Breve storia di una (contro)riforma “annunciata”

Danilo Galletti
01 Settembre 2021

L'Autore svolge alcune riflessioni sul decreto legge 24 agosto 2021, n. 118 pubblicato sulla G.U. n. 202 del 24 agosto 2021 e sulle novità introdotte.
Premessa

Qualche tempo fa, in questo portale, avevo avanzato taluni sospetti e timori, fondati su una percezione un po' “vaticinante” degli interventi di “manutenzione” in corso sul Codice della Crisi (E' arrivato il venticello della controriforma? Così è, se vi pare, 27 luglio 2021), e su talune anticipazioni che erano trapelate, unitamente alla pubblicazione di un'intervista alla Presidente della Commissione incaricata di svolgere i “lavori”.

Ai miei timori era stata fornita subito una (garbata) risposta (cfr. M. Fabiani, La proposta della Commissione Pagni all'esame del Governo: valori, obiettivi, strumenti, in dirittodellacrisi, 2 agosto 2021).

Ho dunque atteso di esaminare il prodotto “estivo” dei lavori, e di aver potuto maturare una riflessione non troppo “accalorata”.

A me pare tuttavia che la stragrande maggioranza di quelle perplessità si sia avverata nei fatti, con l'approvazione del D.L. 24 agosto 2021, n. 118, pubblicato sulla G.U. n. 202 del 24 agosto 2021 (nel prosieguo, soltanto “DL”).

È stato introdotto (quasi unicamente) uno strumento di regolazione della crisi, di tipo non concorsuale, ma “negoziale”, studiatamente resistente ad ogni tentativo di interazione col (sotto)sistema di elementi anticorpali di carattere “autoritario” (cfr. per una giusta enfasi dello iato che così si è venuto a creare fra le categorie della “Autorità” e della “Libertà”, S. Pacchi, Le misure urgenti in materia di crisi d'impresa e di risanamento aziendale (ovvero): i cambi di cultura sono sempre difficili, in ilcaso.it, 9 agosto 2021; parla di “svalutazione competitiva del sistema concorsuale” P. Liccardo, Neoliberismo concorsuale, il mercato delle regole e la forma dell'acqua: resistere, resistere, resistere, in corso di pubblicazione).

Apparentemente l'entrata in vigore del CCII è solo differita, quella del sistema delle misure di allerta ancora più scaglionata nel tempo; ma in realtà è difficile sottrarsi alla previsione per cui il DL agirà nel frattempo come un retrovirus, andando a modificare il sistema, sì da favorire poi, al momento utile, un completo accantonamento del D. lgs. n. 14/2019, magari previa l'anticipazione di qualche altro frammento di disciplina che non sia avvertito come radicalmente “incompatibile” con il “volto nuovo” del diritto concorsuale che nel frattempo (si spera) avrà attecchito (e cfr. anche le analoghe recenti riflessioni di F. Lamanna, Nuove misure sulla crisi d'impresa del D.L. 118/2021: Penelope disfa il Codice della crisi recitando il “de profundis” per il sistema dell'allerta, 25 agosto 2021, il quale sottolinea come quantomeno l'allerta sia candidata certa per l'obitorio, e come il CCII divenga “uno scheletro non più sorretto da muscoli e tendini”).

D'altro canto non è certo un segreto come interi strati del tessuto economico italiano avessero “preso di mira” da tempo il CCII, considerato “indigesto” per un'imprenditoria da sempre “allergica” ad ogni forma di intromissione negli interna corporis dell'impresa, ed incline a considerare qualsiasi forma di controllo come un puro costo, e mai uno strumento per investire in termini di efficienza (v. anche i rilievi di L. Stanghellini, La legislazione d'emergenza in materia di crisi d'impresa, in Riv. soc., 2020, 353 ss.).

Le misure di allerta non potevano allora non cadere per prime sotto la scure di questo “moto rivoluzionario”:il loro allontanamento nel tempo, accompagnato con il disegno (per nulla “transitorio”) di una misura, di tutt'altro tenore, che prende al momento il posto di quelle, è chiaramente funzionale al loro progressivo abbandono, secondo la logica del “binario morto” ben noto alla nostra tradizione legislativa.

Poco importa che in questo modo si aprano “voragini” sistematiche, perché il tempo saprà senz'altro fornire equilibri alternativi.

Gli interessi che ambivano al “rigetto” del nuovo modello culturale contenuto nel CCII sembrano dunque aver segnato un punto importante; e ciò proprio nel momento in cui sembrava che gli enti esponenziali del mondo delle imprese avessero inteso che essere imprenditori, anche nel nostro paese, non vuol dire solo essere debitori, ma implica sempre e soprattutto un duplice ruolo, quello di creditori di prestazioni, e poi di debitori verso altri.

Le apparenti e dichiarate finalità: miti e paradigmi

Osservo peraltro che le nuove norme vengono, anche nei primi commenti, frequentemente interpretate nel senso che esse in effetti supererebbero taluni caratteri del CCII, ma che ciò sarebbe giustificato dalla necessità da un lato di attuare la direttiva UE n. 2019/1023 (“Direttiva”), e dall'altro di approntare una adeguata reazione agli effetti dell'evento pandemico.

In particolare si asserisce che i mutamenti nel tessuto economico indotti dal Covid imporrebbero nuove tecniche di intervento, che dovrebbero essere ordinariamente di natura transitoria, ma che comunque potrebbero aspirare a diventare definitive anche per il futuro, qualora ci si accorgesse che esse costituiscano in realtà nuovi paradigmi, pronti a sostituire i precedenti.

In sostanza si afferma che quella “sostituzione” sarebbe avvenuta comunque, nel tempo, ma che forse la pandemia ha accelerato quel processo di sostituzione.

A me pare che si tratti di un ragionamento astratto, generico, e che nasconde una chiara mistificazione.

È vero che il diritto commerciale progredisce nel tempo basandosi ed arroccandosi volta a volta su veri e propri “miti” (cfr. G. Fauceglia, La legislazione in tempo di pandemia de la metamorfosi del diritto della crisi, in Giur. comm., 2021, I, 432 ss.), che spesso divengono autoreferenziali, sino a che sono sostituiti da nuovi “miti”, attraverso un processo che porta gli studiosi a considerare i nuovi paradigmi tanto ovvi quanto lo erano i vecchi, e anche con sorprendente rapidità. In fondo è questa sì la lezione del Capograssi, ma si potrebbe dire lo stesso credo di gran parte delle categorie del sapere umano.

