondamentale, si trae conferma del suo carattere polimorfo: al pari della solidarietà, con riferimento alla dignità della persona umana come singolo e all'interno delle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, assumono tale carattere, sino ad identificarsi in veri e propri canoni di valutazione, l'eguaglianza sostanziale tra gli individui e la ragionevolezza intrinseca, la concezione di “famiglia come società naturale”, la funzione sociale della proprietà nonché l'utilità a fini sociali dell'attività economica privata, che permea lo stesso concetto originario di causa del contratto, e quindi impone un vaglio della libertà negoziale dei consociati.

Ad ogni modo, il principio di solidarietà non può che essere il principio fondante della convivenza all'interno dello stato democratico. In questa ottica, la giurisprudenza si pone oltre il dato normativo codificato nella legge ordinaria, legittimando un “diritto vivente” che richiama l'art. 2 Cost, e dunque immettendo scelte innovative, talvolta estranee alla portata precettiva della legge, o per lo meno con essa in tensione. Ciò ha giustificato scelte antitetiche, accomunate, però, dalla riconduzione ad una comune radice. Si dà quindi una solidarietà sociale “multiforme”, che conduce ad esiti divaricati: ampliativi per un verso, restrittivi per l'altro.

L'analisi giurisprudenziale evidenzia numerose espressioni di questo fenomeno ed è condotta proprio al fine di valutare effetti positivi e negativi di detta pratica. Senonché, ad una prima fase espansiva del fenomeno risarcitorio – nell'ambito di un sistema bipolare della responsabilità civile, in cui alla categoria del danno non patrimoniale sono ricondotte le componenti del danno biologico, del danno morale soggettivo e del danno da lesione di interessi della persona costituzionalmente protetti (Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828) –, che ha implicato, nella prassi, una generosa – e (occorre ammetterlo) a volte eccessiva – quantificazione del danno per il soggetto danneggiato, propria del risarcimento del danno nella sua versione del c.d. pregiudizio esistenziale, ha fatto seguito, sull'onda delle note “sentenze di San Martino” delle Sezioni Unite del 2008 (Cass. civ., Sez. Un., sentenze 11 novembre 2008, nn. 26972 e 26975), l'affermazione della prospettiva di contenere tale fenomeno, in virtù della reciprocità sociale che caratterizza le relazioni tra consociati. Per effetto dell'operare del principio di solidarietà, in questa dimensione temperata, sarà talvolta il creditore, talaltra il debitore, a dover sopportare una parte di danno: così scompare l'autonomia della voce del danno esistenziale, il danno biologico ingloba il danno morale, non sono riparabili i nocumenti di portata bagatellare, che non importano una lesione grave, ossia che non superano una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost, impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza), e che determinano un danno futile, vale a dire che consiste in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità (cfr. D. Spera, “Il danno non patrimoniale dal danno futile al danno risarcibile”, in “Questione Giustizia”, n. 5/2004).

In conseguenza, i casi in cui il danneggiato si vede costretto a sopportare una parte del danno in chiave solidaristica non si esauriscono nelle attività lecite, ma dannose, che sottendono un bilanciamento tra opposte sfere giuridiche, ma si riscontrano anche nel sistema di quantificazione del danno non patrimoniale derivante da una condotta illecita, sussumibile nell'art. 2043 c.c., e dunque in presenza di una condotta contra ius e anche colpevole. Ancora, l'obbligo di farsi carico di una parte del danno sussiste, sempre in virtù di un dovere solidaristico di sopportarlo, anche sulla scorta di una condotta colposa non iure, che cagioni un danno contra ius, senza che il responsabile possa essere individuato. È il caso del danno ambientale.

In proposito, il riferimento all'obbligo di “sopportare” una parte del danno non inerisce solo ai meccanismi di quantificazione e selezione del pregiudizio previsti dalle norme positive inserite nel sistema, quali - ad esempio - le norme di cui agli art. 2056 c.c. – vigenti sia in campo aquiliano che contrattuale, in virtù dell'espresso richiamo dell'art. 2056 c.c. –, che già prevedono una limitazione del quantum risarcitorio ai soli danni che siano conseguenza immediata e diretta, o mediata e diretta purché “regolare” dell'inadempimento ovvero dell'illecito, o ancora alla norma di cui all'art. 1225 c.c., che esclude il risarcimento del danno imprevedibile da inadempimento quante volte il soggetto non versi in dolo. Nemmeno alle norme in materia di responsabilità oggettiva, o alle norme settoriali che limitano la responsabilità (a titolo esemplificativo, del vettore ovvero dell'albergatore). Ci si riferisce invece, più specificamente, all'incidenza dell'art. 2 Cost, il quale può certo operare accanto a queste stesse norme, nella ripartizione del danno e nella determinazione del quantum, ponendosi quale ulteriore “filtro” rispetto ai precetti normativi codificati. Si tratta, pertanto, di rilevare come sia emersa una tendenza che, invertendo il segno rispetto a quella tipicamente ricondotta all'art. 2 Cost, ha teso ad allocare una parte del danno in capo al soggetto che non è responsabile della condotta antigiuridica o dell'inadempimento, alla stregua dell'esigenza di salvaguardare altri e diversi interessi costituzionali di pari rango. Nondimeno, se si può certo scorgere una tendenza “inversa”, volta a limitare la tutela risarcitoria per la vittima dell'illecito, in netta controtendenza rispetto alla sua tradizionale funzione espansiva – che ha condotto a un significativo ampliamento della tutela risarcitoria, soprattutto nell'ambito del danno non patrimoniale –, è altrettanto vero che tale tendenza non è univoca. Infatti, il fenomeno può essere definito “a macchia di leopardo”, nel senso che esso non è esclusivamente restrittivo.

Accanto all'emersione di normative settoriali, create ad hoc, con il dichiarato intento di contenere la tutela risarcitoria, ed altresì per effetto di pronunce giurisprudenziali che ne completano l'opera, si riscontra il permanere di una tendenza “espansiva”, che - non essendo più la sola ed univoca - si trova a fare i conti con un'opposta tendenza, che, seppur sotto certi aspetti settoriale, è probabilmente destinata a diventare sistemica. La tendenza “restrittiva” non è propria unicamente dell'ambito civilistico, ma trova conferma in diversi rami dell'ordinamento. Spesso l'art. 2 Cost funziona da “valvola di sistema” che permette di “legittimare” scelte discutibili, e non realmente giustificate, al solo fine di salvaguardare, di volta in volta, l'interesse che “conviene” salvaguardare, utilizzando il principio costituzionale in parola, di fatto, per “autolegittimare” la scelta operata.

Così, se le Sezioni Unite del 2008 hanno, per un verso, ampliato la tutela risarcitoria, rinviando all'art. 2 Cost e ai diritti inviolabili, per altro verso, hanno messo un “punto” alla propagazione del risarcimento in campo non contrattuale, introducendo la c.d. “clausola bagatellare”, e dunque ponendo una sorta di “filtro” atto a selezionare gli illeciti meritevoli di tutela risarcitoria, distinguendoli dai meri disagi e fastidi, in quanto tali da tollerare solidaristicamente. Siffatta tendenza si è poi pian piano sviluppata, sino ad arrivare ad una presa di posizione più netta, momento nel quale è emersa una vera e propria linea di confine tra la tendenza espansiva e l'opposta tendenza restrittiva: essa, da un lato, si estrinseca nella previsione, già recepita dalle citate pronunce del 2008, secondo cui la coesistenza del danno biologico e del danno morale soggettivo integrerebbe un'indebita duplicazione risarcitoria; dall'altro, è rappresentata e ruota attorno alla questione dell'ammissibilità dei danni punitivi.

Se, come per molto tempo è stato, la sua unica funzione deve reputarsi ristoratoria, essa impone di riparare tutti e solo i danni subiti, e non vi sarebbe quindi spazio per i danni punitivi, che determinano un fenomeno di c.d. overcompensation per la vittima dell'illecito, accordando alla stessa una tutela risarcitoria superiore al pregiudizio sofferto, e talvolta addirittura pur in assenza di esso. La stessa tendenza restrittiva ha trovato un positivo ed espresso riconoscimento proprio nella richiamata sentenza della Corte costituzionale 16 ottobre 2014, n. 235, in materia di quantificazione del danno per lesioni micro-permanenti: che ha, appunto, affermato la legittimità del sistema tabellare all'uopo predisposto dal legislatore per le lesioni sino al 9% nella materia dell'infortunistica stradale (e successivamente in quella sanitaria), a fronte del bilanciamento con altri valori di pari portata, e di rilievo generale, come l'esigenza di contenere l'importo dei premi assicurativi in un settore connotato dalla copertura assicurativa obbligatoria (il che garantisce l'an del diritto risarcitorio), facendo salva, comunque, la possibilità di riconoscere il danno morale e di aumentare la misura del risarcimento sulla base della personalizzazione del danno.

