Sulla responsabilità del magistrato di ultima istanza per omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia
07 Settembre 2021
Massima
La questione relativa all'assoggettabilità (necessaria o meno) al procedimento speciale previsto dalla l. 117/1988 delle azioni in cui la responsabilità dedotta in giudizio riguarda la violazione del diritto dell'Unione, con particolare riferimento all'obbligo del giudice di ultima istanza di provvedere al rinvio pregiudiziale, esige un pronunciamento della Corte nella sua più tipica espressione di organo della nomofilachia; si versa, invero, in questione di massima di particolare importanza, in ragione, sia degli assai incidenti (ed immediatamente percepibili) riverberi di natura pratico-applicativa che da essa scaturiscono, sia dell'importanza delle decisioni della Corte di Giustizia che hanno indotto il legislatore a modificare la l. 117/1988. Il caso
La società Alfa, una volta conclusisi i due giudizi davanti alla Corte di cassazione con sentenze del 02 e del 07 luglio del 2004 in cui era stata parte, con atto di citazione notificato il primo luglio del 2006 ed iscritto a ruolo il 10 luglio del 2006 conveniva lo Stato italiano davanti al Tribunale di Firenze per sentire accertata e dichiarata la sua responsabilità civile ai sensi della l. 117/1988. Essa deduceva, in particolare, che i magistrati della Corte di cassazione - nell'ambito di un contenzioso da essa intrapreso avente ad oggetto la ritenuta non decadenza dell'imposta erariale prevista dalla l. 986/1964, con riferimento all'importazione di banale dalla Somalia, secondo la sua prospettazione contrastante col diritto unionale - quale organo giurisdizionale di ultima istanza, sollevato questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea ai sensi dell'art. 234, comma 3, del Trattato Istitutivo della Comunità Europea. Il Tribunale di Firenze adito, dopo avere sollevato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, rigettava la domanda attorea. Avverso tale sentenza la società Alfa proponeva gravame innanzi alla Corte d'appello fiorentina la quale, dopo aver dichiarato la nullità della sentenza impugnata per violazione del diritto di difesa ai sensi degli artt. 24 e 111 Cost., decideva nel merito la controversia, accogliendo l'eccezione, oggetto dell'appello incidentale proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, di decadenza dall'azione risarcitoria proposta ai sensi della l. 117/1988 e dichiarava pertanto inammissibile la domanda risarcitoria. Secondo la Corte d'appello di Firenze, infatti, la tempestività della proposizione dell'azione di risarcimento dei danni per la responsabilità civile dei magistrati della Corte di Cassazione va verificata, con riferimento al «dies a quo» della data della pubblicazione della sentenza della Suprema Corte, non già avuto riguardo al momento della notificazione dell'atto di citazione, bensì di deposito dello stesso (già notificato), deposito che nella fattispecie concreta aveva avuto luogo oltre il termine biennale di cui all'art. 4, comma 2, della l. 117/1988 «ratione temporis» applicabile. La società Alfa proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d'appello di Firenze articolato su due motivi di doglianza. In particolare, con il secondo motivo di impugnazione la società ricorrente lamenta l'illegittimità – in chiave costituzionale e comunitaria - dell'art. 4, comma 2, della l. 117/1988 nell'interpretazione che di tale norma è stata fornita dalla Corte d'appello fiorentina e dalla Suprema Corte in altre occasioni. Secondo la sua prospettazione, infatti, tale interpretazione sarebbe sospetta di incostituzionalità ed anticomunitarietà perchè sostiene che l'azione risarcitoria per la responsabilità civile dello Stato italiano a causa di violazione di norme dell'Unione Europea, ricollegabile all'omesso rinvio pregiudiziale alla CGUE ad opera di un organo giurisdizionale di ultima istanza, andrebbe proposta con ricorso entro il termine decadenziale di cui all'art. 4, comma 2, della l. 117 /1988, in tal modo non assicurando il diritto di matrice costituzionale e sovranazionale ad un accesso effettivo al giudice ai sensi degli art. 24 della Carta Costituzionale e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (e degli speculari artt. 6 e 13 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), ponendosi così anche in frizione con i principi di proporzionalità, effettività e certezza del diritto. La Terza Sezione Civile della Corte di cassazione, investita del ricorso, in considerazione della particolare importanza della questione di massima, tanto per le sue ricadute applicative, tanto per la portata delle decisioni della Corte di Lussemburgo che hanno riguardato nel tempo la disciplina italiana della responsabilità civile dei magistrati, ha rimesso gli atti al Primo Presidente affinché valuti l'opportunità di sottoporre la questione al vaglio delle Sezioni Unite. La questione