Il CCII aveva già prodotto un effetto simile, come ho già cercato di argomentare in diversi scritti, rendendo in apparenza “ovvie” talune ricostruzioni che in realtà soltanto pochi anni prima non erano considerate ovvie affatto, e talvolta anzi venivano ritenute quantomeno ardite: basti pensare alla centralità dell'obbligo di monitorare, anche in chiave “preventiva”, l'equilibrio finanziario dell'impresa, come regola di condotta ordinaria, soprattutto nella fase di vita in bonis dell'impresa, che può condurre ad affermare persino la illegittimità dell'adempimento di un debito scaduto, se ciò possa compromettere quell'equilibrio.

Una tipica dimensione del dover essere, l'adempimento di un obbligo civilistico, diviene così elemento di una condotta illecita.

Il problema ovviamente si annidava nella differente prospettiva da cui si guarda all'obbligo: nella sua dimensione bilaterale, il suo adempimento è una “necessità”, ma in un'ottica plurilaterale, che enfatizza le esternalità negative collegate a quell'adempimento, la conclusione cambia.

Ovviamente non può essere il diritto civile a risolvere questa antinomia: occorre uno strumento anch'esso costruito su di una dimensione “collettiva” e “metaindividuale”; occorre il diritto concorsuale, e l'inerenza ad uno strumento regolatorio della crisi.

Quali sarebbero dunque i nuovi “valori”, che darebbero vita ad un nuovo “paradigma” del diritto dell'impresa?

Spesso i commenti non lo dicono, e già questo è significativo: volendo assumerne la buona fede, il “nuovo” diventa così autoreferenziale; tutto ciò che si distacca dal passato cosi si autolegittima, addirittura presentandosi come “necessario”.

E direi che è piuttosto questo il refrain adesso di moda, per cui tutto ciò che è nuovo, nel senso di diverso dal passato, è soltanto per questo buono; e questo anche se il “passato” è distante pochi anni, se non mesi.

In realtà a me sembra che il “nuovo” paradigma, almeno nelle aspirazioni di molti primi commentatori “entusiasti”, sia semplicemente ed ancora quello della conservazione dell'impresa come valore da tutelare in sé, anche a prescindere dall'interesse dei creditori.

Quest'ultimo interesse certo non verrebbe “dimenticato”, ma potrebbe considerarsi tutelato nella misura in cui l'attenzione dell'ordinamento per il primo e “principale” valore consentirebbe di perseguire obiettivi idonei a massimizzare anche quello.

In realtà noi conosciamo già ordinamenti settoriali ove il focus “valoriale” è incentrato sulla conservazione del compendio aziendale, e dove l'interesse dei creditori pur non è ignorato dalle norme, che prescrivono espressamente di tenerlo in considerazione. Si tratta dell'ordinamento bancario, e soprattutto dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese, ove però l'esperienza concreta ci dimostra che a livello esecutivo l'interesse creditorio non riceve concretamente alcuna considerazione ed attuazione pratiche.

Ma è vero che il paradigma della tutela del credito è già destinato ad essere sostituito? È vero che il “valore” del risanamento dell'impresa richieda tale sostituzione? Ed è vero che il DL abbia perseguito in realtà tale obiettivo?

Io credo che la risposta a tutti e tre gli interrogativi debba essere negativa, e che l'unica “novità” percepibile nel tessuto del DL sia il “rigetto” del ruolo dell'Autorità, sostituita da una regolazione della crisi che si vorrebbe intermediata esclusivamente dal Mercato.

Eccolo dunque il nuovo “mito”. Sicuramente la necessità del superamento del paradigma “classico” del diritto concorsuale non la afferma la Direttiva: il valore- fine tutelato dalla stessa è sempre quello della tutela dei creditori, laddove la conservazione dei compendi è un tipico valore-mezzo, da tutelarsi certo in modo forte, poiché si ritiene che ciò, soprattutto nell'ambito di un tessuto economico impregnato di PMI, il cui “valore” economico è difficilmente separabile dal soggetto economico, normalmente tuteli meglio proprio l'interesse dei creditori, e con ciò anche quegli altri normalmente ricollegati alla prosecuzione dell'impresa.

E d'altro canto, se la logica di contrasto al Covid imponesse tale “capovolgimento valoriale”, perché allora l'Unione non avrebbe subito messo in cantiere una revisione della Direttiva orientata in tale direzione?

In realtà di superamento del paradigma economico del credito non sembra si possa proprio parlare.

D'altro canto non se ne parlò neppure all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, quando gli sconvolgimenti subiti dai mercati erano stati superiori e di portata ben più “sistemica” di quelli attuali.

E difficile sembra superare anche ora quel paradigma, perché lo impedisce proprio la ricostruzione economica del concetto di “impresa”: strumento sì alternativo al Mercato come “black box” dedicata alla produzione di beni e servizi, ma che necessita di input avente ad oggetti assets strumentali al processo di ricombinazione dei fattori produttivi. Assets sui quali l'imprenditore deve poter esercitare il suo tipico “potere” di organizzazione (il “power” delle riflessioni di Zingales).

Allo stato attuale non si vede allora come si possa prescindere, e come possa prescindere il sistema giudico nella sua considerazione, da quell'asset costituito dal “credito”, che è essenziale, insostituibile, e che giustifica l'esistenza di norme che attribuiscono a tali particolari stakeholders poteri certamente peculiari (non solo nel diritto concorsuale: arg. ex art. 2394 c.c.).

Credito la cui erogazione in funzione anche del grado di efficienza “osservabile” dell'impresa è parimenti essenziale, posto che il fenomeno di selezione avversa che scaturisce dalla sua “inosservabilità” è normalmente considerato esiziale per l'impresa stessa (Stiglitz).

Non è certo da escludere che un assetto differente dei rapporti fra impresa e comunità, in futuro, possa portare alla luce altri assets non meno importanti, ed addirittura più importanti del credito; ciò potrebbe costituire motivo per dettare norme che pongano al centro dell'ordinamento piuttosto o anche il soddisfacimento di tali interessi.

In fondo il processo sembra già in corso con le riflessioni sulla governance multi-stakeholder (cfr. per tutti, soltanto di recente, F. Denozza, Lo scopo della società tra short-termism e stakeholder empowerment, in Orizzonti dir. comm., 2021, 29 ss.; e si v. anche il lavoro monografico di M.V. Zammitti, La responsabilità della capogruppo per la condotta socialmente irresponsabile delle società subordinate, Milano, 2020, passim); ma anche in questi contesti la conservazione del compendio, anche in una prospettiva long-term, non costituire un valore in sé, un valore- fine, bensì sempre un valore-mezzo.