Siffatta tendenza restrittiva è confermata, inoltre, dagli ultimi arresti nomofilattici che, con riguardo alla distribuzione dell'onere probatorio sul nesso di causalità materiale tra l'inadempimento oggettivo e il danno-evento, hanno stabilito che detta dimostrazione sia a carico del creditore attore, con la conseguenza che, ove la causa resti ignota od oscura od incerta, il risarcimento del danno da inadempimento non spetta (v., amplius, D. Spera, “La responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale nella “legge Gelli-Bianco”: da premesse fallaci a soluzioni inappaganti”, in Ridare.it, 13.4.2017; Cass. civ., sez. III, sent. 26 luglio 2017, n. 18392; Cass. civ., sez. III, sent. 14 novembre 2017, n. 26824; Cass. civ., sez. III, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. civ., sez. III, sent. 15 febbraio 2018, n. 3704; Cass. civ., sez. III, ord. 23 ottobre 2018, n. 26700; Cass. civ., sez. III, ord. 26 febbraio 2019, n. 5487; e, da ultimo, Cass. civ., sez. III, sent. 11 novembre 2019, n. 28992). E ciò sul presupposto implicito che il danno-evento non si identifica con l'inadempimento, che, anzi, costituisce il suo antecedente logico ed è ad esso collegato da un nesso causale, ove la prestazione, sia essa di dare, fare o non fare, non abbia ad oggetto uno spostamento patrimoniale di ricchezza. In queste ultime ipotesi si distingue tra un inadempimento qualificato, astrattamente idoneo a determinare un nocumento, e un inadempimento oggettivo, concretamente idoneo a produrre il pregiudizio. Pertanto, le cause ignote sono a carico del creditore. In senso diverso, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza 11 gennaio 2008, n. 577, avevano previsto, con riguardo al danno da trasfusione di sangue infetto, che anche il difetto di nesso eziologico fosse a carico del debitore, in tal modo onerato della prova che l'inadempimento dedotto dal creditore danneggiato non fosse in relazione causale con i nocumenti denunciati. In verità, è dubbio che tale ultima restrizione sia riconducibile ad un intento di circoscrivere l'area del pregiudizio riparabile e non piuttosto all'esigenza di conformare siffatto aspetto processuale al principio generale in ordine alla distribuzione dell'onere probatorio ex art. 2697 c.c.

Ad ogni modo, a questa propensione “contenitiva” fa da contraltare, almeno negli ultimi anni, il fermo intento di salvaguardare determinate, intangibili sfere di tutela, proprio secondo una matrice solidaristica, il che ha imposto un ravvedimento di alcune posizioni, che – sebbene mosse da un obiettivo “ragguardevole” – si sono rivelate, a distanza di tempo, estremamente “chiuse”. Si intende fare riferimento ai recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità in base ai quali: a) il danno morale costituisce una voce di nocumento, all'interno dell'onnicomprensivo danno non patrimoniale, diversa dalla voce del danno biologico, e ciò anche ove all'evento lesivo sia seguito il decesso della vittima, potendosi, in detta evenienza, rivendicare, sulla scorta di presupposti diversi, a cura dei parenti della vittima, che possono agire iure hereditario, sia la voce del danno biologico terminale, sia la voce del danno morale catastrofale; b) sono ammissibili, seppure entro i limiti della tipicità e prevedibilità, ipotesi di illecito con finalità punitiva; c) assumono rilievo, ai fini del risarcimento del danno aquiliano, anche determinati illeciti omissivi atipici, alla luce dei doveri di solidarietà sociale e della clausola di buona fede oggettiva; d) spetta il risarcimento del danno da perdita di chance non patrimoniale, allorché sussista un nesso causale tra la condotta omissiva contestata e la perdita della possibilità di un migliore risultato sperato, incerto ed eventuale (come la guarigione o la permanenza in vita per un tempo più lungo o la sopportazione di minori sofferenze).

Tali correttivi non mutano però l'impianto di base su cui si innestano, connotato dalla prospettiva intatta di limitare la proliferazione a dismisura delle richieste risarcitorie.

In evidenza

Il danno non patrimoniale derivante dalla lesione dei diritti inviolabili della persona è risarcibile a condizione che l'interesse leso abbia rilevanza costituzionale, che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale, che il danno non sia futile, ovvero non consista in meri disagi o fastidi e che, infine, vi sia specifica allegazione del pregiudizio, non potendo assumersi la sussistenza del danno “in re ipsa” (Cass. civ., sez. Lav., sent. 24 febbraio 2020, n. 4886; sez. VI-Lav., ord. 12 novembre 2019, n. 29206; sez. VI-III, ord. 18 luglio 2019, n. 19434; sez. II, ord. 9 novembre 2018, n. 28742).

La solidarietà nella responsabilità civile: l'ingiustizia del danno

Le Sezioni Unite di San Martino del 2008 se, per un verso, hanno aperto le porte ad una visione lata del risarcimento del danno non patrimoniale, spettante per ogni lesione di un diritto costituzionalmente garantito, ancorché non individuato da un'espressa disposizione normativa, per altro verso, hanno posto il c.d. “filtro bagatellare”. Sicché, da un lato, la tutela risarcitoria è ammessa, purché la situazione giuridica soggettiva di cui si chiede tutela rientri nel catalogo aperto di cui all'art. 2 Cost., ad onta della stretta tipicità desunta dall'art. 2059 c.c.; dall'altro, essa verrà risarcita solo ove la lesione superi la normale “tollerabilità”, sancendo così un significativo freno alla propagazione risarcitoria.

Ci si interroga però circa il fatto se, alla stregua dei riferiti sviluppi giurisprudenziali, vi sia davvero un'inversione di tendenza. Se cioè si stia progressivamente facendo largo l'idea che, proprio in virtù della clausola solidaristica, il danneggiato sia costretto a sopportare una parte del danno patito. O se piuttosto si tratti di un contemperamento complessivo dei valori coinvolti nell'impianto dell'illecito aquiliano, come potrebbe arguirsi dai temperamenti successivamente apportati a certe soluzioni, rivelatesi “eccessive”. Tale fenomeno si evidenzia, in primo luogo, nello stesso sistema di quantificazione del danno per la vittima dell'illecito, che è stato sottoposto al vaglio della Consulta, al fine di decretare o meno la legittimità costituzionale del metodo tabellare di liquidazione del danno, ove si reputi che sia imposta una limitazione solidaristica dello stesso.

Valutando l'attuale panorama della responsabilità civile, sono numerosi gli esempi di delimitazione del riconoscimento della pretesa, non solo nelle attività lecite - ma dannose -, in relazione alle quali è accordato appunto un rimedio indennitario, anziché risarcitorio, ma anche nell'esercizio di un'attività completamente lecita, come l'esecuzione di un'obbligazione dedotta all'interno di un vincolo contrattuale. In questa ipotesi la funzione della clausola di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. funge da limite interno all'esercizio del diritto, sulla scorta della considerazione che non esiste nell'ordinamento l'esercizio di un diritto privo di limiti. Il limite intrinseco è l'esercizio dello stesso in modo solidale, che impone al suo titolare la buona fede ed il divieto di abusarne, aspetti che trovano fondamento proprio nel principio di solidarietà, prescrivendo al creditore un duty to mitigate, purché non sia arrecato un sacrificio eccessivo. Infatti, dall'analisi dell'operatività della clausola solidaristica, avuto riguardo non solo all'ordinamento interno, ma anche a quello sovranazionale, emerge un utilizzo della stessa quale “valvola di sicurezza”, per adattare un sistema pressoché rigido alle esigenze innovative di flessibilità che muovono dal basso. Prima di addentrarsi nell'esame della struttura dell'illecito aquiliano è necessario porre l'attenzione sul fatto che la nozione stessa di “danno ingiusto” è intrisa di un'accezione solidaristica, in base alla quale può dirsi tale solo il danno “solidaristicamente ingiusto”.

Ed invero, la solidarietà incide non solo sull'an della responsabilità civile, ma anche, una volta individuato il fatto illecito, ai fini del quantum risarcitorio. Anche se è possibile delineare un filo conduttore dei diversi impieghi della solidarietà, sia all'interno degli eterogenei istituti del codice civile, sia all'interno della Costituzione (in cui essa trova espresso riconoscimento all'art. 2) – filo conduttore latamente rinvenibile nell'idea stessa della ricorrenza di un dovere di cooperazione al di fuori di quanto il soggetto sarebbe obbligato a prestare –, essa viene colorata di diverse sfaccettature a seconda dell'istituto in cui opera. Si consideri, per l'appunto, la nozione di fatto illecito, al fine di comprendere come essa possa incidere non solo sulla valenza stessa di “ingiustizia” del danno, bensì anche sull'ammontare del risarcimento che la vittima di esso può conseguire, in ragione di questo obbligo di cooperare, solidalmente ed implicitamente posto, ai sensi dell'art. 1227 c.c.

Venendo all'illecito aquiliano, si suole dire che il nostro sistema giuridico è fondato su una clausola generale di responsabilità, dalla quale si può dedurre l'obbligo di risarcire tutti i danni arrecati ad altri, concorrendo determinati elementi costitutivi, e ciò a differenza di altri ordinamenti, dove tale obbligo sorge solo in ipotesi tipiche. La clausola generale di cui all'art. 2043 c.c. postula, infatti, il principio del neminem laedere e si pone come fattispecie atipica, in grado di ricomprendere al suo interno tutte le ipotesi di danno ingiusto. Con tale intendendosi il presupposto soggettivo del danno non iure (ovverosia non sorretto da alcuna causa di giustificazione) e il presupposto oggettivo del danno contra ius (ovverosia che si pone in contrasto con l'ordinamento giuridico, ledendo interessi meritevoli di tutela). Si è osservato che il “danno ingiusto” rappresenta però una clausola generale, che esige una corretta definizione del concetto di “ingiustizia”.

Da una responsabilità tipica e sanzionatoria, che concepiva come “ingiusto” il solo fatto illecito penalmente rilevante o comunque riprovevole (secondo la formula “nessuna responsabilità senza colpa”), si è passati ad una responsabilità atipica e riparatoria, che considera tale il danno posto in essere in diretta violazione del neminem laedere, con crescente attenzione, anziché all'autore della violazione, alla vittima dell'illecito. Siffatto “danno ingiusto” trova specifico limite nel principio stesso di solidarietà, che non esaurisce la propria operatività in un ambito giuridico già definito, ma che investe interamente la posizione dei soggetti, in quanto membri della medesima comunità. Il concetto di solidarietà permette di ridefinire quello di ingiustizia, lascia cioè sussistere un'atipicità dell'illecito civile, ma ne determina i confini nei termini di un danno “solidalmente ingiusto”.