L'ordinanza interlocutoria in esame ha ad oggetto una questione di grande complessità e di rilevante importanza non solo sul terreno processuale del diritto interno, ma anche su quello, più sullo sfondo, dei rapporti tra lo Stato italiano e le norme dell'Unione Europea, ovvero quella della necessità di assoggettare oppure no al procedimento speciale previsto dalla l. 117/1988 (che regola la responsabilità civile dei magistrati) le azioni in cui la responsabilità dedotta in giudizio riguarda la violazione di norme comunitarie. Segnatamente, il problema che la Terza Sezione della Cassazione Civile è chiamata a risolvere è quello del se, per il caso in cui un soggetto invochi la responsabilità civile dello Stato italiano ponendo a fondamento della domanda risarcitoria la violazione manifesta del diritto dell'Unione Europea – nella fattispecie, violazione consistente nell'omesso adempimento all'obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea da parte dei giudici della Suprema Corte, quale organo giurisdizionale di ultima istanza -, tale azione di responsabilità sia soggetta alle ordinarie norme procedurali vigenti in Italia per la proposizione di una domanda di risarcimento dei danni, oppure debba rispettare le regole speciali previste dalla l. 117/1988 per la responsabilità civile dei magistrati e, per ciò che qui rileva, la proposizione con ricorso (per i giudizi instaurati anteriormente alle modifiche apportate dalla l. 18/2015) ed il rispetto dei termini decadenziali di cui all'art. 4, comma 2, della suddetta legge (ovvero di due o tre anni dal momento in cui l'azione è esperibile, a seconda che si applichi tale disposizione nella formulazione anteriore o successiva alla riforma del 2015). In particolare, secondo la tesi della società ricorrente, nel caso di azione di responsabilità per violazione del diritto unionale da parte dello Stato italiano – ancorché per il tramite dell'esercizio della funzione giurisdizionale ad opera dei magistrati – essa andrebbe proposta con le regole di un giudizio «ordinario» di responsabilità, eventualmente secondo la disciplina di cui all'art. 4 della l. 117/1988, interpretata però nel senso che l'azione può essere esercitata indifferentemente con ricorso o con citazione; con il risultato pratico, di non poco momento, che laddove l'azione venga introdotta mediante atto di citazione, il rispetto del termine decadenziale biennale di cui all'art. 4, comma 2, della legge «Vassalli» (nella formulazione applicabile al caso in esame) e, dunque, la tempestività della stessa, andrebbe verificata non già avuto riguardo al momento dell'iscrizione della causa a ruolo e, dunque, del deposito dell'atto di citazione notificato in cancelleria, bensì con riferimento alla data di notificazione dell'atto di citazione. Nella pronuncia in oggetto la Corte di cassazione ha ripercorso le tappe della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea rilevando come, a più riprese, i giudici di Lussemburgo (CGUE, 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, «Brasserie du pecheur» e «Factortame»; CGUE 19 Settembre 1991, C-6/90 e C-9/90, «Francovich») hanno sancito il principio per cui gli Stati membri hanno l'obbligo di riparare i danni causati ai singoli per le violazioni delle norme comunitarie che siano loro imputabili, e ciò anche laddove la violazione derivi da una decisione proveniente da un organo giurisdizionale di ultimo grado (CGUE, 30 settembre 2003, C-224/01 «Kobler»). Tuttavia, rileva la Suprema Corte, la pronuncia «Kobler», pur avendo stabilito che anche la decisione di un organo giurisdizionale di ultima istanza – quale è, appunto, la Corte di Cassazione in Italia – può essere foriera di una responsabilità dello Stato membro, non ha specificato se in tal caso l'azione risarcitoria debba soggiacere alle regole «ordinarie» per che regolano la violazione di norme dell'Unione Europea commesse da altri organi e poteri dello Stato (cioè dello Stato-legislatore e dello Stato-amministrazione) oppure no. La Corte di Lussemburgo in quella occasione si è limitata a ribadire che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali per accedere alla tutela risarcitoria per le violazioni del diritto dell'Unione Europea non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento. Successivamente la Corte di Giustizia dell'Unione Europea è intervenuta con due pronunce sullo specifico tema qui di interesse. La prima, quella del 13 giugno 2006 («Traghetti del Mediterraneo c. Italia») ha stabilito che il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale, quale quella italiana, che esclude radicalmente e generalmente, la responsabilità dello Stato membro per i danni cagionati ai singoli da violazione del diritto dell'Unione Europea imputabile ad un