Sulla competenza in tema di esecuzione del concordato preventivo

31 Agosto 2021

Sul regolamento di competenza sollevato da due società in concordato preventivo, il P.G. nella requisitoria del 23 marzo 2021 afferma che è l'ufficio giudiziario individuato secondo gli ordinari criteri della competenza per territorio a doversi pronunciare sulla domanda di accertamento proposta dal debitore concordatario, restando esclusa qualsivoglia competenza funzionale anche solo “residuale” del tribunale fallimentare, innanzi al quale è intervenuta l'omologa del concordato medesimo.
Il caso

Il regolamento di competenza sottoposto all'esame della S.C., oggetto delle conclusioni scritte ai sensi dell'art. 380-ter c.p.c. del Procuratore Generale qui in commento, appare invero assai singolare.

In presenza di una situazione di crisi, due società ottengono dal tribunale fallimentare (di Bari) l'omologa della proposta di concordato preventivo nei confronti dei propri creditori; in seno alla detta proposta i creditori titolari di crediti “contestati”, invece di essere inseriti in apposita classe (come pure suggerisce la giurisprudenza della S.C.: per tutte Cass. 7 marzo 2017, n. 5698), risultano tout court inclusi nel passivo concordatario, insieme ai restanti creditori non contestati, con la promessa della loro futura soddisfazione secondo l'eventuale grado di privilegio esistente.

Ora, le due società in concordato, di fronte alle pretese dei creditori concorsuali contestati di essere soddisfatti nei tempi previsti dalla proposta, avviano – “in prevenzione”, è proprio il caso di dire – un'azione giudiziale innanzi al Tribunale di Roma, luogo ove hanno sede taluni tra i creditori convenuti, perché sia dichiarato il loro diritto (delle attrici) al differimento del soddisfacimento dei crediti vantati dai creditori concordatari “contestati”, fino a quando non sarà accertato, con una pronuncia definitiva, l'an e il quantum dei ridetti crediti.

Il fatto è che il Tribunale di Roma, prima ancora di vagliare l'ammissibilità o la fondatezza di una simile azione di accertamento, si spoglia della causa dichiarando la propria “incompetenza territoriale e funzionale”, trattandosi di domanda che inciderebbe direttamente sulla fase esecutiva del concordato, “atteso che le modalità e la tempistica dei pagamenti dei crediti costituiscono elementi caratterizzanti l'esecuzione della proposta concordataria”; da qui la competenza, ai sensi degli artt. 185 e 186 l.fall., del tribunale che ha omologato il concordato preventivo, id est dell'ufficio giudiziario di Bari.

Contro la pronuncia che declina la propria competenza insorgono entrambe le società in concordato, invocando un intervento della Corte regolatrice che sancisca la competenza per territorio del tribunale originariamente adito.

Le questioni giuridiche

Le conclusioni scritte del Procuratore Generale qui in esame affermano in maniera perentoria la competenza del Tribunale romano e lo fanno partendo, come è giusto che sia, dall'analisi della peculiare fase del concordato preventivo che è quella riservata alla sua esecuzione.

Il vero è che il legislatore fallimentare, tradizionalmente, si è sempre disinteressato della fase post omologa del concordato preventivo.

La legge n. 197/1903, che introdusse per la prima volta nel nostro ordinamento una disciplina del concordato preventivo – invero del tutto assente nel codice di commercio del 1882 –, non conteneva alcuna disposizione tesa a regolare la fase esecutiva del concordato, mentre la legge fallimentare del '42 vi ha dedicato soltanto una norma di carattere generale, l'art. 185 l.fall., rimasta immutata per oltre settant'anni, a tenore della quale: «Dopo l'omologazione del concordato, il commissario giudiziale ne sorveglia l'adempimento, secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione. Egli deve riferire al giudice ogni fatto dal quale possa derivare pregiudizio ai creditori».

Ora, come osserva esattamente la requisitoria del P.G., la procedura di concordato preventivo è caratterizzata dalla circostanza che l'imprenditore conserva l'amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa; né il tribunale e neppure il giudice delegato devono autorizzare gli atti di straordinaria amministrazione, come invece prevede la legge nella fase che conduce all'omologa del concordato.

Insomma, nessuno dei poteri “amministrativi” che la legge fallimentare accorda agli organi della procedura, nella fase che va dall'ammissione alla procedura e fino all'omologa della proposta, resiste nella fase esecutiva.

Successivamente alla pronuncia del decreto di omologazione del concordato, durante il periodo in cui si procede all'esecuzione del concordato – nella prassi giudiziaria, com'è noto, spesso caratterizzato da tempi assai lunghi –, il commissario giudiziale deve solo sorvegliare l'adempimento del concordato, secondo le modalità stabilite nel decreto di omologa e, se del caso, adottare quelle iniziative necessarie per provocare l'intervento del tribunale ai fini dei provvedimenti di cui agli artt. 185, comma 4, e 137 e 138 l.fall. richiamati dall'art. 186 l.fall.; cioè, in definitiva, deve sollecitare i creditori – oggi rimasti gli unici soggetti legittimati – ad avanzare istanza di risoluzione ovvero di annullamento del concordato.

È noto infatti che, dopo la riforma introdotta dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, il concordato preventivo – come quello fallimentare – può essere risolto o annullato soltanto su iniziativa dei creditori, essendo venuta meno la possibilità di una pronuncia d'ufficio da parte del tribunale, su sollecitazione anche del solo commissario giudiziale.