Da tale assunto è stata desunta, con innegabile rigore, la non necessità di far luogo ad una tipizzazione legislativa di ciascun comportamento dannoso. Questo dovere di solidarietà non è che il dovere di comportarsi in modo da non ledere l'interesse altrui fuori dai limiti della legittima tutela dell'interesse proprio, in modo tale che ne risulti vietato, non soltanto l'atto emulativo ex art. 833 c.c., ma ogni atto che non implichi il rispetto equanime dell'interesse dei terzi, ogni atto di esercizio del diritto che, nell'esclusivo ed incivile perseguimento dell'interesse personale, urti contro l'interesse generale al coordinamento delle sfere individuali.

Taluni hanno sostenuto che la solidarietà possa operare solo laddove si sia già verificata una situazione di contatto giuridicamente rilevante (obbligazioni e trattative contrattuali), e dunque si tratti dell'esercizio di un diritto soggettivo (in particolare della tematica dell'abuso del diritto). Se però la si concepisse unicamente come limite generale ed interno del diritto soggettivo, si escluderebbe la possibilità di far riferimento alla solidarietà quando non sia in questione l'esercizio di un diritto. Essa va invece ponderata in termini autonomi rispetto a quest'ultimo. Come una parte della dottrina ha osservato, “il diritto soggettivo arriva sino a dove comincia la sfera d'azione della solidarietà”.

Sicché il principio di solidarietà è qualcosa di autonomo rispetto al diritto soggettivo, e da ciò può trarsi lo spunto per osservare che, se il limite della solidarietà si ritiene operante quando si esercita un diritto soggettivo, a maggior ragione a questa si può fare riferimento tutte le volte in cui esso non è esercitato, nel senso che la solidarietà protegge anche quel soggetto che potrebbe essere leso dall'esercizio di un diritto di cui è titolare un altro soggetto, che, appunto, esercitandolo, potrebbe ledere la sfera giuridica altrui. In altre parole, essa tutela anche chi non ha esercitato alcun diritto, ma potrebbe essere pregiudicato dall'esercizio del diritto da parte di altri. A maggior ragione i terzi devono essere protetti anche dai comportamenti lesivi, realizzati da altri consociati, che neanche formalmente ricadano nell'esercizio di un diritto ad essi spettante, ossia non solo nei confronti delle condotte abusive, ma anche delle condotte palesemente arbitrarie. Se, infatti, manca nella Costituzione italiana un'enunciazione definitiva in ordine alla solidarietà, è altrettanto vero che questo principio è posto a fondamento del dovere previsto dall'art. 2 della stessa. Per giungere alla piena comprensione del sistema della responsabilità civile, peraltro, è necessario considerare che la concreta operatività del principio di solidarietà è legata ad uno dei requisiti previsti all'art. 2043 c.c., ossia – come visto – all'ingiustizia del danno. A lungo la dottrina ha riferito l'ingiustizia al danno piuttosto che alla condotta, mentre la giurisprudenza è rimasta salda per lungo tempo su una concezione “soggettiva” dell'ingiustizia. In realtà, l'aver posto in diretta relazione danno e ingiustizia fa passare in primo piano il fatto obiettivo della lesione, spostando l'attenzione dall'autore alla vittima dell'illecito, e di conseguenza legittimando il passaggio da una finalità sanzionatoria ad una riparatoria della responsabilità civile.

Questo permette di valutare “oggettivamente” l'ingiustizia del danno, anziché soggettivamente, come avverrebbe se tale connotato venisse ascritto alle modalità di manifestazione della condotta del soggetto danneggiante. O almeno la causa di giustificazione di detta condotta, che può essere rappresentata dall'esercizio di un diritto (o dalla legittima difesa o dallo stato di necessità), costituisce solo una componente (subiettiva) dell'ingiustizia, che comunque non può essere negata ove il comportamento dell'agente si traduca nella lesione irragionevole (oggettiva) di interessi meritevoli di tutela. È proprio l'ingiustizia a rendere il “contatto” dell'art. 2043 c.c. illecito e dunque risarcibile. Essa funziona da criterio selezionatore delle varie situazioni di contatto sociale, che possono sfociare in un danno: solo quelle “ingiuste” possono infatti essere risarcite. È fuori dubbio quindi che porre l'attenzione sul soggetto danneggiato evochi un approccio solidaristico, anziché solo schiettamente punitivo, inteso quale limite generale all'operare dei soggetti. Piuttosto è da verificare se il principio di solidarietà altro non sia se non quel dovere di contegno diligente di cui si suole parlare in dottrina.

Tuttavia, si osserva che, se si correlasse il principio in parola a quello di diligenza, la quale non può che attenere alle modalità della condotta, si finirebbe con lo svilire la stessa pregnanza del principio.

Quest'ultima clausola generale si riferisce ai casi in cui si impone ad un soggetto determinato un certo comportamento, di talché il concetto di diligenza non può che servire a valutare se questo sia stato conforme a quello dettato. A ciò si aggiunga che, qualificare come diligente un contegno, non evita di dovere risarcire il danno, ove questo sia da esso prodotto. Ecco dunque che solidarietà e diligenza sono concetti diversi, che si integrano a vicenda. Sarebbe, infatti, erroneo riferire la solidarietà alla diligenza, perché, per tal via, si connetterebbe l'ingiustizia alla condotta, e non al danno. La solidarietà, nel sistema della responsabilità civile così delineato, opera non solo quando tra i soggetti sia già esistente (recte preesistente) una relazione giuridicamente qualificata, bensì anche quando essi si trovino in una situazione di contatto sociale, che non si può riferire ad ogni generica relazione intersoggettiva, ma esclusivamente a quelle che possono assumere “giuridica rilevanza”. In definitiva, è integrato il contatto sociale ogni qualvolta i soggetti non siano già legati da un rapporto specifico in tal modo violato, ma si determini ex post una situazione giuridicamente rilevante, in forza della quale l'ordinamento appresta tutela a tale tipo di “contatto”, alla stregua dell'affidamento che esso ingenera.

È proprio tale giuridica rilevanza che connota il “contatto”, ai fini dell'integrazione dell'illecito extracontrattuale: al solo dovere negativo di astensione, in chiave preventiva e generale, sotteso al neminem laedere, subentra un positivo dovere di agire nel caso concreto, al fine di tutelare la posizione giuridica del soggetto con cui si viene a “contatto” (recte a contatto instaurato). Il contatto giuridicamente rilevante non è circoscritto ai soli diritti soggettivi, ma ad ogni posizione qualificata che afferisce al soggetto danneggiato. In tal modo, non si tratterà di una serie completamente aperta e indefinita di casi di responsabilità civile, nel senso che l'organo giudicante non è totalmente libero di individuare tali situazioni sulla base del momento storico-sociale in cui si trova ad operare, ma conosce il limite della solidarietà, con riguardo a tutte le situazioni per le quali sia accordabile una qualsiasi forma di protezione, e solo ad esse. In conseguenza, sarà necessario effettuare una comparazione tra la situazione com'è, a causa della violazione, e quella che si sarebbe determinata se il principio solidaristico non fosse stato violato. Senonché, rapportata al principio di solidarietà, l'ingiustizia diviene un giudizio di valore da compiersi in modo obiettivo. A questo punto è allora necessario chiedersi se sia sufficiente la lesione dell'art. 2 Cost., al fine di cagionare l'evento lesivo, ovvero se sia necessaria la lesione di una situazione giuridica soggettiva. La risposta non può che essere contemplata nei termini che seguono: una volta lesa una situazione degna di protezione, per effetto della clausola di solidarietà, scatta un obbligo risarcitorio in capo al soggetto danneggiante, sempreché tale lesione non sia giustificata (e inevitabile), sia nell'an che nel quomodo, dal perseguimento di interessi altrettanto meritevoli di tutela.

L'ingiustizia nel danno patrimoniale e non patrimoniale

Se certamente l'art. 2 Cost. e l'art. 2043 c.c. condividono la stessa matrice solidaristica, ragion per cui entrambi potrebbero fungere da “filtro”, sia nell'an sia nel quantum, occorre evidenziare come tale doppio limite è imposto unicamente per il danno non patrimoniale, non già per quello patrimoniale, il quale – nella sua esclusiva dimensione di danno-conseguenza – ricade unicamente negli argini di cui agli artt. 1223, 1225, 1227 c.c. È allora curioso che, in un sistema costituzionale, che pone al centro l'individuo e la persona umana, questi “valga meno”, in termini monetari, del suo patrimonio. Con riguardo alla figura del pregiudizio non patrimoniale, si esprime, infatti, un doppio concetto di danno, che si esplica in due forme, entrambe necessarie: il danno-evento e il danno-conseguenza. Il primo è inteso come un evento lesivo ingiusto, ossia la lesione di un interesse giuridicamente rilevante; il secondo si traduce negli effetti che patisce la vittima dell'illecito, ed esso è un elemento ulteriore rispetto al danno-evento. Serve pertanto un quid pluris: che dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante sia derivato un danno-conseguenza di tipo patrimoniale (più ampio) ovvero non patrimoniale (ristretto nelle maglie costituzionalmente orientate dell'art. 2059 c.c.), risarcibile nei casi tipici espressamente previsti ex lege oppure allorché il danno-evento si risolva nella lesione di determinati diritti che appartengono ad un catalogo aperto, ma non sconfinato, alla stregua dell'art. 2 Cost. Affinché dunque sorga l'obbligazione risarcitoria è necessario tanto una condotta non iure, quanto un danno contra ius.