La reazione al Covid: poco e poco più di una scusa

La natura “sistemica” della crisi Covid, a prescindere dal fatto che è quantomeno dubitabile che essa si presenti oggi, a 18 mesi dall'insorgere del fenomeno, con elementi di intensità paragonabili a quelli registrati nel 2020, potrebbe certo suggerire (o meglio, avrebbe potuto suggerire l'anno scorso) l'introduzione di misure eccezionali e temporanee, che prendano atto dell'”obiettivo n. 0” di qualsiasi sistema economico, che non è l'efficienza, ma la sua sopravvivenza (basti sul punto il rinvio a I. Kutufà, Emergenza e crisi dell'impresa: profili problematici e snodi interpretativi, in RDS, 2021, 390 ss., al cui apparato bibliografico per brevità si fa rinvio; ed il già visto studio di G. Fauceglia, loc. cit.; in ordine al diritto societario per tutti v. L. Enriques, Per un diritto societario resistente alle pandemie, in RDS, 2020, 699 ss.).

In questo contesto, misure temporanee volte ad evitare una chiusura generalizzata delle imprese, ed il collasso del sistema, avrebbero potuto essere giustificabili, ed in parte sono state realizzate nel 2020.

Ciò che mancava, e che manca anche oggi, è la messa a disposizione di più strumenti, “graduati” a seconda delle esigenze delle imprese, funzionali ad un percorso di ristrutturazione “specifico”.

Ma le nuove norme non recano in sé alcun carattere di “temporaneità” (il riferimento anzi scompare, come per un gioco di prestigio, nel passaggio dal decreto istitutivo della Commissione al DL), e non a caso vedono la luce in un momento in cui la pressione dell'emergenza sembra meno forte, senza peraltro nemmeno mettere realmente a disposizione gli strumenti che davvero occorrerebbero.

In sostanza sembra che le affermazioni circa la necessità di norme impostate su un nuovo “paradigma” siano allo stato infondate, ed occultino un afflato ideologico, che aspira semplicemente a rovesciare l'attuale paradigma, per affermare non già valori “nuovi”, bensì valori storicamente usciti “sconfitti” nel processo legislativo, anche nelle recenti riforme.

Si tratta in realtà di un intervento quasi integralmente fondato su ragioni “politiche”, e molto poco “tecniche”.

Tali nuovi valori infatti o non esistono, oppure costituiscono la ripresentazione di valori recessivi, ma ancora “vitali” nel tessuto economico, sia pur in una prospettiva antagonista, ed anche lobbistica (e cfr. in tema ancora F. Lamanna, op. loc. cit.).

D'altrocanto sarebbe quantomeno singolare che un testo normativo promulgato soltanto nel 2019, e ritenuto portatore appunto di un “rinnovamento culturale”, potesse davvero essere ritenuto oggi, a soli due anni di distanza, già “superato” proprio sul piano culturale, in modo tale da richiedere addirittura una reimpostazione dei parametri valoriali di fondo.

Ciò avrebbe invero potuto essere soltanto ove un evento epocale, come appunto il Covid, avesse modificato a livello economico in modo determinante il concetto stesso di impresa, ma così non parrebbe essere avvenuto, e che ciò accada in futuro mi pare assai improbabile, anche se non impossibile.

Anche qualora ciò dovesse verificarsi, d'altro canto, è assai discutibile che il mutamento di prospettiva conseguente richiederebbe proprio i cambiamenti di rotta che la “filosofia” sottostante al DL sembra assumere, in realtà tutt'altro che “nuovi”, e non già altre e diverse innovazioni, che però non vengono nemmeno abbozzate o ipotizzate.

Il motivo di fondo del DL sembra essere dunque quello per cui la conservazione dell'impresa deve avvenire in un contesto privatistico, in nessun modo controllato dalla “Autorità”.

Questo modello sembra addirittura autolegittimarsi, come “buono” in sé, senza nemmeno bisogno di alcuna dimostrazione che non poggi semplicemente sui “facili” concetti, di matrice “populista”, dei tempi e dei costi delle procedure concorsuali.

Come se negli ultimi due decenni fossero stati i Tribunali i (soli) responsabili del fallimento di tanti onerosissimi tentativi di ristrutturazione, e senza che ciò in alcun modo dovesse coinvolgere il ceto imprenditoriale e professionale (che non mi sembra lavori gratis et amore dei nelle ristrutturazioni “privatistiche”).

Però la scelta del nostro ordinamento, che diverge da quella di diversi altri sistemi, è nel senso di non discriminare circa l'uso dei “nuovi” strumenti fra imprese in crisi (anche solo in parte) a causa dell'evento pandemico, ed imprese già condannate alla discontinuità per via di fattori endogeni ed antecedenti.

Si è detto che sarebbe molto difficile effettuare questa discriminazione, anche se diversi legislatori nazionali non sembrano aver condiviso tale valutazione.

Di certo però mi sembra che, soprattutto se le nuove misure fossero davvero ispirate ad una logica di contrasto alle conseguenze economiche dell'evento pandemico, allora il rischio che venissero a beneficiarne soggetti che non ne sono meritevoli, e che anzi sono forse rimasti artificialmente in vita solo grazie alla (egualmente indiscriminata) normativa di “sostegno” del 2020, sarebbe molto elevato.

Ciò può condurre ad un elevato opportunismo, che potrebbe consentire alle imprese meno efficienti di beneficiarie di misure e risorse (queste ultime per definizione scarse, ed insufficienti) che dovrebbero essere destinate altrove. Con un evidente ed enorme effetto di selezione avversa.

Mi sembra evidente allora che rinunziare alla “Autorità”, tanto più in un contesto come questo, non possa che aggravare quel fenomeno, con effetti perversi a cascata sul sistema generale delle imprese, e proprio ed anche sull'erogazione del credito, che rimane come si è già visto la risorsa “vitale” (d'altro canto tutte o quasi le prime misure statuali antipandemiche, non a caso, sono state rivolte a sostenere la liquidità delle imprese).

C'è un nuovo sceriffo in città? Ma ha la stella di latta?

Nemmeno si può ritenere che alla “Autorità” del Pubblico possa sostituirsi quella del professionista.