È vero poi che l'art. 182 l.fall. – nel testo più volte rimaneggiato prima dal D.Lgs. n. 169/2007, poi dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221 e da ultimo dal D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito dalla L. 6 agosto 2015, n. 132 – nel solo caso di concordato con cessione dei beni (il c.d. concordato liquidatorio), prevede oggi che il tribunale nomini i liquidatori e il comitato dei creditori, affidandogli pure il compito di determinare«le altre modalità della liquidazione»; ma è evidente come siffatta norma non conferisca ulteriori competenze di natura giurisdizionale, né al giudice delegato e neppure al tribunale, restando saldamento in mano al comitato dei creditori – salvi gli interventi surrogatori che il giudice delegato esercita nei casi espressamente previsti dall'art. 41 l.fall. – il potere di approvare esclusivamente le singole modalità di liquidazione dell'attivo concordatario proposte dai liquidatori (art. 182, comma 4, l.fall.).

Del resto, è noto che i processi di cognizione che riguardano i beni compresi nella massa ed i debiti dell'imprenditore in concordato, devono svolgersi secondo gli ordinari criteri di competenza e nell'osservanza della disciplina del giudizio ordinario di cognizione.

E ciò per l'assorbente considerazione che nel concordato preventivo manca un procedimento di verifica dei crediti, come quello che si rinviene invece nel fallimento.

Sul punto è sufficiente rammentare la granitica giurisprudenza della S.C. (Cass. 25 settembre 2014, n. 20298; Cass. 14 febbraio 2002, n. 2104; Cass. 22 settembre 2000, n. 12545; Cass. 21 gennaio 999, n. 523; Cass. 17 giugno 1995, n. 6859; Cass. 12 marzo 1987, n. 2560), a tenore della quale, nella fase di omologa del concordato, la verifica in ordine all'entità ed alla natura dei crediti concorsuali è strumentale al solo fine del calcolo delle maggioranze, senza vincolare alcuno e, soprattutto, senza precludere l'instaurazione di un successivo ordinario giudizio di cognizione, avente ad oggetto l'accertamento dell'importo e del rango, privilegiato o chirografario, del credito.

Insomma, dopo l'omologazione del concordato, tutte le questioni che hanno ad oggetto i diritti pretesi da singoli creditori e che attengono all'esecuzione del concordato, concernenti la sussistenza, come pure l'entità ed il rango del credito, danno luogo a controversie sottratte al potere decisionale del giudice delegato, costituendo oggetto di un ordinario giudizio di cognizione (Cass. 18 giugno 2008, n. 16598; Cass. 14 giugno 2016, n. 12265).

Certo, come osserva acutamente la requisitoria in commento, ai sensi dell'art. 161, comma 2, lett. e), l.fall., il debitore, quando presenta una domanda di ammissione al concordato preventivo ha l'onere di depositare, tra l'altro, un “piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta” di concordato. Ciò significa che i profili temporali dell'attuazione del concordato preventivo sono definiti dal soggetto proponente e specificati nella proposta, che il medesimo sottopone al voto del ceto creditorio.

Dunque, è almeno dubbio che il proponente il concordato possa ottenere la concessione di un diverso termine di adempimento da parte del tribunale, in considerazione di una circostanza – la natura contestata del credito – che era già ben nota al momento della proposta; tuttavia, quello che conta per stabilire quale sia il giudice competente a pronunciarsi è che, in ogni caso, sulla pretesa dell'imprenditore in concordato di non vedersi costretto ad adempiere alla proposta concordataria nei tempi e modi indicati nella medesima deve decidere non il giudice che ha spiccato il decreto di omologa secondo un criterio “funzionale”, ma quello che sarebbe competente “per territorio”, secondo i criteri ordinari dettati dal Codice di rito (artt. 18 e segg. c.p.c.).

Non va sottaciuto, infine, che nella prassi giudiziaria si registrano sovente provvedimenti del giudice delegato – ovvero del tribunale fallimentare resi in sede di reclamo – che dispongono, similmente a quanto accade in sede di riparti fallimentare ai sensi dell'art. 110 l.fall., l'accantonamento dei c.d. “crediti contestati”.

La S.C. tuttavia, invocando esattamente la sua ferma giurisprudenza in tema di esecuzione del concordato, ha sempre affermato l'inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso i detti provvedimenti, trattandosi di atti giudiziali esecutivi di funzioni di “mera sorveglianza e controllo”, privi cioè dei connotati della decisorietà e della definitività che consentono il ricorso per cassazione (da ultimo Cass. 14 giugno 2016, n. 12265); e ciò esattamente al contrario di quanto il medesimo Giudice di legittimità afferma in tema di accantonamenti disposti nell'ambito delle procedure fallimentari (Cass. S.U. 26 settembre 2019, n. 24068).

Conclusioni

Come anticipato sopra, all'esito della disamina della scarna disciplina di fonte normativa in tema di esecuzione del concordato preventivo, le conclusioni scritte del P.G. sul regolamento di competenza sollevato dalle società in concordato sono univoche: è l'ufficio giudiziario individuato secondo gli ordinari criteri della competenza per territorio a doversi pronunciare sulla domanda di accertamento proposta dal debitore concordatario, restando esclusa qualsivoglia competenza funzionale anche solo “residuale” del tribunale fallimentare, innanzi al quale è intervenuta l'omologa del concordato medesimo.

E neppure, va soggiunto, un'eventuale deroga agli ordinari criteri di competenza per territorio sarebbe consentita invocando i provvedimenti di accantonamento delle somme spettanti ai creditori contestati, che vengono sovente disposti dal tribunale fallimentare nell'esercizio dei suoi poteri di sorveglianza sul concordato, trattandosi di attività che non ha i caratteri della decisorietà e della definitività, che è naturalmente propria degli atti giurisdizionali – come quelli di cui si discorre nel regolamento di competenza in esame – che decidono sui diritti.

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