L'analisi va distinta a seconda che si tratti di danno patrimoniale ovvero non patrimoniale, nel quale l'art. 2 Cost. esercita tutta la sua forza espansiva. Per quel che concerne il danno patrimoniale, ai fini della sua sussistenza, è sufficiente qualsiasi danno ingiusto: è tale ogni condotta che lede un interesse giuridicamente rilevante e meritevole di tutela, anche se non protetto come diritto soggettivo ovvero come interesse legittimo. Si è infatti superato il principio di tipicità del danno, che contemplava il solo risarcimento del diritto soggettivo (originariamente dei soli diritti assoluti, poi anche dei diritti relativi), grazie alla storica sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999, 500. Successivamente a questa prima apertura, il concetto stesso di ingiustizia del pregiudizio patrimoniale è stato allargato, fino a ricomprendervi situazioni quali il possesso, l'aspettativa, la chance, e proclamando altresì la risarcibilità di qualsiasi interesse, purché non di mero fatto. Se, dunque, l'ingiustizia poc'anzi descritta ha, in un primo momento, rappresentato un filtro alla risarcibilità del danno, esso si è progressivamente ampliato oltre il diritto soggettivo perfetto e l'interesse legittimo, proprio in ragione del fatto che si concepisce l'art. 2043 c.c. come una norma primaria che autorizza la tutela diretta di quelle situazioni giuridiche soggettive che pure non raggiungano la consistenza degli interessi tutelati dalla norma penale, ma che non di meno evochino la necessità di una piena tutela. Tuttavia, l'illecito aquiliano non è totalmente atipico, non essendo, infatti, sufficiente qualsiasi interesse meritevole di tutela. Il codice civile italiano non contiene cioè un elenco tipico di interessi che godono di una tutela risarcitoria, ma nemmeno si struttura come un sistema totalmente atipico, come il modello francese, che prescinde da qualsiasi filtro. Nel nostro sistema la selezione è affidata all'interprete, il quale dovrà valutare se il comportamento denunciato lede un interesse meritevole di tutela e, quindi, un interesse normativamente qualificato. Ne discende la necessità di selezionare quali interessi siano rilevanti, posto che essi non sono rigidamente tipizzati. Il compito di vagliarli è affidato alla giurisprudenza, che opera una valutazione che tiene conto dell'ordinamento nel suo complesso, in modo tale da operare un bilanciamento tra contrapposti interessi. Il processo di selezione avviene per mezzo del giudizio di meritevolezza, che appunto implica una comparazione tra la sfera del danneggiato e quella del danneggiante. Ove prevalga l'interesse della vittima, si avrà una tutela risarcitoria; ove invece prevalga quello del danneggiante (nelle ipotesi di attività lecita, ma dannosa), si avrà unicamente una tutela indennitaria. Ad ogni modo, non essendo votato il nostro sistema risarcitorio, incardinato sull'art. 2043 c.c., alla completa atipicità, il giudice non potrà prescindere dall'esatta individuazione dell'interesse leso che determina l'ingiustizia. Per comprendere, dunque, i contorni di tale “ingiustizia”, è necessario muovere dall'evoluzione giurisprudenziale registrata con riferimento al “diritto all'integrità patrimoniale”: allo stato, si può sintetizzare il concetto, rilevando che il contegno denunciato deve avere determinato conseguenze pregiudizievoli sul patrimonio della vittima, sia sul piano del danno emergente, sia sul piano del lucro cessante. Con la precisazione, però, che – alla stregua dell'adesione ad una concezione personale e concreta (e non già patrimonialistica e differenziale), volta a porre al centro del sistema risarcitorio la tutela dell'individuo in tutte le sue estrinsecazioni, con la conseguente valorizzazione degli interessi della persona nel loro complesso, il danno patrimoniale si produce, secondo uno schema elastico, quale pregiudizio o nocumento che importano la privazione - o sottrazione - ovvero la compromissione - o alterazione - di una situazione favorevole. Sicché la natura patrimoniale del danno deriva non già dall'accertamento contabile di un saldo negativo nello stato patrimoniale della vittima, bensì dall'idoneità del fatto lesivo, per effetto di una valutazione sociale tipica, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato avrebbe potuto disporre. In ogni caso, è indispensabile che il danneggiato fornisca la prova del danno patrimoniale, che sia conseguenza dell'inadempimento o dell'illecito, eventualmente avvalendosi anche delle prove indirette.

Per converso, l'ingiustizia del danno non patrimoniale, intesa in termini solidaristici, deve operare su un doppio binario, quello della causalità materiale e quello della causalità giuridica: sotto il primo profilo, l'evento lesivo deve essere ingiusto, in quanto abbia violato delle situazioni giuridiche meritevoli di tutela; in secondo luogo, il fatto deve produrre degli effetti ingiusti, e ciò sempre avendo riguardo al contesto storico-sociale in cui il fatto è accaduto. Così, quanto alla pretesa di ottenere il risarcimento della voce di danno non patrimoniale riconducibile al pregiudizio biologico, occorre verificare, in primis, che la condotta censurata abbia cagionato un evento di lesione ingiustificato e, successivamente, che a detta lesione siano residuati dei postumi permanenti, con la provocazione di un'eventuale inabilità temporanea.

Contrario alla penetrazione del principio di solidarietà nella responsabilità civile, attraverso l'ingiustizia del danno, è un autore in dottrina (Barcellona), secondo cui «l'ingiustizia (…) non è stata affatto concepita come una clausola generale. Ed è abbastanza ovvio che il valore sovraordinato del dettato costituzionale possa, sì, pretendere di influenzare il senso di una clausola generale ma non possa, invece, pretendere di trasformare in clausola generale ciò che non lo è. Peraltro, contro una tale solidarizzazione della responsabilità civile depongono due altre, e decisive, ragioni. La prima è che il principio di solidarietà nella Carta costituzionale ha, da un lato, un senso perequativo parallelo a quello dell'eguaglianza materiale e, dall'altro, una funzione di legittimazione dell'intervento sul potere d'impresa e sui poteri proprietari, l'uno e l'altra assolutamente impertinenti rispetto al tipo di problema di cui si discute sotto il titolo dell'ingiustizia del danno. La seconda è che, comunque, la riserva di legge, a cui la Costituzione subordina le opzioni solidaristiche, renderebbe costituzionalmente incongrua un'attivazione giudiziale del principio di solidarietà quale necessariamente si darebbe assumendolo a criterio del giudizio di “ingiustizia” del danno». Ma l'assunto in base al quale l'art. 2043 c.c. non delineerebbe una clausola generale è rovesciabile, ed è stato nei fatti rovesciato, mentre la presenza di una riserva di legge non impedisce la concretizzazione in via ermeneutica di concetti elastici, che dallo stesso legislatore sono stati rimessi alla pur cauta elaborazione dell'interprete.

Flessibilità del principio di solidarietà ai fini di un equilibrato bilanciamento di interessi

Tirando le fila del discorso, si è visto come da un modello di responsabilità civile - tutto volto ad allargare la tutela risarcitoria appannaggio della vittima, impegnato a salvare la costituzionalità dell'inadeguato impianto di risarcimento del danno non patrimoniale per mezzo dell'art. 2 Cost, nonché a scorgere nuove situazioni giuridiche risarcibili - si è giunti ad una netta inversione di tendenza, tutta contenitiva, che, per usare un'espressione della Consulta, è giustificata da “superiori esigenze” di sistema. Il sistema, in altre parole, per evitare di collassare su sé stesso, finendo con l'attuare un rimedio peggiore del male, ossia finendo per negare completamente il risarcimento alla vittima – anziché sconfinare nella meno grave violazione del principio di integrale riparazione del danno –, ha fatto dietro front. Lo si riscopre quindi come un impianto volto ad attuare e giustificare tendenze contenitive al fine di salvaguardare, ora l'iniziativa economica privata, ora i costi dei premi assicurativi, ora non meglio definite superiori esigenze sistematiche. In ogni caso, quale che sia la causale di questo reverse trend, è evidente che esso è stato ricondotto ad una giustificazione sociale, recepita dallo stesso legislatore, ossia spiegando ai consociati che sono in qualche modo “finiti i tempi d'oro” della risarcibilità della figura, emergente nella giurisprudenza onoraria, del “colpo di frusta” o almeno delle lesioni permanenti non rilevabili con criteri medico-legali rigorosi ed oggettivi, pur non essendo l'esame clinico strumentale l'unico mezzo utilizzabile, salvo che ciò si correli alla natura della patologia (Cass. civ., sez. III, ord. 24 aprile 2019, n. 11218).

Sotto il primo profilo, definito “espansivo”, le innovazioni legislative e giurisprudenziali - che negli anni si sono susseguite - hanno permesso forse di poter parlare di una “nuova responsabilità civile”. Talmente nuova che, ad oggi, si può dire “calmierata” da questa primordiale tendenza contenitiva che si è fatta largo, attuata proprio per il tramite dell'influenza dei principi costituzionali, primo tra tutti, appunto, l'art. 2 Cost. Secondo un autore (Salvi), «ricorrendo ai principi costituzionali, la giurisprudenza ha completamente riscritto il titolo IX del libro IV del codice civile: immutate nel contenuto letterale, le regole della responsabilità civile sono state progressivamente interpretate secondo criteri sempre più divergenti dall'impostazione tradizionale. […] Gli interventi legislativi sono stati invece, in questo campo, settoriali, spesso pasticciati».

