Riforma processo civile: il giudizio di appello

Mauro Di Marzio
11 Agosto 2021

Il presente contributo si occupa delle novità previste dal disegno di legge per la riforma del processo civile. In particolare, vengono esaminate le norme dedicate al giudizio di appello. Il disegno di legge per la riforma del processo civile è stato approvato con l. 206/2021.
La riforma della giustizia civile e rilievo del giudizio di appello

Questa rivista ha già dato conto del rilascio, nella seconda metà dello scorso mese di giugno, degli emendamenti governativi al disegno di legge recante: «Delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie», ed ha pubblicato, e pubblicherà, diversi articoli su aspetti specifici della progettata riforma del rito civile.

È ora il momento di occuparsi, seppure in primissima lettura, del giudizio di appello, che indubbiamente costituisce, o meglio dovrebbe costituire, un aspetto saliente del progetto, dal momento che il giudizio di appello si svolge per lo più presso le Corti di appello: e, come ben sanno i lettori, le Corti di appello, nel panorama spesso sconsolante del funzionamento degli uffici giudiziari, sono gli anelli (più) deboli della catena; non che gli altri siano chissà come solidi, ma, certo, le Corti d'appello sono gli uffici giudiziari, tra quelli di merito, messi indubbiamente peggio.

Il principale dei fattori della crisi risiede nell'istituzione del giudice unico, che ha fatto della Corte d'appello il giudice dell'impugnazione delle decisioni non soltanto dei Tribunali — la cui produttività si è frattanto significativamente apprezzata per la drastica riduzione della collegialità — ma anche dei pretori. Il carico di lavoro delle Corti di appello si è così di molto incrementato in un breve torno di tempo, mentre gli organici sono rimasti sostanzialmente inalterati: sicché i tempi medi di definizione delle cause civili in appello si sono dilatati ben oltre il biennio considerato come termine di ragionevole durata, raggiungendo picchi di cinque, sei, sette anni. E per far che cosa? Per lo più nulla, se non rinviare la causa per la precisazione delle conclusioni.

Né può mancare di considerarsi che, secondo dati provenienti dal Ministero della giustizia, il giudizio di appello si conclude con la conferma della decisione di primo grado più o meno nei due terzi dei casi. Il che vuol dire due cose: da un lato che l'appellante non di rado «ci prova», anche se l'appello non avrebbe avuto vera ragione di essere proposto; dall'altro lato che l'appello rimedia ad una decisione probabilmente sbagliata in un numero di casi tutt'altro che marginale, un terzo del totale delle sentenza appellate, il che induce a credere che all'appello non possa così e semplicemente rinunciarsi.

Nel complesso, il legislatore ha tentato una riforma nel 2012, rivelatasi infine inadeguata, ma che purtuttavia un senso l'aveva, che rispondeva ad un progetto incentrato su tre pilastri: il forte incremento del requisito di specificità dei motivi di appello (art. 342); la decisione sommaria dei ricorsi senza chances (artt. 348-bis e ter); l'ulteriore contrazione dell'ambito dei nova (art. 345).

Quel progetto, si diceva, non ha avuto successo. E vediamo ora come la ministra vorrebbe affrontare e risolvere il problema del funzionamento del giudizio di appello.

Decorrenza del termine breve per il notificante

Il disegno di legge delega prevede «che i termini per le impugnazioni previsti dall'art. 325 c.p.c. decorrono, dal momento in cui la sentenza è notificata, anche per la parte che procede alla notifica». Si tratta di un'innovazione (peraltro concernente le impugnazioni in generale e non soltanto l'appello) che riflette un'acquisizione giurisprudenziale consolidata, innovazione come tale inutile. In realtà, infatti, sono decenni che la giurisprudenza ripete che la notificazione della sentenza al procuratore costituito della controparte fa decorrere il termine breve per l'impugnazione anche nei confronti del notificante (tra le tantissime Cass. civ., 28 luglio 1981, n. 4846).

Effetti sull'appello incidentale tardivo dell'appello principale improcedibile

Si prevede «che l'impugnazione incidentale tardiva perde efficacia anche quando l'impugnazione principale è dichiarata improcedibile». Idem con patate: v. p. es. Cass. civ., 26 novembre 2019, n. 30782. A parte il fatto che l'impatto pratico di una riforma del genere sarebbe prossimo allo zero anche se non riflettesse l'orientamento già seguito dalla giurisprudenza: insomma, una piccola messa a punto che non passerà certo alla storia.