organo giurisdizionale di ultima istanza perché la violazione deriva dall'interpretazione di norme giuridiche o dalla valutazione di fatti e prove. Con la seconda decisione, del 24 novembre 2011, C-379/10 («Commissione Europea c. Repubblica italiana») la Corte di Lussemburgo ha poi sancito che lo Stato italiano, in relazione alla normativa delineata dall'art. 2 della l. 117/1988, nella parte in cui da un lato limita la responsabilità civile dei magistrati ai casi di dolo e colpa grave, e dall'altra esclude qualsiasi forma di responsabilità per l'interpretazione delle norme di diritto e per la valutazione del fatto e delle prove, non è in grado di dimostrare che in caso di violazione del diritto comunitario da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, quando la violazione scaturisce dall'interpretazione delle norme di diritto o dalla valutazione del fatto e delle prove, questo costituisce un semplice limite della responsabilità e non invece un aspetto preclusivo della stessa. A fronte di questi due arresti interpretativi della CGUE ed all'apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione dell'UE lo Stato italiano è quindi intervenuto con la l. 18/2015 a modificare l'impianto originario della l. 117/1988 che regolamenta la responsabilità civile dei magistrati nel nostro ordinamento. Ad ogni modo, sottolinea la Terza Sezione della cassazione Civile, gli interventi interpretativi della Corte di Giustizia dell'Unione Europea non hanno mai riguardato le norme interne dello Stato italiano dal punto di vista processuale non avendo essa, di fatto, mai imposto, in caso di violazione di norme comunitarie, l'adozione da parte dell'Italia di strumenti di tutela autonomi rispetto a quelli già previsti per la responsabilità dei magistrati. In questo quadro composito di norme interne e pronunce di derivazione sovranazionale si pone, quindi, il fulcro del problema sta nel capire se, stante l'inscindibilità tra la violazione delle norme del diritto unionale e l'esercizio dell'attività giurisdizionale, debbano valere oppure no le regole «speciali» che governano, appunto, la responsabilità dei magistrati contenute nella l. 117/1988, allorquando il singolo si dolga di avere subito un pregiudizio a causa della violazione di norme comunitarie da parte dello Stato italiano a causa dell'esercizio dell'attività giurisdizionale, ravvisabile in concreto nell'omesso rinvio pregiudiziale alla CGUE ad opera di un organo di ultima istanza (i.e.: la Corte di cassazione), rinvio ritenuto obbligatorio dalla stessa Corte di Giustizia. La particolarità della tematica, osserva la Suprema Corte, risiede proprio nel fatto che in questo caso la responsabilità dello Stato italiano per l'esercizio dell'attività giurisdizionale riguarda anche la violazione del diritto comunitario; con l'ulteriore dato, rilevante, che in questo caso viene invocata la responsabilità dello Stato e non quella personale ed individuale del giudice. Nella prospettiva di addivenire ad una soluzione della problematica sottoposta alla sua attenzione che sia compatibile con il diritto inviolabile di difesa e con la necessità di assicurare l'effettività della tutela in caso di violazione di norme unionali, la Corte di cassazione evidenzia che l'intervento novellatore della l. 18/2015 ha comportato l'inserimento, nel corpo della l. 117/1988 - al fine di adeguare la legislazione italiana al «dictum» delle pronunce della CGUE – all'art. 2, comma 3, della previsione per cui costituisce «colpa grave» la violazione manifesta del diritto dell'Unione Europea; e che, onde valutare l'accertamento della violazione, occorre tenere conto del grado di chiarezza e precisione delle norme violate, e «della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonchè del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell'Unione europea» (art. 2, comma 3-bis). In questo modo il legislatore ha manifestato la volontà di non distinguere in alcun modo, dal punto di vista della disciplina applicabile, la responsabilità civile dei magistrati per violazione di norme interne e quella per violazione di norme dell'Unione Europea, assoggettando anche quest'ultima ipotesi alla «lex specialis» di cui alla l. 117/1988 e, quindi, al termine decadenziale ivi previsto. Rispetto a tale scelta legislativa, però, sottolinea la Suprema Corte, si staglia l'interpretazione che la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha fornito del problema: quest'ultima, infatti, individua la responsabilità dello «Stato-giudice» non già come collegata alla responsabilità del singolo magistrato, persona fisica, bensì da essa sganciata, connessa al solo dato, oggettivo, della violazione da parte dello Stato membro di norme di derivazione sovranazionale. Visto sotto quest'angolo visuale, dunque, secondo la CGUE l'illecito comunitario costituisce sempre e comunque un