La linea di fondo, sottesa a tali nuovi indirizzi, si è incentrata sulla constatazione della necessità di dare maggiore attenzione alle ragioni della vittima del danno, rispetto a quelle di colui che è chiamato a risponderne, e tale bilanciamento pervade l'idea stessa di ingiustizia. In questa luce, il principio liberale, secondo il quale il danno deve rimanere in capo a chi lo subisce tutte le volte in cui non vi siano buone ragioni per trasferirlo in capo ad un nuovo soggetto, è messo in discussione proprio alla luce dell'art. 2 Cost. Per l'effetto, l'intera struttura della responsabilità civile è stata riconsiderata: è cambiata la nozione di danno ingiusto, intriso di quella solidarietà, in un primo tempo, appunto, espansiva. Si è sganciata l'ingiustizia dalla sola lesione della proprietà e dei diritti assoluti e la si è accostata alla lesione del credito e dell'interesse legittimo. Sicché, allo stato, la valutazione di ingiustizia avviene attraverso la comparazione tra l'interesse della vittima e quello del soggetto che deve rispondere del danno. È stato rivisitato l'art. 2059 c.c. e se ne sono allargate le maglie al di fuori dei “casi determinati dalla legge”, purché appunto sussumibili nel catalogo aperto di cui all'art. 2 Cost. Si è negato alla colpa (talvolta difficile da provare e troppo “contenitiva”) il ruolo di principio ordinatore e si è dato spazio alla valorizzazione dell'imputazione a titolo oggettivo, soprattutto per le attività di impresa. Si è fatto ricorso ai principi costituzionali per la rinnovata lettura delle clausole generali, permettendo che la buona fede, riletta solidaristicamente, possa integrare il contenuto degli obblighi posti a carico delle parti. Si è quindi affermato che il catalogo dei diritti inviolabili della persona è aperto: in base all'art. 2 Cost, spetta all'interprete valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano di rango costituzionale, attenendo a posizioni inviolabili della persona umana (Cass. civ., sez. III, 4 novembre 2014, n. 23432; sez. III, 9 maggio 2012, n. 7049; sez. III, 11 gennaio 2011, n. 450). Le norme costituzionali, specie l'art. 32 Cost., sono state poste a fondamento di una sorta di “de-economicizzazione” della salute come bene giuridico, che ha portato ad una nuova immagine del diritto alla salute come situazione soggettiva essenzialmente non patrimoniale, epurata dalla capacità specifica di produrre reddito del soggetto. Per effetto dell'influenza delle norme sovranazionali, si è ammesso il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla lesione della proprietà, evocando il dubbio che la proprietà sia un diritto inviolabile, posto che alla stessa viene accordata una tutela non patrimoniale (art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU). Quando però l'analisi costi-benefici, in ordine alla proliferazione della tutela risarcitoria – e, forse, alla talvolta eccessiva tutela accordata alla vittima del tacco della scarpa rotto o dell'acconciatura del parrucchiere non conforme alle aspettative o del banchetto nuziale non soddisfacente –, inizia ad evidenziare il pericolo che il sistema possa non reggere, si è inaugurata una tendenza “contenitiva”, che segna in realtà non solo il campo della responsabilità civile, ma anche quello della responsabilità penale, attraverso l'introduzione dell'art. 131-bis c.p., e quello della responsabilità amministrativa. Al riguardo, non è così paradossale – considerata l'ambiguità dell'art. 2 Cost. nell'individuarne la reale portata e i suoi ontologici significati – che, alla base di entrambe le tendenze, si ritrovi un dato costituzionale comune, che è appunto quello del principio di solidarietà. Viene allora da interrogarsi circa l'utilizzo dello stesso in siffatte direzioni opposte, per giustificare altrettanti cambi di tendenza. Da tale trend si possono certo scorgere sia aspetti positivi sia negativi, che si passano nell'ordine ad evidenziare.

Per quel che concerne gli aspetti positivi, vi è sicuramente da considerare che talvolta il richiamo al principio generale garantisce una certa “flessibilità” del sistema, e soddisfa quelle esigenze di proporzionalità ed equilibrio che, applicando il rigido dettato normativo, non si potrebbero raggiungere. Ne è un esempio quanto detto a proposito del ruolo della solidarietà, quale filtro “bagatellare” nel riconoscimento del danno non patrimoniale, sia esso contrattuale o extracontrattuale; o, ancora, quanto alle ipotesi di responsabilità per danno ambientale per quel che concerne la (non) responsabilità del proprietario del sito inquinante. È evidente che il diritto, non riuscendo a stare al passo con le evoluzioni del sentire sociale, nonché, del pari, con le esigenze della collettività, abbisogna di “clausole elastiche”, che permettano al giudice di adattare il dato normativo positivo alle esigenze del caso concreto. Di qui l'assoluta e indiscussa importanza dei principi e delle clausole generali, quali la buona fede e la correttezza, lo stesso concetto di ingiustizia del danno, la diligenza, l'ordine pubblico e, appunto, la solidarietà sociale. Le clausole generali costituiscono delle particolari norme, definite “norme in bianco”, appunto per la loro portata vaga, generica, elastica, così da permettere all'autorità giudicante di interpretare il dato normativo in chiave evolutiva, e del pari all'ordinamento di evolvere nonché di colmare talune lacune normative, talvolta per loro natura strutturali. Il loro operare, inoltre, permette un raccordo tra la norma positiva e i valori etico-sociali.

Se può considerarsi evidente un loro crescente utilizzo, tanto che si è parlato di vera e propria “fuga” verso di esse, ciò è dovuto, più che ad una incapacità del legislatore di normare la molteplice casistica in modo puntuale, ad una necessità di far fronte alla crescente complessità della realtà contemporanea, che rende difficile, se non impossibile, il ricorso alla classica fattispecie. Sono essenzialmente tre le cause che hanno portato a siffatto fenomeno: in primo luogo, il sempre più accentuato tecnicismo della normativa, molto spesso di settore, anche a causa dell'influenza delle fonti sovranazionali. In secondo luogo, l'impossibilità di creare - talvolta - norme di carattere prescrittivo, e perciò sostituite con norme descrittive, che richiedono all'interprete un “adattamento” al caso concreto (si pensi alla normativa in materia di famiglia, ad esempio, con riferimento al concetto di “interesse dei figli”). In terzo luogo, l'esigenza di demandare al giudice quei giudizi di valore, all'esito di un bilanciamento nel caso concreto di interessi, che non può essere eluso, pena l'esito sproporzionato o ingiusto della decisione giudiziale. Decisione che, per effetto delle clausole generali, non è più (e non può esserlo) basata sulla meccanica formulazione di sillogismi giudiziari – che pur richiedono certo una puntualità descrittiva e precettiva del dato normativo –, bensì appunto si basa su un giudizio di valore legittimato, autorizzato ed imposto proprio dalla clausola volutamente formulata in via generale.

Se ciò certamente incide in termini negativi sulla certezza del diritto, è del pari necessario al fine di adeguare l'ordinamento giuridico al mutare rapido della realtà sociale. Non è peraltro unanimemente condivisa la distinzione tra le clausole generali e i “concetti giuridici indeterminati”.

Quest'ultimi, a differenza delle prime, sarebbero privi di giudizi di valore; pertanto, verrebbero “riempiti” secondo un contenuto neutro. Sarebbero riferibili ad essi il concetto stesso di danno ingiusto, la colpa grave, l'interesse del minore. Inoltre, solo le clausole generali verrebbero utilizzate con una funzione “correttiva” al fine di assicurare l'ammodernamento dell'ordinamento giuridico. Ciò posto, il canone della solidarietà non sembrerebbe riconducibile ad alcuna di queste due categorie, seppure abbia la funzione in qualche modo “correttiva”, tipica delle clausole generali.

Essa, infatti, riveste un ruolo ancora più cruciale: è un vero e proprio principio generale, che costituisce il nocciolo duro dei diritti fondamentali, che non possono essere scalfiti nemmeno dall'ordinamento sovranazionale. La solidarietà funge, infatti, da vero e proprio contro-limite non solo per la CEDU, bensì anche per l'ordinamento europeo. Del resto, il fatto che, per il tramite di questa, il giudice, in qualche modo, compia un giudizio di valore, atto in qualche modo a “selezionare” gli illeciti o a definire cosa sia veramente tale, oltre che talvolta necessario, non è completamente estraneo all'ordinamento. Si pensi al vaglio circa l'offensività che il giudice penale compie in sede di verifica della tipicità della condotta rispetto alla fattispecie astratta, secondo alcuni utilizzando la categoria del reato impossibile ex art. 49, c. 2, c.p.

Anche in tali casi il legislatore demanda al giudice una verifica in concreto circa l'effettiva offensività, non accontentandosi di una previsione solo astratta, in modo tale da adattare la fattispecie astratta al caso concreto. Di talché potrebbe verificarsi che, seppure la condotta integri quella descritta dalla fattispecie astratta, tuttavia non può dirsi tipica (e dunque punibile), in quanto in concreto non offensiva. Tale giudizio non è posto in essere con l'intento di contraddire la voluntas legis, in merito alla decisione di punire una certa condotta che in astratto sia offensiva, ma semplicemente recepisce la volontà di rendere in qualche modo flessibile il sistema, in relazione alle circostanze che si sono in concreto verificate, al fine di punire solo quelle condotte realmente offensive e, dunque, selezionare quelle meritevoli di sanzione. Tale giudizio non rappresenta un passaggio “ulteriore” rispetto alla verifica della tipicità che il legislatore compie a monte, ma demanda al giudice di verificare ciò a valle: si tratta di una verifica che il giudice deve necessariamente svolgere nell'ambito della sussunzione della fattispecie concreta alla tipicità della fattispecie astratta, di modo tale che un fatto, per essere tipico, deve essere necessariamente anche offensivo. L'offensività, entrando dunque nella tipicità, permette il rispetto del principio di separazione dei poteri, posto che il giudice si limita a verificare la sola tipicità della fattispecie, seppure essa comprenda (l'ulteriore) verifica circa l'offensività. Si pensi ai casi del falso innocuo o del furto di una mela o di un chicco d'uva o di un chiodo. Ciò non significa dare al giudice un potere eccessivo, come taluni hanno sostenuto, ma permettere di bilanciare l'incisione penale, che per l'appunto dovrebbe essere solo l'extrema ratio, con la tutela del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, affinché il soggetto venga punito per ciò che ha fatto effettivamente, e solo se ciò che ha fatto sia effettivamente offensivo. In entrambi i casi, sia con riferimento al vaglio di cui all'art. 2 Cost., sia con riferimento a quello in merito all'offensività, se è innegabile l'esigenza di adattamento a valle del sistema poc'anzi descritta, ci si deve del pari, però, interrogare circa l'effettività dell'ordinamento giuridico.

