Le nuove categorie professionali: il discrimine tra influencer e brand ambassador
15 Agosto 2021
Introduzione
I contemporanei strumenti di comunicazione digitale hanno dato vita a nuove figure professionali che, allo stato, è difficile ricondurre, senza alcuna criticità, a quelle tipizzate dal nostro Legislatore. Ciò impone agli interpreti ed agli operatori del settore una complessa operazione di riconduzione e riconciliazione delle nuove professioni nell'alveo di modelli più tradizionali che, ormai, non sempre rispondono alle esigenze della c.d. gig economy.
I primi lavoratori della gig economy che hanno conquistato l'attenzione dei più[1] a livello sociale sono i c.d. “riders” o ciclofattorini che, peraltro, hanno sollevato l'interesse della giurisprudenza[2], delle Parti Sociali (si pensi al contratto collettivo sottoscritto tra UGL e Assodelivery) e, recentemente, dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro[3].
Un simile percorso evolutivo socio-economico-giuridico non ha accomunato tutti i lavoratori della gig economy o le nuove professioni.
A titolo esemplificativo, i c.d. “influencer”[4], nelle loro varie declinazioni (streamer, brand ambassador, etc.), sono rimasti al di fuori da qualsivoglia approdo normativo o contrattualcollettivo e ciò ha reso ancora più complessa l'operazione di inquadramento già difficile a causa dell'eterogeneità che caratterizza le loro prestazioni.
Ad essere variegata è, in primo luogo, la tipologia di prestazione che può essere dedotta dal contratto: si va infatti dalle prestazioni di youtuber e fashion blogger (che si occupano, ad esempio, di redigere post e recensioni o creare video-tutorial) agevolmente riconducibili ad un contratto di prestazione d'opera intellettuale o occasionale sino a “prestazioni” – quali, ad esempio, indossare un capo, o essere presente ad un evento – in cui il cui contenuto lavoristico appare decisamente sfumato.
Compito dell'interprete, come di consueto, sarà quello di verificare la sussistenza degli elementi essenziali delle singole tipologie contrattuali al fine di verificare la corrispondenza tra fattispecie astratta e concreta.
Partiamo dalle basi, la disciplina della subordinazione, come noto, è caratterizzata da elementi essenziali quali: potere direttivo, inserimento nell'organizzazione imprenditoriale, collaborazione, cadenza regolare del corrispettivo.
Diversamente, il prestatore d'opera svolge una prestazione personalmente, senza alcun vincolo di subordinazione né obbligo di orario, in piena autonomia tecnica ed organizzativa per la realizzazione del c.d. opus perfectum.
Pertanto, alla luce della breve ricostruzione della dicotomia autonomia-subordinazione, a parere di chi scrive, la prestazione dell'influencer è difficilmente riconducibile al concetto di subordinazione ex art. 2094 c.c. essendo piuttosto configurabile una prestazione ex art. 2222 c.c. che, nel caso di specie, si sostanzia nella creazione di un contenuto pubblicitario online attraverso un'organizzazione del tutto autonoma.
È pur vero che possono esserci dei casi in cui tra l'azienda e l'influencer si instaura un rapporto continuativo, non limitato alla realizzazione di un opus perfectum, e che vi sia un comune accordo sulle modalità di coordinamento (i.e. indicazione dell'orario e del giorno in cui postare, il numero di post, gli hashtag da inserire), pur restando l'organizzazione dell'attività del tutto autonoma, configurandosi, così, ipoteticamente una prestazione ex art. 409, comma 3, c.p.c.[5].
Sul punto, per esigenze di chiarezza e completezza espositiva, si rende opportuno evidenziare che qualora le “modalità di esecuzione sono organizzate dal committente” il rapporto di lavoro potrebbe assumere le vesti di una collaborazione eterorganizzata ai sensi dell'art. 2, D.Lgs. n. 81/2015 alla quale si applica la disciplina della subordinazione. Ciò potrebbe realizzarsi nel caso, non infrequente, in cui il committente determina in toto le modalità di realizzazione dell'intero contenuto pubblicitario individuando il luogo e/o l'orario di pubblicazione dei post e/o, ancora, predisponendo un format preciso nel piano di comunicazione sfruttando, così, solo ed esclusivamente la notorietà dell'influencer e non anche le sue competenze creative e comunicative per l'ideazione, sviluppo e progettazione delle campagne pubblicitarie che, in una determinata e prestabilita misura, verrebbero limitate.