Ciò è conforme ad es. alla mentalità ed all'esperienza anglosassoni. Ma il professionista, nel nostro sistema, ha purtroppo dato nel corso degli anni scarsa dimostrazione di indipendenza e di autonomia, proprio e soprattutto nella gestione della crisi, mostrando anzi di essere vittima di situazioni di conflitto di interessi, con frequente tendenza a non percepire in modo sufficientemente chiaro nemmeno quale sia la sfera di interessi che egli è chiamato a tutelare (l'impresa o l'imprenditore), nonché di azzardo morale, id est l'azzardo di cui è normalmente preda il “soggetto economico” di riferimento dell'impresa.

Lo “storico” delle soluzioni regolatorie succedute alle riforme del 2005-2006, degli stessi risultati conseguiti, tanto in termini di recovery, quanto di rescue, mi sembra semplicemente impietoso. Ciò non è di certo addebitabile solo, né principalmente, alle inefficienze regolatorie né a quelle dei gatekeepers istituzionali.

E tale constatazione ha reso necessari nel tempo continui interventi normativi volti ad introdurre sempre nuovi limiti e controlli.

Pensare che ora si possa, anzi addirittura si debba, ingredire in un sistema ove invece il professionista, benché non nominato dall'imprenditore (ma nemmeno reso incompatibile con futuri incarichi professionali provenienti dallo stesso imprenditore, o dallo stesso “gruppo” in senso lato facente capo al medesimo soggetto economico), diviene l'unico gatekeeper, suona talmente tanto ingenuo da non risultare credibile nemmeno come errore concettuale.

L'intervento sembra collocarsi inoltre perfettamente nel contesto di un'epoca caratterizzata da una politica debolissima, incapace di adottare in modo esplicito scelte fra interessi contrapposti, ed eppure assai disponibile a perseguire obiettivi clientelari, ma in modo occulto, compiendo cioè scelte implicite, attraverso la apparente delega dell'oggetto delle stesse a panel di esperti, opportunamente selezionati.

Il manto apparentemente “scientifico”, “tecnico” della scelta proposta dagli “esperti” può così autolegittimarsi, senza generare responsabilità politica.

È così che probabilmente le preferenze mai celate dei nostri imprenditori, storicamente sempre pronti ad invocare l'aiuto dello Stato, ma quasi mai ad adottare, né spontaneamente e nemmeno attraverso la coercizione, strutture e habitus organizzativi idonei a prevenire le diffuse esternalizzazioni che l'attività di impresa può facilmente produrre, hanno trovato finalmente ascolto ed usbergo.

Senza considerare la caduta di “significato” che alcuni valori hanno inevitabilmente subito nel mondo moderno, le difficoltà che i concetti astratti e pertanto invisi, pur se appartenenti in realtà al mainstream economico- giuridico, incontrano nell'accreditarsi al di fuori della ridotta schiera di chi li ha faticosamente metabolizzati; il fenomeno si misura attraverso un'opera di costante delegittimazione condotta da “divulgatori” in realtà personalmente ed economicamente interessati, ma abili nello spacciarsi per “esperti”, addirittura “illuminati”, suadenti nel presentarsi come alternativi a quel mainstream per altri difficilmente orecchiabile, e quindi destinati a far breccia con la forza inarrestabile della suggestione e della superficialità.

Abbiamo tutti davanti agli occhi del resto le difficoltà analoghe e sempre crescenti che incontra oggi la scienza medica “ufficiale” nell'accreditarsi presso le masse, tormentate e fiaccate dalla liturgia delle “cattive notizie” proprio sull'evento pandemico in corso, e ben più portate ad inseguire i miraggi di “stregoni” le cui note suonano assai più melliflue.

Lo Stato potrebbe e dovrebbe fare molto per ristabilire la correttezza dell'informazione circa i “valori”; ma la caduta di consensi ed i cambiamenti nei meccanismi di acquisizione della “legittimazione” suggeriscono viceversa di non cadere nella trappola, e di mantenere un atteggiamento assai più ambiguo.

Di certo il politico non può acriticamente e semplicemente cedere alle istanze di chi aspira ad una narrazione conforme ad una visione “ottimistica” della realtà, poco compatibile con gli inviti alla cautela ed alla prevenzione, perché rischierebbe una successiva e grave stigmatizzazione personale, anche in chiave di responsabilità.

Ma da qua ad assumere un contegno davvero “responsabile” ce ne passa, e non poco.

È in questo spazio concavo, ed anche poco illuminato, che si incuneano le istanze più propense a veicolare quei “valori” più digeribili, i cui effetti probabilmente si misureranno nell'arco di anni, e quindi in una dimensione temporale che decisamente non ispira ora contegni prudenziali.

È allora soprattutto grazie al successo dei mezzi di diffusione “massificati” delle opinioni che abbiamo, in chiave generalista, da un lato, i generatori di fake news, che traggono dall' inganno la propria unica fonte di sostentamento, e, dall'altro, nel nostro settore, la “spinta” dei nuovi “esperti” della crisi, ciascuno sia pur in misura ed in modi diversi interessato soprattutto alla prosperità della propria attività, e quindi propenso a generalizzare di buon grado il significato statistico e soggettivizzato delle proprie esperienze personali, e a guardare con sospetto (e talvolta anche con rancore) a qualsiasi manifestazione di “autorità” nel settore.

La sensazione del “limite” conosce pertanto il suo declino e si avvicina a “tramontare”, mentre prende piede la ben più tranquillizzante idea della “libertà”, che tuttavia non sembra poter evadere da una prospettiva marcatamente egoistica ed individuale.

Perché sposare l'idea della “libertà” dell'uno non può che comportare l'imposizione ad altri, che di quella libertà siano impossibilitati a parimenti beneficiare, di subire le esternalità di quell'uno, e magari di pochi altri “eletti”.

Una tavolozza assai poco variegata

Il DL sembra sposare quasi integralmente questa “nuova filosofia”: si ammanta della necessità di dover seguire i dettami di una Direttiva che in realtà sembrerebbe guardare soprattutto altrove (v. infra), nonché di dover controagire rispetto agli effetti del Covid, ma guardacaso senza operare alcuna distinzione, né secondo le dimensioni dell'impresa, né secondo l'eziologia della crisi, e senza in nessun modo concepire l'intervento come temporalmente delimitato.

Il tutto sullo sfondo di un ideale variopinto di “libertà”, che tuttavia è funzionale soprattutto all'interesse di chi esercita un'attività economica disfunzionale, e dei suoi consulenti.