È innegabile che vi sia implicata una discrezionalità giudiziale nell'interpretazione-applicazione che il giudice è chiamato a compiere, insita nell'un caso nella presenza di una clausola generale (se a queste si vuole ricondurre la solidarietà), nell'altro caso in un principio generale ricavabile dagli artt. 13, 25, 27 Cost. Ciò, pur intaccando l'effettività dell'ordinamento, non consente, almeno in potenza, di affermare che il giudice abbia travalicato i suoi poteri tutte le volte in cui egli dia una motivazione ragionevole e controllabile della scelta (seppur discrezionale) compiuta, basandola, in ultima analisi, su norme, principi, fonti secondarie dell'ordinamento interno, ovvero su norme o pronunce giurisdizionali dell'ordinamento sovranazionale. Affinché questa evenienza si verifichi è necessario che l'argomentazione logica, sottesa alla decisione giudiziale, si basi su un ragionamento sistemico, che non si limiti cioè a richiamare la clausola dell'art. 2 Cost tout court, ma la ponga solo quale elemento rafforzativo di un ragionamento sillogistico svolto attraverso le fonti positive dell'ordinamento, alle quali può certo essere data un'interpretazione evolutiva, appunto in forza del principio solidaristico, di modo tale che essa rappresenti il substrato per l'interpretazione costituzionalmente orientata. Deve, infatti, essere consentita un'evoluzione del sistema che, altrimenti, rimarrebbe “intrappolato” nel rigido formalismo interno. Del resto, se non si permettesse al giudice di compiere un'interpretazione costituzionalmente orientata ovvero unionalmente o convenzionalmente orientata, il sistema giuridico rimarrebbe rigido e chiuso in sé stesso, certo con il pregio della certezza giuridica, a discapito però dell'evoluzione sociale e normativa (secondo l'assunto in base al quale la norma vive nel contesto storico-sociale in cui si applica). Se ciò deve essere salvaguardato, vi è del pari però l'esigenza di contenere questo “potere giudiziale”: il punto di equilibrio sta proprio nel legittimare, ma entro certi limiti, tale processo di reinterpretazione evolutiva del diritto, cercando di salvaguardare il più possibile la prevedibilità della decisione giudiziale e l'effettività della norma positiva.

La decisione giudiziale deve, pertanto, porsi in linea con il diritto vivente e deve, in qualche modo, riflettere le considerazioni innovative o tradizionali della dottrina sul punto, in modo tale da amalgamare l'intero impianto giuridico e non dare al giudice un eccessivo potere discrezionale, che rischia di tradursi - se lasciato del tutto “libero” - in mero arbitrio. Del resto, un eventuale sindacato sulla decisione giudiziale, scaturita all'esito del processo di interpretazione-applicazione delle clausole generali, più che essere criticabile nei termini di legittimità sillogistica, dovrebbe dirsi censurabile sotto i profili della “plausibilità” ovvero della ragionevolezza. Si è infatti sostenuto, da parte dei processualisti, che l'eventuale contestazione della decisione giudiziale, che faccia applicazione di una clausola generale, rientra nel vizio di violazione di legge, non già nel difetto di motivazione, come altri invece affermano. È inoltre innegabile che si è passati da un rapporto di dipendenza della giurisdizione rispetto alla legislazione ad un primato della prima sulla seconda, anche per effetto del confronto in sede di Unione europea, dove vige per molti paesi la regola del precedente vincolante, e dunque dove si erge a baluardo la giurisprudenza con chiara funzione normativa. La stessa CEDU, riferendosi al concetto di “law” nel suo art. 7, rimanda al formante positivo, ma anche a quello giurisprudenziale, indistintamente. Ed è innegabile che sia stato proprio questo il punto che ha permesso alle fonti sovranazionali di innovare l'ordinamento interno nel suo concetto di legalità, già presente ma circoscritto alla sola legge positiva, con la conseguenza che si è dovuta garantire positivamente la prevedibilità dei mutamenti giurisprudenziali al fine di salvaguardare il principio di legalità. In ciò emerge lo scetticismo della dottrina per tale fenomeno, la quale osserva che il giudice si preoccuperebbe non già di tradurre la norma all'interno del caso concreto, bensì maggiormente di confermare una decisione che, per effetto dell'operare dell'art. 2 Cost., verrebbe maturata e concepita quasi a prescindere dal dato legislativo. Se ciò è certamente un rischio, vi è da considerare che talvolta il richiamo ai principi costituzionali, quali appunto l'art. 2 Cost, permette di uscire da un'impasse che altrimenti non avrebbe via d'uscita, stante la carenza di riferimenti normativi positivi atti a risolvere la patologia giuridica. Utilizzare però la Costituzione quale unica norma alla base del ragionamento giuridico ha talvolta portato ad un “semplicismo decisionale” che ha innescato l'idea che, essendo la Costituzione una norma fondamentale - e dunque regola prioritaria rispetto alle altre fonti -, il suo rispetto sia sufficiente per legittimare la decisione, seppur in contrasto con la legge ordinaria. A ciò si aggiunga che molte norme costituzionali - per come sono formulate - sono caratterizzate da una consistenza legislativa per così dire “rarefatta”, e questo ha favorito ancora di più il richiamo ad essa per applicazioni ab origine assolutamente impensabili rispetto al momento in cui la Carta fondamentale è stata varata. Basti considerare, al riguardo, proprio l'evoluzione semantica del concetto di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., in origine pensata per declinare l'individuo nella socialità collettiva, e oggi utilizzata quale fonte di doveri di solidarietà nei rapporti tra privati.

L'effetto è quello di un mutamento radicale nel modo di concepire la regola di diritto. Se talvolta questo è pregevole, qualora sia in qualche modo confermato dal dato positivo posto all'interno del ragionamento sillogistico-evolutivo, talaltra pare autolegittimare scelte in controtendenza, seppure mosse da esigenze sociali di pari rango. Si richiama, ancora una volta, la limitazione del risarcimento del danno non patrimoniale per le lesioni micro-permanenti, dove la necessità di tutelare il soggetto danneggiato, garantendogli l'integralità del risarcimento, è stata bilanciata con le esigenze sociali di “pari” rango, che richiedono di mantenere bassi i costi assicurativi e cercare di frenare la medicina difensiva. Se può dirsi socialmente giustificabile una simile decisione, essa si pone innegabilmente in tensione con il dato normativo positivo nonché con taluni principi, primo tra tutti quello di integrale riparazione del danno. Tuttavia, se solo si considerano i risvolti negativi che l'assenza di tale presa di posizione da parte della Corte costituzionale avrebbe provocato con il tempo (neanche troppo lontano), non si può che concludere nel senso dell'approvazione di un simile intervento, nell'ottica tanto del sistema assicurativo, quanto in quella di contenere la medicina difensiva. L'apparente limitazione del principio di integrale riparazione del danno, con l'imposizione al danneggiato di sopportarne una parte solidaristicamente, garantisce, per contro, un risarcimento e l'effettiva tutela della salute, scongiurando appunto una medicina difensiva astensionistica. E peraltro, sempre secondo la citata pronuncia del Giudice delle leggi, resta comunque salva la possibilità di incrementare nel caso concreto la liquidazione, riconoscendo altresì la voce ulteriore del danno morale. D'altronde, questa idea di rendere in qualche modo il sistema “giusto” è la preoccupazione di ogni ordinamento giuridico, e la si ritrova, anche all'interno del nostro sistema, non solo in ambito extracontrattuale, bensì anche in ambito contrattuale. Infatti, oltre alla lesione della salute per effetto di un illecito extracontrattuale (o anche contrattuale), che ad oggi ha ristretto le maglie della tutela risarcitoria, lo stesso fenomeno si riscontra anche in campo contrattuale. Anche in quest'ambito si avverte l'esigenza di rendere in qualche modo “giusto” il sistema, introducendo principi costituzionali o clausole generali ad adiuvandum rispetto alla norma positiva che si disinteressa di tali problemi, ovvero li ritiene in nuce inesistenti: in questa logica, se, in un primo momento, si è ritenuto che per il codice civile le parti che contrattano, essendo in parità di forze, non possono che concludere un contratto “giusto”, naturalmente equilibrato, posto che nessuna delle due, ragionevolmente essendo libera di scegliere con parità di forza contrattuale, stipulerebbe un contratto per lei svantaggioso, successivamente si è preso atto che, in realtà, anche le parti del codice civile potrebbero non essere in una situazione di perfetto equilibrio. Se quindi, in un primo momento, il legislatore non si è preoccupato di dare alle parti degli strumenti per rinegoziare, a prescindere da patologie contrattuali (quali lo stato di pericolo ovvero di bisogno), successivamente la giurisprudenza, e con essa la dottrina, ha dovuto prenderne atto, ammettendo, con non poche criticità, che il giudice possa mettere mano al contratto, certo a discapito dell'autonomia contrattuale prima intangibile, al fine del suo riequilibrio. Ma ciò non è possibile sulla base della legge positivizzata nel c.c., proprio perché, all'epoca della sua stesura, ci si illudeva di avere di fronte due parti effettivamente in posizione di parità di forza. Di conseguenza, si legittima pian piano un potere del giudice di intervenire, al fine di riequilibrare il rapporto delle parti sul piano dei diritti e dei doveri reciproci. Tale conclusione non è del tutto estranea all'ordinamento giuridico. Basti considerare il meccanismo sotteso al principio di auto-responsabilità di cui all'art. 1227 c.c., operante sia in campo contrattuale che extracontrattuale, che permette al giudice di bilanciare, in sede di quantificazione del danno, l'eventuale concorso (materiale alla causazione dell'evento o all'aggravamento delle conseguenze dannose) di responsabilità del soggetto danneggiato, allo scopo, appunto, di rendere il sistema “giusto”, elidendo una parte del risarcimento che la vittima non merita per effetto di una sua concorrente responsabilità. Il problema è che tale meccanismo è oggi legittimato anche per sopravvenienze del tutto oggettive rispetto alla responsabilità delle parti. Gli strumenti che hanno consentito al giudice di avvalersi di tale processo “riequilibrante” sono, da un lato, la solidarietà, insita nel concetto stesso di “buona fede” ed “abuso del diritto”, dall'altro, l'istituto della causa in concreto. Tutto ciò mette in evidenza la preoccupazione che prima si manifestava: non si può pensare di ritenere che la giurisdizione sia pura parafrasi della legge, e quindi il giudice sia solo la “bocca della legge” (meccanico formulatore di sillogismi giudiziari); tuttavia, si può esigere che, quando la giurisprudenza manifesta i propri atteggiamenti valutativi, lo faccia seguendo e rispettando i canoni dell'interpretazione giuridica. È certamente legittima (e talvolta necessaria) la “creazione” del diritto da parte della giurisprudenza, purché il suo argomentare non si limiti ad essere un puro affermare, anziché un procedere con una reale motivazione e giustificazione. Si deve, infatti, considerare che la giurisprudenza deve rimanere legata al testo normativo, non nel senso che questo ha uno ed un solo significato, ma nel senso che il testo normativo, seppure costituzionalmente interpretato in senso innovativo, deve comunque seguire un processo per così dire circolare: deve partire dal testo, per ritornarvi, seppure dopo un'interpretazione “passante” per il principio costituzionale. Ciò in quanto, qualora si seguisse il solo principio costituzionale, vi è il rischio di porre in essere non già una decisione innovativa rispetto al dato normativo, bensì una decisione “alternativa” ad esso, e dunque non ammissibile in virtù del principio di separazione dei poteri. Quest'ultimo principio non deve essere visto in modo rigido, ma come un'occasione di collaborazione reciproca. Talvolta non è proprio così, dato che la legge si sostituisce alla giurisprudenza e quest'ultima si sostituisce alla prima.