Ed invero, l'intenzione del Legislatore del 2015 è stata quella di garantire una maggiore tutela a forme di collaborazione che, in molti casi, non presentano un'organizzazione autonoma dell'attività quanto piuttosto una forte ingerenza del committente. Sul punto, si è espressa recentemente la Corte di Cassazione chiarendo che “in tema di rapporti di collaborazione ex art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, ai fini dell'individuazione della nozione di etero-organizzazione, rilevante per l'applicazione della disciplina della subordinazione, è sufficiente che il coordinamento imposto dall'esterno sia funzionale con l'organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione predisposta dal primo, inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa, costituendo la unilaterale determinazione anche delle modalità spazio-temporali della prestazione una possibile, ma non necessaria, estrinsecazione del potere di etero-organizzazione.” (cfr. Cass. n. 1663/2020).
Alla luce delle considerazioni sopra svolte, a parere di chi scrive, sembra difficile ricondurre ad un'unica fattispecie contrattuale il rapporto degli influencer in quanto occorre fare riferimento alle peculiarità delle singole prestazioni.
Le tipologie contrattuali astrattamente applicabili alla categoria
Orbene, a rendere ancora più evidente che la prestazione di un influencer è, per sua natura, eterogenea e non inquadrabile in un solo ed unico tipo contrattuale, è l'emersione della figura degli Executive Professional qualificati come dei veri e propri manager che operano come liberi professionisti. In quest'ambito potrebbero essere potenzialmente ricondotti anche quegli influencer che, in virtù delle loro competenze tecniche nel marketing, vengano inseriti, più o meno stabilmente, in un contesto manageriale per la gestione di uno o più affari specifici (i.e. “il lancio di un prodotto”) o per la supervisione ed il coordinamento di uno specifico ufficio interno all'azienda.
Una diversa tipologia di professionisti del settore da prendere in esame sono i “brand ambassador”, ovvero degli influencer inseriti stabilmente all'interno del contesto aziendale che, nella prassi, sono contrattualizzati come lavoratori subordinati ai sensi dell'art. 2094 c.c..
Più nello specifico, le aziende, al fine di implementare la diffusione del proprio marchio, hanno iniziato a dotarsi di soggetti a cui affidare il compito di rappresentare il brand al di fuori dell'azienda stessa: è così nata, per l'appunto, la figura del brand ambassador, il cui compito è quello di curare i rapporti tra i vari reparti interni in maniera trasversale, partecipare e organizzare eventi, promuovere il nome e la diffusione del marchio tra clienti e potenziali tali ed implementare la forza che il marchio stesso ha sul mercato.
Il brand ambassador, in buona sostanza, rappresenta l'immagine pubblica di un'azienda.
D'altro canto, per implementare il valore e la forza di un marchio, non è più possibile prescindere dalle nuove frontiere della tecnologia e, in particolare, dai social network. Le aziende, dunque, stanno facendo sempre più ricorso a personaggi influenti sui social network ed alle professioni del web in genere, ai quali affidano la promozione del marchio verso l'esterno. Nella specie, non ci si riferisce a quei tipi di influencer che annoverano milioni di followers, né tantomeno a personaggi di spicco (cantanti, calciatori, attori) che prestano la loro immagine alla promozione di prodotti, bensì a quella fascia di età, spesso costituita da professionisti giovani (under 30) se non addirittura adolescenti, che hanno dalla loro l'estro creativo e le abilità comunicative, oltre a un discreto seguito mediatico. Vale a dire la buona parte degli influencer che, però, capitalizzando le competenze acquisite nel settore della comunicazione digitale ed il proprio percorso di studi (ove presente) svestono parzialmente i panni dell'influencer, dell'artista intellettualmente indipendente in favore dei loro “mecenati”.
La prassi ha qualificato il rapporto di lavoro dei brand ambassador come subordinato sotto il profilo giuslavoristico, poiché caratterizzato dallo svolgimento di mansioni ben precise, in orari stabiliti e secondo le direttive aziendali (numero di post, eventi da organizzare, attività da patrocinare etc.). A parere di chi scrive, nello specifico, i social network si attagliano allora a rivestire il ruolo di “ferri del mestiere” e che il rapporto da dipendente ben si confà alle esigenze di entrambi perché, se da una parte l'azienda può sfruttare il potenziale mediatico degli influencer per la diffusione all'esterno dell'azienda, comunque, controllando e calibrando la loro attività, gli influencer stessi otterrebbero i vantaggi della stabilità conferita da un regime di lavoro dipendente, per di più incentrato su un mansionario accomunabile per contenuti a quella che nasce comunemente come una passione.