La specificità dei motivi di appello

Si prevede «che nell'atto di citazione le circostanze da cui deriva la violazione di legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata di cui all'art. 342, comma 1, n. 2), c.p.c. sono esposte in modo chiaro e specifico». E forse da credere che il testo attuale della norma prescrivesse la formulazione di motivi oscuri e aspecifici? E cioè, che cosa aggiunge al dato normativo vigente la previsione di concetti tanto liquidi quali quelli di chiarezza e specificità? Ma il punto non è questo: il fatto è che le Sezioni Unite (mi riferisco a Cass., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199) hanno dato dell'art. 342 c.p.c. nel testo novellato del 2012, una lettura ampiamente riduttiva, tutta tesa a negare un dato che a me pare invece evidente, e cioè che il legislatore del 2012 ha inteso trasformare l'appello da mezzo di impugnazione a critica libera a mezzo di impugnazione a critica vincolata, spendibile per i soli motivi contemplati dalla norma. Basterà il riferimento al «modo chiaro e specifico» a secondare la resipiscenza del massimo organo della nomofilachia? Chissà. Non sarei molto ottimista.

La forma della dichiarazione di improcedibilità

Si prevede l'individuazione della «forma con cui nei casi previsti dall'art. 348 c.p.c. l'appello è dichiarato improcedibile e il relativo regime di controllo». Qui si manifesta un'opinione, per conto mio totalmente errata, ribadita numerosissime volte dal legislatore degli ultimi anni: e cioè che il giudice impiega meno tempo a scrivere lo stesso provvedimento se reca il nome di ordinanza o di decreto e non quello di sentenza. Viceversa, non occorre chissà quale acume per avvedersi che, se il provvedimento da scrivere è lo stesso, il tempo necessario non cambia, che esso si chiami Mario, Peppino o Pasquale. Il riferimento al «regime di controllo» fa poi pensare che si voglia sottrarre il provvedimento al ricorso per Cassazione, prevedendo un congegno di reclamo dinanzi alla stessa corte d'appello o qualcosa del genere, ricorso per cassazione che tuttavia rimarrà ineluttabilmente esperibile, ex art. 111 Cost., avverso la decisione resa in sede di reclamo. Dunque, nella sostanza, non cambia nulla.

Cambiano 348-bis e 348-ter

Si prevede che «l'impugnazione che non ha una ragionevole probabilità di essere accolta è dichiarata manifestamente infondata e … che la decisione di manifesta infondatezza è assunta a seguito di trattazione orale con sentenza succintamente motivata anche mediante rinvio a precedenti conformi». Questa non è, se non per l'aspetto di cui subito dirò, una riforma diretta a migliorare l'efficienza della giustizia civile, ma la qualità della vita degli avvocati: e come tale è una riforma da salutare con favore. Diremmo che si tratta di una soluzione di compromesso: la stragrande maggioranza della dottrina ha guardato alla dichiarazione di inammissibilità per mancanza di probabilità di accoglimento, prevista dagli artt. 348-bis e 348-ter, come al fumo negli occhi, e forse non senza ragione; il progetto di riforma mantiene in essere il meccanismo di selezione degli appelli meritevoli o non meritevoli di un approfondimento pieno, ma sostituisce la dichiarazione d'inammissibilità con quella di manifesta infondatezza ed il provvedimento adottato in forma di ordinanza con quello adottato in forma di sentenza. L'impiego dello strumento, e dunque il miglioramento dell'efficienza, potrebbe in qualche misura lievitare per una ragione invero prosaica: la previsione della decisione in forma di sentenza e non più di ordinanza sta a significare che essa fa per il giudice un punto di statistica pieno. Bisogna aggiungere che il filtro in appello ha una stretta parentela col filtro in Cassazione, che a quanto par di capire prevederà anche in futuro la decisione con ordinanza. Vi e in ciò perfetta coerenza?

I provvedimenti sull'esecuzione provvisoria

Si prevede «che la sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza impugnata è disposta sulla base di un giudizio prognostico di manifesta fondatezza dell'impugnazione o, alternativamente, sulla base di un grave e irreparabile pregiudizio derivante dall'esecuzione della sentenza anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti quando la sentenza contiene la condanna al pagamento di una somma di denaro». Nihil sub sole novi. Sono in buona sostanza gli stessi parametri che il giudice d'appello impiega oggi. Certo la precisazione non nuoce, ma l'impatto è scarsissimo. Inoltre si prevede che la sospensiva «può essere proposta o riproposta nel corso del giudizio di appello, anche con ricorso autonomo, a condizione che il ricorrente indichi, a pena di inammissibilità, gli specifici elementi sopravvenuti dopo la proposizione dell'impugnazione». Non comprendo perché sia stato previsto, nel disegno di legge delega, «che, qualora l'istanza è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l'ha proposta al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000. L'ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio». La previsione è già dettata dal vigente art. 283 c.p.c.. La norma, che non desta esattamente moti di simpatia, costituisce indubbio esempio di aberratio ictus: chi decide di chiedere la sospensiva non è per lo più la parte, che paga l'eventuale sanzione, ma il difensore. Infine si prevede che la sospensiva sia trattata dinanzi al consigliere istruttore, il quale riferisce al collegio per l'adozione dei provvedimenti del caso. Di questo dirò subito dopo.