E con l'invenzione di “improbabili” cani da guardia (leggi “esperti/facilitatori”), chiamati addirittura a sopportare da soli il peso delle conseguenze, non irrilevanti, della formalizzazione del proprio “dissenso” rispetto ad atti di gestione che nella migliore delle ipotesi sono semplicemente disfunzionali nella prospettiva della ristrutturazione, nella peggiore si caratterizzano addirittura per la portata spoliativo/distrativa (art. 9).

Esperti la cui autonomia è talmente tutelata da rendere il peso economico dell'avvalimento di consulenti, in possesso di competenze di cui il facilitatore, ufficio monocratico, non disponga (art. 4, comma 2), a carico del medesimo…

Il tutto ammantato da una “urgenza” così pressante che la stragrande maggioranza delle norme entrerà in vigore dopo mesi, e non prima che siano definite le modalità operative di una infrastruttura tecnologica peraltro non facile da implementare, anche perché i contenuti (per nulla “neutri” sotto il profilo ideologico e politico), così come altre modalità attuative del DL, dovranno essere definiti mediante un decreto ministeriale “dirigenziale” (un modo questo per evitare che la sfera politica sia apparentemente coinvolta nelle scelte?).

Così l'imperativo di mettere a disposizione dell'imprenditore strumenti di ristrutturazione più funzionali ed anche nuovi, chiaramente concepito dalla Direttiva in termini tali da dotare l'imprenditore “almeno di uno”, ma preferibilmente di più strumenti tutti egualmente funzionali al risultato (cfr. R. Dammann, in Paulus- Damman, European preventive restructuring, Monaco, 2021, 39), viene piegato ad un disegno in cui l'unica misura “nuova” è un procedimento quasi del tutto depurato dal senso della “Autorità”, e integralmente flesso al “mito” della “Libertà” (e del “Mercato”).

In alternativa permangono istituti “classici”, come il concordato con continuità, sui quali tuttavia aleggia la convinzione circa la inidoneità a conseguire lo scopo tipico in termini efficienti, e quindi nel contesto di una buona dose di ipocrisia.

La Direttiva d'altro canto non vieta affatto di mantenere in vita nel campo del diritto concorsuale apparati normativi non dotati dei caratteri dalla stessa esposti, ma sicuramente, se tali strumenti fossero ritenuti “inadeguati”, allora sarebbe ragionevole aspettarsi che gli stessi siano riconformati in una direzione più “funzionale”, soprattutto quando ce ne sarebbe più bisogno.

Invece il DL introduce un solo strumento “nuovo” (che in realtà, potrebbe dirsi, assomiglia molto alla “vecchia” composizione assistita del CCII, che forse avrebbe potuto dunque essere semplicemente “adattata”; a meno di non voler appunto delineare uno strumento che sia scevro dagli aspetti di quel modello generale più “indigesti” (il c.d. piano inclinato? V. infra), cosicché si possa poi agevolmente, in un secondo momento, eliminare l'intera allerta, mantenendo in vita la propria “creatura”), quasi del tutto privo di “Autorità”, modifica altri strumenti “ibridi”, ma essenzialmente “negoziali” (accordi di ristrutturazione, convenzioni di moratoria), ed incide in misura a dir poco minimale su tutti i rimedi regolatori permeati da quella “Autorità”.

E' chiaro che in questa prospettiva l'aspirazione è a realizzare già nel breve periodo una quasi completa sostituzione degli strumenti “negoziali” agli istituti del CCII, modificando il DNA del sistema concorsuale in modo da espungere il più possibile i tratti genetici “autoritari”; a quel punto l'abbandono integrale del CCII (magari con qualche altra operazione “di facciata”) non sarà più un problema; ed ecco perché ho parlato sopra di “retrovirus”.

Una novità e mezza: il “concordatino”

Per di più il Legislatore della “Riforma” accompagna l'esperimento della misura “libertaria” sino alla fine ed anche oltre, individuando una soluzione istituzionale al possibile insuccesso pratico dell'istituto mediante l'introduzione di una “nuova” figura di concordato, con sostrato pubblicistico ovviamente “minimalista”, in apparenza scevro da qualsiasi limitazione quantitativa in ordine agli obiettivi di recovery, e di carattere solo apparentemente “liquidatorio”; ma chi pensasse che tale “concordatino” sia destinato realmente alla soluzione “liquidatoria”, quando è comprovato che l'opzione “conservativa” si è rivelata impercorribile (obiettivo questo che la Direttiva invece esplicitamente presceglie come primario), si ingannerebbe, e peccherebbe di ingenuità.

Il “concordatino” nasce piuttosto con la “missione” di sanzionare quasi sempre lo sbocco della prima fase, nella direzione del ricollocamento del compendio, non tanto sul mercato (grazie alla “sapiente” disattivazione degli strumenti funzionali ad instaurare la “competizione” sul punto: art. 19), quanto a beneficio di sfere soggettive che molto ottimisticamente saranno “terze”, ma che nella migliore delle ipotesi asseconderanno la vocazione dei nostri imprenditori italici per la sindrome della “Fenice”, e nella peggiore costituiranno un eccellente occasione per soggetti più o meno “economici” che dispongano ora di liquidità da investire; con buona pace in quest'ultimo caso degli interessi “nazionali”, apparentemente tanto cari ai movimenti “sovranisti”, nonché dell'esigenza che i compendi aziendali vadano in mano a chi più li apprezza ed è in grado di efficientarli.

È un concordatino che nasce col complesso del Titano (ed anche con notevoli vuoti anomici per la verità), insomma, e che già studia per detronizzare il ben più macchinoso parente “maggiore”, novello Urano (Sul “concordatino” v. A. Baratta, Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio. Brevi considerazioni introduttive, in questo portale, 13 agosto 2021; S. Morri, Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, in questo portale, 24 agosto 2021).

Si dirà che questa potrebbe costituire una via italiana alle soluzioni regolatorie pre-packaged, comuni alle esperienze nordamericane del Chapter 11; ma mi pare che il sottostante culturale miri più semplicemente ad un assorbimento di fatto ma il più possibile “occulto” di tutto il diritto concorsuale nel contesto del procedimento “privatistico”, che mira in realtà esclusivamente alla soluzione “di mercato”.