illecito degli Stati membri considerati nel loro complesso, per cui ad esso non possono estendersi i limiti posti a presidio dell'indipendenza del singolo magistrato quale persona fisica. L'illecito «comunitario» è quindi un illecito riferibile allo Stato e non al magistrato, con la conseguenza pratica che non deve necessariamente sottostare alle regole (sostanziali e procedurali) della l. 117/1988 che governano, appunto, la responsabilità civile dei giudici. La scelta del legislatore italiano del 2015 di unificare «quoad legem» le norme che governano la responsabilità dello Stato per attività giurisdizionale dei magistrati sia per il caso in cui essi incorrano in violazione di norme interne, sia di norme unionali, si pone quindi in contrasto con la ricostruzione della Corte di Lussemburgo che, invece, considera l'illecito degli Stati membri per la violazione di norme comunitarie come una forma «autonoma» di illecito, basata sul mero dato obiettivo della inosservanza di norme dell'UE (nei termini individuati dalla giurisprudenza comunitaria), ma pur sempre riconducibile allo Stato nel suo complesso, senza alcun riferimento al singolo giudice persona fisica. Nell'ottica sovranazionale, dunque, l'illecito comunitario c.d. «giudiziario» (poiché scaturente dall'esercizio della funzione giurisdizionale) non potrebbe essere assoggettato alle regole di rito ed ai limiti previsti a livello nazionale dalla l. 117/1988. In questo senso, occorre verificare se la semplice applicazione delle regole procedimentali di cui alla l. 117/1988 (quanto alle modalità di introduzione del giudizio con ricorso per le cause soggette alla normativa «ante» riforma del 2015 ed alla verifica della tempestività dello stesso) anche al caso di azione di responsabilità proposta contro lo Stato italiano per violazione di norme dell'Unione Europea «sub specie» di mancato assolvimento dell'obbligo giuridico di rinvio pregiudiziale da parte dell'organo giurisdizionale di ultima istanza sia compatibile con il diritto unionale e con l'interpretazione che di essa ha offerto negli anni la Corte di Giustizia dell'Unione Europea; oppure se esse necessitino di un'interpretazione «correttiva», che ponga la disciplina speciale prevista per la responsabilità civile dei magistrati in linea con il rispetto dei principi e valori sovranazionali. La Terza Sezione Civile giunge quindi – avendo la società ricorrente sollecitato anche il rinvio pregiudiziale alla CGUE per valutare la compatibilità comunitaria del procedimento di cui alla l. 117/1988 con la modalità di introduzione con ricorso e con il rispetto del termine di decadenza - a soffermarsi sugli orientamenti formatisi in seno alla medesima Corte di Cassazione sul punto, concludendo per l'opportunità di un vaglio nomofilattico della «quaestio iuris» a Sezioni Unite, così da assicurare un'interpretazione unitaria del problema, attese le significative ripercussioni pratiche derivanti dalla soluzione dello stesso. Le soluzioni giuridiche
In ordine alla questione affrontata dall'ordinanza che si commenta si sono formati tre orientamenti giurisprudenziali. Una prima impostazione (così Cass. civ., n. 16935/2002; Cass. civ., n. 932/2017; Cass. civ., n. 17037/2018) partendo dalla mera verifica della compatibilità della l. 117/1988 con le istanze di tutela dei cittadini, senza valutare il problema nella prospettiva del diritto comunitario, considera la responsabilità civile dello Stato italiano per l'attività giurisdizionale dei magistrati senza distinguere a seconda che essa si risolva concretamente nella violazione di norme di diritto interno oppure dell'Unione Europea. In questo modo, dunque, basandosi sul mero dato normativo di cui all'art. 5 della l. 117/1988 vigente prima della sua abrogazione operata con la riforma della l. 18/2015, la Suprema Corte ritiene che la domanda di responsabilità civile dei magistrati vada proposta mediante ricorso, essendo questo l'unico strumento compatibile con il filtro di ammissibilità della domanda, improntato a celerità e sommarietà, nonché considerato che in questo caso il Tribunale decide in camera di consiglio, ipotesi in cui a norma dell'art. 737 c.p.c. il giudice viene investito della decisione, appunto, con ricorso. La ricaduta pratica di tale ricostruzione è, dunque, che la tempestività dell'azione risarcitoria va verificata in relazione al momento del deposito del ricorso in cancelleria, per cui laddove il giudizio sia stato introdotto erroneamente con citazione, il termine decadenziale andrà valutato con riferimento non già al momento della sua notificazione, bensì della sua iscrizione a ruolo. Secondo un'altra ricostruzione (Cass. civ., n. 258/2017), pur dovendosi prendere in considerazione la «causa petendi» della domanda risarcitoria nei confronti dello Stato italiano per la responsabilità civile dei magistrati – e cioè