Si pensi, in un caso, all'estensione per via giurisprudenziale di norme giuridiche che, nella loro formulazione letterale, escluderebbero talune opzioni, e parimenti taluni interventi legislativi che incidono su prassi giurisprudenziali ormai consolidatesi. Al riguardo, si evoca il c.d. decreto Balduzzi, e da ultimo la Legge Gelli-Bianco, in materia di responsabilità medica: con un semplice intervento normativo si sono cancellati anni di orientamento giurisprudenziale “granitico” sulla natura contrattuale da contatto sociale della responsabilità del medico. Ci dovrebbe, quindi, essere una maggiore collaborazione tra legge, giurisprudenza e dottrina. Servirebbe addivenire ad un momento di coesione e ritrovare l'unità nell'ordinamento giuridico, nonostante la crisi della razionalità giuridica, forse come conseguenza della crisi della razionalità europea.

Conclusioni: fluttuazioni alterne della clausola elastica di solidarietà nel campo risarcitorio

Evidenziate pertanto le criticità, ma anche i pregi dell'operare del principio di solidarietà, e più in generale dell'operare dei principi costituzionali e delle clausole generali, dall'analisi condotta emerge, dunque, una tendenza inversa, insita nell'ordinamento. Si è visto come da una prima tendenza espansiva, alla stregua dell'operatività del principio di cui all'art. 2 Cost in sede di riconoscimento e quantificazione del danno, che permea il concetto stesso di “danno ingiusto”, si è passati ad un sistema che cerca di arginare gli eccessi della tutela risarcitoria. Oltre ai tradizionali filtri normativi posti dagli artt. 1223, 1225 e 1227 c.c., la solidarietà funge da “ulteriore criterio selettivo” ai fini non solo della quantificazione, ma, ancor prima, dell'individuazione dei danni risarcibili. Se cioè, in un primo tempo, essa ha permesso di aprire il catalogo di questi ai diritti inviolabili, grazie anche all'influenza della CEDU, parallelamente ha subito circoscritto il fenomeno prevedendo la c.d. clausola bagatellare. Se però, in prima battuta, la tendenza del sistema era tutta espansiva, volta cioè ad allargare le maglie del risarcimento, seguita da un timido tentativo di contenere il fenomeno, successivamente divenuto “incontrollabile”, con effetti talvolta paradossali, successivamente si è avvertita la ferma esigenza di riconsiderare il tutto, delineandosi così una controtendenza restrittiva. Tale tendenza è confermata, innanzitutto, con riferimento alla funzione della responsabilità civile e, in particolare, con riguardo al disconoscimento della categoria dei danni punitivi. Ora, seppure escludendo che la responsabilità civile abbia quale primaria funzione quella di sanzionare, tuttavia la stessa è insita nel concetto stesso di danno ingiusto, tanto che potrebbe derivarne un fenomeno di overcompensation per la vittima dell'illecito, in funzione deterrente rispetto alla commissione dell'illecito, tutte le volte in cui il semplice risarcimento non scoraggi la vittima dal porlo in essere. Questo è un nitido esempio di come il sistema stia cercando di proteggere la vittima, forzando in qualche modo i suoi principi interni. È chiara la matrice solidaristica dell'iniziale intervento di dottrina e giurisprudenza, volto a scoraggiare che il danneggiante possa arricchirsi per effetto del danno inferto alla vittima, e così che il primo possa comunque trovare conveniente dover risarcire, a fronte del guadagno che ne deriva comunque dalla lesione (effettiva o anche solo potenziale) della seconda.

Di qui la necessità di sottrarre il guadagno ottenuto e ricollocarlo a favore del danneggiato, seppure generando un fenomeno, per l'appunto, di overcompensation. A questa originaria ricostruzione ha fatto seguito una posizione di netta chiusura della giurisprudenza di legittimità, la quale ha negato che sia ammissibile nel nostro ordinamento la categoria dei danni punitivi, attesa la finalità esclusivamente compensativa della tutela risarcitoria. Altrettanto attestata su posizioni “contenitive” è l'impostazione nomofilattica secondo cui la sofferenza interiore non avrebbe alcuna autonomia, costituendo una mera manifestazione-espressione del danno alla salute e non potendo, per definizione, ricorrere una lesione dell'integrità psico-fisica, suscettibile di accertamento medico-legale – la quale esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato –, che non ingeneri un malessere interno, un turbamento psicologico, un patema d'animo.

Ancora, è del resto palese la funzione della solidarietà nell'ambito della responsabilità per il danno ambientale, che porta a spalmare il costo del ripristino ambientale sulla collettività, tutte le volte che il proprietario del sito inquinato non sia responsabile e non si possa individuare colui che ha cagionato il danno. Oppure la questione di legittimità costituzionale sulle micro-permanenti, che sembra affermare un principio diametralmente opposto a quello di integrale riparazione del danno. Si è così giunti a considerare la solidarietà quale limite intrinseco all'esercizio del diritto, e si è dunque affermata una concezione di sistema secondo la quale ogni diritto è intrinsecamente limitato nel suo esercizio, pena il rischio di abusarne, con conseguente elisione di qualsivoglia tutela dello stesso. Ponendo la solidarietà alla base del divieto dell'abuso del diritto, siffatta tendenza restrittiva sembra non essere più confinata in applicazioni settoriali, bensì posta alla base del nuovo indirizzo di sistema. Tanto che ciò è balzato agli occhi dello stesso legislatore, che ha trasformato un trend prima solo giurisprudenziale in vera e propria previsione normativa, per mezzo del decreto Balduzzi e, da ultimo, della Legge Gelli-Bianco. Del resto, ciò era già insito in una disposizione normativa, che sin dall'origine ha imposto al giudice di valutare, in sede di quantificazione del danno, l'esatto importo dello stesso, tenendo conto dell'eventuale auto-responsabilità del danneggiato. Si intende evocare l'art. 1227 c.c., applicabile non solo nell'ambito del sistema civilistico, ma anche nel panorama amministrativo. Sembra, così, emergere un fenomeno comune all'intero ordinamento giuridico, quasi che lo stesso, nel suo insieme, avverta l'esigenza di “contenere” la risposta all'illecito per salvaguardare interessi di pari rango. Si è fatto riferimento alla medicina difensiva, all'esigenza di evitare gli elevati costi assicurativi, a quella di imporre la tutela anche della sfera di controparte per non esercitare i propri diritti in modo egoistico, al fine di considerare che l'individuo non è solo nell'universo, ma vive nella socialità quotidiana. Come anticipato, il fenomeno emerge chiaramente anche nell'ambito penale, per effetto dell'art. 131-bis c.p., che impone al giudice di tenere appunto in considerazione anche interessi ulteriori rispetto a quelli di sanzionare l'autore di una condotta, ove essa sia “poco offensiva”, in nome di superiori esigenze, quali la deflazione per rendere i processi più veloci, ovvero la necessità di fare fronte al sovraffollamento carcerario: a tale scopo, il fatto non è punibile ove sia particolarmente tenue. Ecco che il danneggiato, pur potendo ottenere comunque un ristoro in ambito civilistico per effetto della condotta integrante reato, non potrà vedere applicata la sanzione penale retributiva al suo danneggiante, dovendo dunque sopportare tale iato, in nome di superiori esigenze di sistema. Da ultimo, tuttavia, si assiste ad un'operazione nomofilattica di “aggiustamento” dell'impianto contenitivo, sempre riconducibile all'affermazione del principio di solidarietà, che si è estrinsecato apportando alcune correzioni alle più radicali posizioni restrittive espresse nel recente passato. E così alla posizione perentoria espressa dalle Sezioni Unite, con le sentenze di San Martino del 2008 – secondo cui costituirebbe una inammissibile duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione, in favore della vittima di lesioni personali, del risarcimento, sia per il danno biologico, sia per il danno morale – ha fatto seguito un più equilibrato assetto, in ragione del quale le due voci dell'unitario danno non patrimoniale possono coesistere, dovendosi piuttosto effettuare una discriminazione concettuale tra le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera interiore e gli effetti incidenti sul piano dinamico-relazionale. E ciò perché sono eterogenei i valori incisi: da un lato, il bene della salute, dall'altro, il rispetto dell'individuo, nei suoi plurimi aspetti, sia come singolo, sia come componente di una comunità. E tanto anche con riferimento al pregiudizio conseguente al decesso, fenomeno che consente di distinguere tra una voce di danno biologico terminale e altra voce riconducibile al danno morale catastrofale, voce quest'ultima che ricorre quando la vittima primaria abbia avuto la lucida coscienza del proprio imminente exitus, quand'anche esso sopravvenga a distanza di un breve lasso temporale rispetto al momento di cristallizzazione dell'evento lesivo.