Il risanamento nell'epoca del Covid: hic sunt mercatores

In altro mio precedente intervento (Il diritto della crisi sospeso e la legislazione concorsuale in tempo di guerra, in questo portale, 14 aprile 2020), focalizzato su alcune proposte di misure normative da introdurre come risposta alle conseguenze dell'evento pandemico, avevo in effetti suggerito di predisporre da un lato un procedimento snello, ad imitazione di quello che regola il funzionamento dell'amministrazione di sostegno, che avrebbe avuto lo scopo di monitorare la gestione dell'impresa in crisi (almeno in parte determinata dalla pandemia), e di accompagnarla verso possibili soluzioni ristruttoratorie, da implementare o direttamente nell'ambito dello stesso procedimento, oppure in una fase successiva, sotto l'egida di strumenti regolatori più strutturati in senso concorsuale.

Il procedimento sarebbe stato accessibile soltanto ad istanza del debitore, ed avrebbe potuto avere ad oggetto soprattutto pmi, ma anche altri soggetti economici.

Contemporaneamente, vedevo l'opportunità di istituire una vera e propria procedura concorsuale, modellata sull'esempio della vecchia amministrazione controllata, destinata pur sempre alla ristrutturazione ma con forme più complesse, destinate quindi principalmente ad imprese di dimensioni meno contenute; soluzione questa che il DL non prende nemmeno in considerazione (non troppo distante sembra la posizione di S. Morri, La composizione negoziale della crisi di cui alla bozza di decreto legge: un rapido quadro e alcune riflessioni critiche, in questo portale, 24 agosto 2021).

Diversi paesi europei hanno seguito, con molte differenti sfumature, un ordine di idee non del tutto dissimile, introducendo anche, ma non solo, strumenti atti a agevolare le trattative del debitore con i creditori. Ma praticamente nessuno ha pensato di recidere completamente il legame fra regolazione della crisi ed “Autorità” (e v. anche le considerazioni di S. Pacchi, op. loc. cit.).

Il procedimento che fa perno sul facilitatore/esperto presenta certo qualche somiglianza con quanto si descriveva sopra; ciononostante si differenzia decisamente per la quasi totale esautorazione del Giudice, che qua partecipa, in parte, solo alla nomina dell'esperto, ivi esercitando tuttavia una competenza meramente “amministrativa”, e viene poi chiamato in causa solo eventualmente, comunque per lo più dopo che i giochi sono fatti, e sempre su istanza del debitore.

In particolare, e qua la soluzione interna diverge da quasi tutti gli altri sistemi europei, l'esperto non ha alcun obbligo di “riferire” ad alcuna Autorità (nemmeno quella che lo ha nominato): ciò da un lato lo rende forse “autonomo” verso la sfera dei poteri pubblici (“solitudine onnipotente e onnivora” per P. Liccardo, Neoliberismo concorsuale, cit.), ma dall'altro colloca la regolazione della crisi in una dimensione, come si diceva, interamente privatistica.

Il “concordatino” invece si distacca in modo evidente dall'idea della procedura ristrutturatoria “alternativa” che avevo immaginato, posto che anzi esso appare essere lo sviluppo “naturale” della procedura davanti al facilitatore, connotato da una finalità solo apparentemente “liquidatoria” (intesa come disgregazione del patrimonio aziendale).

Ad un occhio disincantato in realtà l'obiettivo del risanamento dell'azienda, perseguito attraverso la continuità diretta, non sembra davvero interessare molto il Legislatore del DL. E ciò non può non sorprendere.

D'altro canto non è plausibile pensare che nel non indifferente, ma comunque sempre breve tempo concesso alle “trattative” (così è definito infatti l'oggetto del procedimento, ed il dato non appare casuale), possa essere con successo implementata la ristrutturazione.

Il tempo è comunque poco per pensare che possa essere condotta un'analisi completa delle cause della crisi, dei fattori competitivi di cui l'impresa ancora gode, e per disegnare un action plan efficiente.

Figuriamoci se tale spazio temporale può essere sufficiente addirittura per portare a termine complesse trattative con i creditori principali: le banche non riscontreranno tempestivamente le proposte del debitore, soltanto perché una norma glielo richiede, oppure temendo una responsabilità “risarcitoria” dai confini abbastanza sfuggenti …

E dunque?

In realtà lo scopo “vero” del facilitatore, delle “trattative” e dell'intero procedimento, ed a meno che il debitore non giunga all'appuntamento con un terreno già più che “arato” alle sue spalle (mera utopia) sarà nella stragrande maggioranza dei casi quello di mediare al fine di favorire il trasferimento dell'azienda o di suoi rami a “terzi”. Questo è allora il vero oggetto delle “trattative”.

Non è un caso che il DL precisi ad ogni passo che il facilitatore può interloquire non solo con i creditori, ma anche con tutti coloro che possono essere “interessati” alla soluzione della crisi.

È questo un luogo in cui si fanno affari, con l'assistenza di professionisti che ritraggono da ciò compensi rilevanti.

Semplicemente tutto ciò avverrà lontano dagli occhi “indiscreti” del Giudice, il cui potere di moral suasion dovrebbe essere così sostituito dalla “autorevolezza” del facilitatore.

Dal Giudice si va poi successivamente, a cose fatte, per ottenere l'autorizzazione alla vendita nello stesso contesto procedimentale, ma solo se vi è il tempo, e se basta la liberatoria dai debiti in cui altrimenti il cessionario subentrerebbe ex art. 2560, comma 2, c.c.

Altrimenti, se ad es. vi fossero ipoteche od altri vincoli da cancellare, per i quali i creditori iscritti non forniscono il consenso, si darà luogo al “concordatino”, così beneficiando anche dei poteri di cui all'art.108 l.fall. (ma curiosamente non si risolve il problema del trasferimento ante omologa).

In realtà però la vendita dell'azienda “favorita” dall'esperto non sembra granché appetibile per il cessionario, posto che l'atto, benché autorizzato dal Giudice ai sensi dell'art. 10, “conserverebbe i suoi effetti”, stando all'art. 12, solo nel caso in cui si esperisca successivamente con successo una procedura, ivi compreso il “concordatino”, che quindi diverrà comunque quasi sempre necessario; anzi, chiedere l'autorizzazione potrebbe anche “rompere le uova nel paniere”, ove un Giudice troppo solerte ritenesse non provata la corrispondenza al miglior interesse dei creditori per non essere stata esperito un adeguato sondaggio del mercato, al fine di intercettare offerte migliorative (per la massa).

Con la prospettiva concreta (ove questa fosse l'interpretazione corretta) di dover quasi sempre comunque stipulare, con l'assistenza dell'esperto, in realtà soltanto un affitto dell'azienda, munito sì di impegno ad acquistare quest'ultima, ma da perfezionare poi appunto nel successivo “concordatino”.