Il redivivo consigliere istruttore

Si prevede «che la trattazione davanti alla Corte d'appello si svolge davanti al consigliere istruttore, designato dal presidente, al quale sono attribuiti i poteri di dichiarare la contumacia dell'appellato, di procedere alla riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza, di procedere al tentativo di conciliazione, di ammettere i mezzi di prova, di procedere all'assunzione dei mezzi istruttori e di fissare udienza di discussione della causa anche ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c.». Si tratta di una scelta curiosa, che non è dato comprendere cosa mai abbia a che vedere con l'efficienza del processo civile: la considerazione che sorge spontanea, qui, concerne l'utilità della nomina di un istruttore in un processo in cui l'istruzione normalmente non c'è, visto che il giudizio di appello è governato dal divieto di nova previsto dall'art. 345. Il progetto in questo caso non è soltanto inutile, ma è anche nocivo, dal momento ─ questo è un punto importante ─ che preclude la possibilità di decidere in prima udienza, all'esito di discussione orale, non soltanto in caso di manifesta infondatezza, ma anche di manifesta fondatezza, ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c.. Qui occorre dire che c'è una certa parte del foro che non gradisce quel modulo decisorio, che non consente di scrivere ancora, dopo quanto si è scritto nell'atto d'appello e nella comparsa di risposta. Queste sono le Sirene che la ministra ha ascoltato per migliorare l'efficienza del processo civile?

La decisione all'esito della sospensiva

Non lo si può escludere. È difatti prevista «la possibilità che, all'esito dell'udienza in camera di consiglio fissata per la decisione sull'istanza prevista dall'art. 283 c.p.c., il collegio provveda ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c., assegnando ove richiesto un termine per note conclusive scritte antecedente all'udienza di discussione». Insomma, un'udienza per la sospensiva, una per tenere la causa in decisione, e poco importa se questo in appello può costare anni. Ed è inoltre previsto che, «esaurita l'attività prevista negli artt. 350 e 351 c.p.c., il consigliere istruttore assegna termini perentori non superiori a sessanta giorni, per il deposito di note scritte contenenti la precisazione delle conclusioni, non superiori a trenta giorni per il deposito delle comparse conclusionali e non superiori a quindici giorni per il deposito delle memorie di replica e fissa successiva udienza avanti a sé nella quale la causa è rimessa in decisione e il consigliere istruttore si riserva di riferire al collegio e prevedere altresì che la sentenza è depositata nei successivi sessanta giorni». Le prassi (poco diffuse ma) virtuose di decisione in prima udienza vanno in soffitta. Prassi, si badi, che producono effetti statistici preziosi, come per il pollo di Trilussa, giacché se di due ricorsi uno è deciso in prima udienza e l'altro dopo cinque anni, la media quasi quasi rientra nei limiti della ragionevole durata.

La rimessione al primo giudice

È prevista la riformulazione degli «artt. 353 e 354 c.p.c., riducendo le fattispecie di rimessione della causa in primo grado ai casi di violazione del contraddittorio». Non certo una rivoluzione, tenuto conto che la giurisprudenza da sempre interpreta quelle norme in senso strettamente letterale e restrittivo. D'altro canto si consideri che quanto più si riduce il campo di applicazione degli artt. 353 e 354 c.p.c. tanto più si colpisce il principio del doppio grado di giurisdizione.

Per concludere

Ecco, il doppio grado di giurisdizione.

Quello che emerge con evidenza, a leggere la parte del disegno di legge delega sull'appello, è la mancanza di un organico progetto dotato di una qualche ambizione. Non c'è visione complessiva, manca qualsiasi tratto di ragionata audacia. Si tratta di interventi per lo più minuti, talora semplicemente riproduttivi di consolidati orientamenti della Cassazione.

E allora. Ho detto poc'anzi che l'appello è necessario, visto che un terzo delle sentenze risulta essere sbagliato. E però, se queste sono le tiepide, per non dire altro, prospettive di riforma dell'appello (che, dove più dove meno, dura anni e anni senza che si faccia nulla se non per dare rinvii), verrebbe da riprendere il «Parere iconoclastico sulla riforma del processo civile italiano» di Mauro Cappelletti, e cominciare a pensare seriamente al se e al come possa essere battuta alla strada della soppressione dell'appello. Giacché, come ho già avuto modo di scrivere, qui la posta in gioco è costituita dai denari del Recovery Fund, fondi che sarebbe tragico perdere a causa di una riforma così concepita.

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