Si realizza poi un'ulteriore finalità, ovvero quella di politica sociale. La figura del brand ambassador, allo stato non è ben delineata, né tantomeno gode di una qualificazione normativa o contrattualcollettiva, laddove ben si potrebbe immaginare una simile regolamentazione, ad esempio all'interno del CCNL Commercio. In conclusione
Questo cambiamento epocale in atto, deve far riflettere, dunque, sull'esigenza e sulla necessità innanzitutto di aprire gli occhi sul movimento degli influencer (più o meno sull'esempio dei rider), di accettarlo non più solamente come un gioco da adolescenti, ma di darsi l'obiettivo di valorizzare la portata commerciale e di marketing che tutto il movimento può rivestire.
Ciò con l'auspicio che gli influencer vengano trattati da lavoratori nel momento in cui essi si trovano a rendere una prestazione lavorativa secondo determinati canoni sinteticamente sopra illustrati, fuggendo alla situazione di deregulation in cui spesso versano. Come la storia ci insegna, tali movimenti nascono e si diffondono sempre dal basso. Ne è una chiarissima testimonianza il movimento spontaneo #nostreamday che si è sviluppato tra gli influencer della piattaforma Twitch, i quali, per reagire all'esclusione (cd. “ban”) dalla comunità di un collega (senza paura di chiamarlo così) per motivi non ben precisati da parte dell'azienda riconducibile ad Amazon, hanno incrociato le braccia (e si sono ritirati sul colle Aventino) senza pubblicare alcun video per tutta la durata dell'astensione. Naturalmente così facendo è stata attirata l'attenzione e ci si è resi conto, se mai ce ne fosse stato bisogno, di quanto sia numerosa (e forse unita) la comunità degli influencer.
Per tali ragioni si auspica la costituzione di un fronte sindacato che possa raggruppare sotto la propria ala i lavoratori dei social network (autonomi o subordinati che siano). Prioritariamente si ritiene che si debba riconoscere la figura del brand ambassador quale lavoratore dipendente in azienda, con successivo inquadramento nel CCNL di riferimento (quale potrebbe essere, ad esempio, il CCNL Commercio) e con la conseguenza del riconoscimento di una retribuzione lorda fissa (oltre ferie, rol, superminimo, e tutela per licenziamento etc…). Al contempo, per i lavoratori autonomi a partita IVA, si vede con favore la predisposizione di un regolamento professionale, di un tariffario (i.e. D.M. n. 55 del 2014 recante “la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell'articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247”.), nonché di specifici codici ATECO per la categoria (ad oggi, assenti). Note
[1] Cfr. Carinci M. T., I contratti in cui è dedotta una attività di lavoro alla luce di cass. 1663/2020, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.1, 2020. [2] Cfr. Tribunale di Palermo sent. 24 novembre 2020; Tribunale di Torino, sent. n. 778/2018, Corte d'appello di Torino sent. n. 26/2019, Corte di Cassazione sent. n. 1663/2020. [3] Comunicato stampa del 24 febbraio 2021 dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro. [4] Definito da Andreola E., Fake news e danno da false informazioni in internet – I parte, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 5 2020 come un “soggetto che utilizza la sua notorietà per maggiore capacità di convincimento, come l'influencer. Questa figura viene spesso impiegata in strategie di comunicazione e di marketing, al fine di influenzare i comportamenti dei followers, svolgendo, in definitiva, un'attività da testimonial equivalente a quella di promozione pubblicitaria (attraverso tag e hashtag che rinviano al produttore)”. Secondo l'Associazione Italiana Influencer, invece, “L'attività professionale degli influencer è quella che li identifica quali utenti attivi su un qualsiasi social media, ove questi godono di una particolare popolarità o autorità nei confronti di un numero elevato di followers, al punto da poterne influenzare il pensiero su determinate tematiche o scelte commerciali tramite la creazione di contenuti di semplice intrattenimento oppure di caratura professionale, artistica, culturale e/o divulgativa, grazie ai quali sono in grado di ottenere un ritorno visibilità oltre che di natura economica”. [5] Per approfondimenti si veda Ferraro F., Riflessioni sul coordinamento ex art. 409, n. 3, c.p.c., in Rivista italiana di diritto del lavoro, fasc. 4, 2020. |