E senza mai obblighi espressi di rendere competitivo il processo di selezione dell'acquirente, “ovviamente” .

Certo nel concordatino l'art.163 bis l.fall. viene “tradotto” in una norma che fa perno sull'Ausiliario o sul Liquidatore, ma quale sarà mai il soggetto che, ad accordi già chiusi, rischierà, nel breve arco temporale disponibile, di mandare all'aria tutto svolgendo una ricerca realmente approfondita di altri eventuali interessati? I quali ultimi peraltro saranno comunque dissuasi dall'evidente diritto di “insistenza” concesso a chi è già stato scelto per la successione.

Il “Mercato”, dunque, che dovrebbe sostituire la “Autorità”, non è solo un mito in sé (non esiste attualmente un mercato efficiente delle aziende in crisi), ma sembra essere un mito anche per le norme.

Dunque cosa sostituisce davvero la “Autorità”? In sintesi il vero fulcro delle novità legislative sta nell'enorme potere, concesso al debitore ed ai suoi consulenti, di trattare liberamente con “terzi” interessati al subentro, governando in toto il processo negoziale, al riparo da occhi indiscreti diversi da quelli (forse anche un po' invidiosi: egli è “arbitro più che artefice delle trattative” secondo F. Cesare, La nuova composizione negoziata della crisi e il concordato liquidatorio semplificato, in questo portale, 19 agosto 2021) del facilitatore.

E non è disagevole percepire come la competizione normalmente vi sarà, ma essa avrà ad oggetto la quantità delle risorse che saranno internalizzate dal soggetto economico dell'impresa in crisi (che saprà certo come manifestare ai “suoi” professionisti riconoscenza), non certo dalla Massa creditoria.

Anche le procedure “competitive”, oltre alle misure di allerta, non sono del resto mai state troppo digerite dall'imprenditoria italiana…

Peccato però che la Direttiva formulasse proposte orientate soprattutto alla continuità “diretta”, sul presupposto già ricordato per cui il soggetto economico dell'impresa, in un tessuto economico di pmi, è normalmente indissolubile dal compendio aziendale, ai fini della sua migliore valorizzazione.

Si era infatti osservato, anche con un certo stupore, come la Direttiva parlasse assai poco di continuità “indiretta”.

In realtà non è che la Direttiva non regolamenti anche la cessione dell'azienda in crisi (“sale of the business as a going concern”), ma l'obiettivo “primario” è “to rescue viable enterprises”, senza recidere il cordone ombelicale con il soggetto economico.

Questo perché la stragrande maggioranza delle imprese ubicate nel territorio dell'Unione ha natura di PMI, e per queste, caratterizzate da un avviamento quasi sempre “soggettivo”, self made generated, l'obiettivo della negoziazione del compendio risulta quasi sempre assai arduo.

Dunque come si concilia la funzione dell'intervento regolatorio con la ostentata finalità di attuare la Direttiva? E a chi e a cosa serve davvero il DL?

Il vero tradimento della Direttiva: perché mai dovrei correre dal facilitatore? Inversione ad “U” sulla strada della “prevenzione” della crisi

Ma in ogni caso, cosa dovrebbe assicurare, in questo mini-sistema, la “precocità” della soluzione regolatoria rispetto allo stesso insorgere della crisi? Obiettivo questo, anch'esso collocato sicuramente in primissimo piano dalla tanto sbandierata Direttiva.

Non certo i soli strumenti di cui all'art. 2086, comma 2, c.c., vero “boccone amaro” che l'imprenditoria italiana ha dovuto ingoiare, in forza della quasi profetica scelta di far entrare in vigore la norma contestualmente alla promulgazione del CCII. Ma anche obblighi che stanno influenzando pochissimo di fatto i comportamenti, dato che ogni tentativo concreto di implementazione, anche a livello professionale, stava in realtà attendendo l'implementazione del sistema degli “indici/indicatori” dell'allerta.

E nemmeno la un po' goffa introduzione di un ennesimo concetto oggettivo: il pericolo del pericolo di insolvenza, leggi: pericolo di crisi.

E adesso anzi, grazie anche alle norme che hanno allentato ogni dovere reattivo ed organizzativo a causa dell'evento pandemico, occorreranno molti anni, prima che possano essere le condanne in sede giurisprudenziale ad esercitare una qualche “pressione”.

E francamente, temo, neppure gli incentivi di cui all'art. 14 DL, che peraltro sono persino condizionati dal futuro successo della soluzione regolatoria intrapresa (col risultato che essi si risolvono in un beneficio per il soggetto economico se il tentativo di quest'ultimo riesce, ed in uno svantaggio per i creditori se invece egli fallisce).

Non è dato altrimenti saperlo, e stupisce che la vera “ossessione” che pervade la Direttiva sia stata tenuta così poco in considerazione da chi quel testo normativo asseriva di voler brandire.

Perché le segnalazioni dell'organo di controllo interno (art. 15), la cui apparente (e questa sì stucchevole) affermazione di doverosità suona quasi canzonatoria, in relazione alla loro natura ormai “ovvia” (che ovvia è proprio in forza della metabolizzazione dei canoni del CCCII: v. supra), sono rivolte rigorosamente al solo organo amministrativo, e nessun potere di intervento di ufficio è ovviamente dato nemmeno all'organizzazione cui appartiene il “facilitatore”.

Col risultato che, ancora una volta, e proprio come capita adesso, sarà il mero potere del creditore di instare per il fallimento la sola “pressione” che incomberà sull'imprenditore affinché egli chieda il “soccorso” del facilitatore; soccorso che, fino a che rimane riservato, in teoria non rende improseguibile l'istruttoria prefallimentare (ma quale sarà il Tribunale fallimentare che non rinvierà l'udienza in attesa che, o a maggior ragione dopo che l'esperto avrà preso atto dell'esistenza delle “possibilità” di ristrutturazione?), ma che l'imprenditore può comunque rendere ad libitum “scudo spaziale” soltanto rendendo pubblica l'iniziativa (con ciò arrestando anche, unilateralmente, l'applicazione del combinato disposto sul “ricapitalizza o liquida”), anche se in tal modo egli è costretto ad “attivare” anche il tanto temuto “Cerbero” giurisdizionale; ma del tutto inaspettatamente, in quest'ultima evenienza, e con soluzione (art. 6, comma 4) che non sembra davvero compatibile con gli artt. 6 e 7 della Direttiva, persino se quelle misure decadono, o vengono revocate, la impossibilità di dichiarare il fallimento permarrebbe sino a che le “trattative” mediate dall'esperto/facilitatore proseguono (magari anche dopo il decorso del termine semestrale, col consenso di tutte le parti, ai sensi dell'art. 5, comma 7?).