Sull'autonomia tra danno biologico e danno morale

ORIENTAMENTI IN PROGRESSIONE

Il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica).

Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972

In tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del risarcimento del “danno biologico”, quale pregiudizio che esplica incidenza sulla vita quotidiana e sulle attività dinamico-relazionali del soggetto, e di un'ulteriore somma a titolo di ristoro del pregiudizio rappresentato dalla sofferenza interiore (c.d. danno morale, “sub specie” di dolore dell'animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione), con la conseguenza che, ove dedotto e provato, tale ultimo danno deve formare oggetto di separata valutazione e liquidazione.

Cass. civ., sez. VI-III, ord. 19 febbraio 2019, n. 4878; sez. III, ord. 30 ottobre 2018, n. 27482; sez. III, ord. 20 agosto 2018, n. 20795

In materia di responsabilità civile, la natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale deve essere interpretata nel senso che esso può riferirsi a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica, con conseguente obbligo, per il giudice di merito, di tenere conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze “in peius” derivanti dall'evento di danno, nessuna esclusa, e con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici; ne deriva che, a fini liquidatori, si deve procedere ad una compiuta istruttoria finalizzata all'accertamento concreto e non astratto del danno, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, valutando distintamente, in sede di quantificazione del danno non patrimoniale alla salute, le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera interiore (c.d. danno morale, “sub specie” del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) rispetto agli effetti incidenti sul piano dinamico-relazionale (che si dipanano nell'ambito delle relazioni di vita esterne), autonomamente risarcibili.

Cass. civ., sez. III, ord. 28 settembre 2018, n. 23469; sez. III, ord. 27 marzo 2018, n. 7513; sez. III, sent. 17 gennaio 2018, n. 901

In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, nel periodo di tempo interposto tra la lesione e la morte ricorre il danno biologico terminale, cioè il danno biologico “stricto sensu” (ovvero danno al bene “salute”), al quale, nell'unitarietà del “genus” del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell' “exitus”, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione ed in particolare l'imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, in tale ipotesi, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale ed il decesso.

Cass. civ., sez. III, sent. 11 novembre 2019, n. 28989; sez. III, ord. 30 agosto 2019, n. 21837

A questa tematica si affianca l'argomento relativo alla limitazione quantitativa del danno risarcibile su base tabellare, affrontato sia in sede costituzionale sia in sede di legittimità, il che non esclude la possibilità di un aumento, ove siano integrate conseguenze anomale o del tutto peculiari. Ed ancora una tendenza all'ampliamento del campo del nocumento non patrimoniale riparabile può essere rinvenuta nella posizione giurisprudenziale volta a riconoscere il risarcimento della perdita di chance non patrimoniale: e ciò laddove si accerti che il paziente aveva una possibilità concreta di guarigione o di sopravvivenza o di migliore qualità di vita e sussista un nesso di causalità tra la condotta omissiva e la perdita della speranza. In tal caso il risarcimento non potrà essere proporzionale al “risultato perduto” (nella specie, maggiori chance di sopravvivenza di un paziente al quale non era stata diagnosticata tempestivamente una patologia tumorale con esiti certamente mortali), ma andrà commisurato, in via equitativa, alla “possibilità perduta” di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa): tale “possibilità”, per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto.

Sulla risarcibilità della perdita di chance non patrimoniale

ORIENTAMENTO ALL'ATTUALITÀ

In tema di lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, la perdita di chance a carattere non patrimoniale consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente - secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica - alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile (da liquidare in via equitativa) soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente.

Cass. civ., sez. III, ord. 26 giugno 2020, n. 12906; sez. III, sent. 11 novembre 2019, n. 28993; sez. III, sent. 9 marzo 2018, n. 5641; sez. III, sent. 14 novembre 2017, n. 26822

Sempre in una prospettiva di estensione dell'area del danno risarcibile, la S.C. ha distinto la condotta omissiva propria – che può nascere, oltre che da una norma di legge o da una previsione contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altruie la condotta attiva colposa per omesso rispetto di una regola cautelare: entrambe possono essere poste a fondamento di una pretesa risarcitoria.

Sulla rilevanza risarcitoria delle condotte omissive

ORIENTAMENTI A CONFRONTO

In tema di risarcimento del danno, affinché una condotta commissiva o omissiva possa essere fonte di responsabilità, ai sensi dell'art. 2043 c.c., è necessario che sia configurabile in capo al responsabile un obbligo giuridico di impedire l'evento dannoso, che può nascere, oltre che da una norma di legge o da una previsione contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui, senza che sia astrattamente configurabile per il solo fatto che il preteso responsabile abbia posto in essere un'attività lecita, dalla quale siano derivati al terzo pregiudizi che questi, con l'uso dell'ordinaria diligenza nella cura del proprio bene danneggiato, avrebbe potuto evitare.

Cass. civ., sez. II, sent. 12 marzo 2012, n. 3876

La responsabilità della P.A. per il risarcimento dei danni causati da una condotta omissiva sussiste non soltanto nel caso in cui questa si concretizzi nella violazione di una specifica norma, istitutiva dell'obbligo inadempiuto, ma anche quando detta condotta si ponga come violazione del principio generale di prudenza e diligenza (cosiddetto obbligo del “neminem laedere”), di cui è espressione l'art. 2043 c.c.

Cass. civ., sez. III, sent. 19 dicembre 2013, n. 28460

In tema di responsabilità civile, la condotta attiva colposa, caratterizzata dall'omesso rispetto di regole cautelari proprie (cd. “omissione nell'azione”), va distinta dalla condotta omissiva propria (omissione in senso stretto), in quanto, mentre quest'ultima postula, ai fini del risarcimento del danno ad essa conseguente, la violazione di uno specifico obbligo di agire per impedire la lesione di un diritto altrui, la prima presuppone semplicemente il mancato rispetto di regole di prudenza, perizia o diligenza volte a prevenire il danno medesimo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva condannato un Comune al risarcimento dei danni subìti da un privato in conseguenza delle ustioni riportate dopo essersi seduto su un tratto di spiaggia in cui erano state nascoste le braci ardenti residuate da un falò acceso da ignoti, sul rilievo che tali danni erano stati causati, non già da un'omissione in senso proprio, bensì da una condotta attiva caratterizzata dall'omesso rispetto, da parte della P.A., della regola cautelare che le imponeva di ripulire l'arenile dai rifiuti).

Cass. civ., sez. III, sent. 15 marzo 2019, n. 7362

Infine, la giurisprudenza di legittimità, superando i propri precedenti, ha riconosciuto che, oltre al compito restaurativo delle sfere patrimoniali lese, sono interne al sistema le funzioni di deterrenza e sanzionatoria, purché siano salvaguardati i requisiti relativi alla tipicità delle ipotesi di condanna con fine punitivo e alla prevedibilità delle stesse e dei suoi limiti quantitativi.

Sul riconoscimento della funzione punitiva del risarcimento dei danni

ORIENTAMENTI IN EVOLUZIONE

Nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive - restando estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta - ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l'arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all'altro. È quindi incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto dei danni punitivi.

Cass. civ., sez. I, sent. 8 febbraio 2012, n. 1781; sez. II, sent. 12 giugno 2008, n. 15814; sez. III, sent. 19 gennaio 2007, n. 1183

Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve, però, corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i suoi limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero ed alla loro compatibilità con l'ordine pubblico. (Principio di diritto enunciato dalle S.U. ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c. in relazione all'inammissibilità del motivo di ricorso involgente la relativa questione di particolare importanza, ancorché all'esito di una pronuncia di complessivo rigetto del ricorso).

Cass. civ., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601

Riferimenti
  • G. AMORTH, L'obbligazione solidale, Milano, 1959;
  • G. ANZANI, Causalità omissiva e causalità incerta alla luce della buona fede oggettiva, in Nuova giur. civ., 2016, 6, 941 e ss.;
  • M. BARCELLONA, Strutture della responsabilità e “l'ingiustizia” del danno, in Europa e dir. priv., 2000;
  • U. BRECCIA, L'abuso del diritto, in Diritto privato, III, L'abuso del diritto, Padova, 1997, 5 e ss.;
  • F.D. BUSNELLI – E. NAVARRETTA, Abuso del diritto e responsabilità civile, in Diritto privato, III, L'abuso del diritto, Padova, 1997, 171 e ss.;
  • C. CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015;
  • G. CATTANEO, La cooperazione del creditore all'adempimento, Milano, 1964;
  • L. MENGONI, L'argomentazione orientata alle conseguenze, in Ermeneutica e dogmatica giur., Milano, 1996;
  • U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell'abuso del diritto nell'ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1958, 37 e ss.;
  • E. NAVARRETTA, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996;
  • L. NIVARRA, A proposito di eclissi del diritto civile, in Europa e dir. priv., n. 4/2016, 1187 e ss.;
  • S. RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1967;
  • S. RODOTÀ, Solidarietà. Un'utopia necessaria, Roma- Bari, 2014;
  • C. SALVI, Capitalismo e diritto civile, Bologna, 2015.

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