Sarà comunque possibile, poiché solo la sentenza non può essere emessa, emettere provvedimenti cautelari ai sensi del comma 8 dell'art. 15 l.fall., sul presupposto della implausibilità di un esito positivo delle trattative? Mi sembra che la logica di fondo circa il mantenimento del debitore “in possession” cozzi contro la funzionalizzazione delle norme esistenti alla tutela “primaria” del credito.

Lo “scudo spaziale” affidato al debitore indubbiamente lascia sconcertati, anche se è evidente che lo spauracchio della declaratoria fallimentare, in pendenza delle trattative, soprattutto ove il Tribunale non rigetti subito nel merito l'istanza, potrebbe creare seri ostacoli al proseguimento delle trattative.

Ma altrettanto singolare è la scelta (apparente) di consentire l'ingresso alle trattative anche alle imprese già insolventi, posto che in senso contrario si esprimono diversi commentari alla Direttiva (cfr. ancora R. Dammann, op. cit., 42).

Sul punto la lettera della Legge non sembra chiarissima, anche se l'opinione dei primi commentatori sembrerebbe orientata in tal direzione.

E qua mi si lasci dire, e lo dico soprattutto ai signori aziendalisti, che persino il “povero” giurista con solo qualche buona lettura di economia aziendale al suo attivo ha ormai capito da tempo che non esiste ontologicamente un'insolvenza in sé “irreversibile”, posto che è la possibilità di risanare l'impresa a fare la differenza, e questa dipende solo dalla disponibilità nel caso concreto di strumenti idonei a tale scopo (fra i quali l'immissione di nuove risorse).

Ma il motivo per cui si riteneva opportuno bloccare l'accesso a tali strumenti “libertari” alle imprese insolventi giaceva e giace proprio nell'opportunità di incentivare un ingresso “precoce” appunto; dunque una logica di diritto, anzi di analisi economica del diritto, non di economia aziendale; ed una logica come si diceva che “permea” l'intero impianto della Direttiva.

D'altro canto, il fallimento dell'attività del facilitatore non è destinato a conseguire alcuna “canalizzazione” dell'imprenditore verso il circuito della liquidazione o comunque della regolazione concorsuale “coatta”.

Da un lato la chiusura del procedimento sembra condizionata al solo riscontro da parte dell'esperto della insussistenza (parrebbe anche sopravvenuta) di possibilità concrete di risanamento, e non anche al mero compimento di atti di gestione pregiudizievoli per i creditori, persino se essi siano stati oggetto di “dissenso” da parte del facilitatore (se comunque, almeno così parrebbe, le opportunità ristrutturative oggettivamente persistono, anche in chiave di ricollocamento del compendio), oppure alla constatata omessa collaborazione del debitore (argg. ex artt. 4, 5 e 9 DL).

Dall'altro l'archiviazione del procedimento condotto dall'esperto si esaurisce comunque in sé stessa, laddove il solo imprenditore e gli altri legittimati (fra i quali invero anche il PM, il quale tuttavia non è ovviamente qua destinatario di alcuna comunicazione istituzionale, sicché è assai difficile che egli possa autonomamente attivarsi, se non a fronte di casi di grande impatto mediatico) sono depositari del successivo potere di iniziativa.

E questo d'altro canto era proprio quello che si voleva evitare, anche se per fare questo si è presa la strada “più lunga”.

Conclusioni

Ma dunque era solo lo “spettro” dello “scivolo inclinato” verso il Tribunale e la Procura della Repubblica a dissuadere l'imprenditore dall'impegnarsi “precocemente” nella regolazione della sua crisi?

Assolutamente no, ovviamente, perché non si saprebbe altrimenti dove collocare intere biblioteche economiche di indirizzo “comportamentale”, impegnate nel descrivere le innumerevoli ritrosie anche psicologiche dell'imprenditore nel prendere addirittura conoscenza della gravità dei propri squilibri.

E la Direttiva vuole forse comunque la “fuga” dai Tribunali?

Assolutamente no, ovviamente, posto che le soluzioni meramente “stragiudiziali” sono ivi presentate come facoltizzate ed eventuali da un lato, id est condizionate alla ricorrenza di “specifiche circostanze” (cfr. sul punto INSOL Europe Guidance Note on the implementation of Preventive Restructuring Frameworks under EU Directive 2019/1023. Procedural features, November 2020, 8 s.; R. Dammann, op. cit., 41 ss.), e comunque mai, parrebbe, esclusive, né tantomeno auspicabili ove il debitore sia già “insolvente”.

D'altro canto una simile visione del diritto concorsuale non sarebbe mai stata suscettibile di adesione da parte di paesi come la Germania, che nemmeno a seguito del CoVid, e chissà perché, ha rinunciato a presidiare fortemente, in senso anche pubblicistico, le procedure regolatorie.

Ma sorprendente è comunque anche la sua adozione in un paese e per un sistema economico come il nostro, pervaso da conflitti di interesse ed asimmetrie informative “endemici”, e sprovvisto di mercati efficienti e trasparenti.

In sintesi, il DL non sembra perseguire in modo diretto alcun obiettivo primario fatto proprio dalla Direttiva od altrimenti connesso alle esigenze di reazione al Covid.

È funzionale piuttosto ad un disegno consapevole ed organico di “liberazione” del diritto della crisi dal concetto di “Autorità”, di ampiezza e portata inusitate (cfr. L. Bottai- A. Pezzano, Come (provare) a salvare le (sole) imprese meritevoli: i due aa. non sono certo distanti dalle aspirazioni “liberistiche”, ma si noti come l'espunzione dell'Autorità dall'ordinamento concorsuale successivo al DL raggiunga livelli “insospettabili” anche per essi, la cui proposta (l'”accordo di moratoria emergenziale” – AME, era molto meno “dirompente” e più equilibrato).

Fu dunque controriforma? Assolutamente sí. Proprio come, chissà perché, si temeva (e di “restaurazione contro-riformista” parla opportunamente, commentando il D.L., F. Lamanna, op. loc. cit.).

D'altro canto quando un movimento reazionario sostituisce il suo assetto di valori all'esistente, non è frequente che semplicemente si “torni al passato”: più probabilmente il nuovo assetto costituirà un mix di soluzioni, alcune vetuste ed altre inesplorate ad esigenze tanto vecchie quanto nuove.

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