se essa si basi sulla violazione di norme interne o dell'Unione Europea -, anche nella vigenza della l. 117/1988 nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla novella del 2015, non è possibile configurare un «doppio binario» di tutela a seconda che venga invocata la violazione, nell'ambito dell'esercizio dell'attività giurisdizionale, di norme interne o comunitarie, atteso che una siffatta tesi è ben compatibile con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea sul punto. Secondo tale orientamento, infatti, le pronunce della Corte di Lussemburgo, pur avendo a più riprese stigmatizzato la legislazione italiana per non contemplare tra le ipotesi che costituiscono fonte di responsabilità civile dei magistrati la violazione di norme dell'UE da parte di organi giurisdizionali di ultima istanza, non hanno mai affermato che il rito e la disciplina di cui alla l. 117/1988 siano in contrasto con i principi di effettività e di equivalenza del diritto comunitario. In questo modo, dunque, sia per le cause soggette alla disciplina della l. 117/1988 prima delle modifiche apportate con la l. 18/2015, sia per quelle soggette alla normativa come novellata, nel caso in cui si invochi la responsabilità civile dello Stato italiano per violazione del diritto unionale ad opera di organi giurisdizionali – finanche di ultima istanza – si applicano le regole di rito di cui alla legge «Vassalli», non potendosi distinguere a seconda che l'illecito «giudiziario» sia connesso alla inosservanza di norme interne o comunitarie. Ciò posto, prosegue quest'orientamento, la scelta del legislatore nel 2015 di equiparare le ipotesi di responsabilità civile per violazione di norme interne e dell'Unione Europea in caso di esercizio dell'attività giurisdizionale esclude la possibilità, anche per le controversie soggette alla l. 117/1988 nella sua formulazione originaria, che esse debbano seguire la disciplina dell'azione ordinaria di responsabilità di cui all'art. 2043 c.c. Né tantomeno, osserva quest'impostazione, la mera previsione del termine decadenziale di cui all'art. 4, comma 2, della l. 117/1988 per la proposizione dell'azione di responsabilità civile dello Stato italiano per illecito dei magistrati, si pone in contrasto con i principi di effettività del diritto comunitario e di equivalenza delle situazioni di matrice interna e sovranazionale, poiché il termine attualmente (e precedentemente biennale) di decadenza appare «ragionevole». La sua decorrenza, infatti, scatta dopo il previo esperimento di tutti gli ordinari mezzi di impugnazione, assicurando così un periodo di tempo più che ragionevole e sufficiente per valutare la sussistenza dei presupposti della responsabilità nel caso concreto, oltre ad essere l'apposizione di un termine decadenziale espressione del principio della ragionevole durata del processo. Questi due orientamenti, pur muovendo da una prospettiva teorica diversa (la mera compatibilità del ricorso quale modalità introduttiva dell'azione di responsabilità civile dei magistrati con il diritto di difesa piuttosto che l'armonia di tale impianto normativo con il rispetto dei principi sovranazionali di effettività e di equivalenza), giungono alla medesima conclusione: anche nel caso in cui venga invocata a sostegno dell'azione di responsabilità proposta contro lo Stato italiano la violazione delle norme dell'Unione Europea da parte degli organi giurisdizionali, l'azione va comunque proposta con ricorso (per le controversie, quale quella oggetto del procedimento al vaglio della Terza Sezione Civile, soggette alla disciplina di cui alla l. 117/1988 anteriore alle modifiche apportate dalla novella del 2015) ed il termine decadenziale ex art. 4, comma 2, va valutato in relazione alla data di deposito dello stesso in Cancelleria. Con il risultato che la tardività del deposito dello stesso oppure dell'atto di citazione previamente notificato incide in termini di decadenza dall'azione risarcitoria, potendosi, al più, sanarne gli effetti sostanziali e processuali in forza del disposto dell'art. 4, comma 5, del d.lgs. 150/2011; soluzione, questa, però, ritenuta non condivisibile dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. civ., n. 17037/2018) in quanto tale norma vede il suo raggio di operatività limitato dall'art. 4, comma 1, alle sole controversie «previste nel presente decreto», da cui esulano quelle di cui alla l. 117/1988. Un terzo orientamento (espresso da Cass. civ., n. 27690/2018), invece, affonda le sue radici in due argomenti. Il primo è che la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha sì ritenuto compatibili con il diritto comunitario i limiti previsti dalla legislazione italiana per la responsabilità civile dei magistrati a garanzia dell'indipendenza nell'esercizio della funzione giurisdizionale, ma li ha comunque considerare «eccezionali» (e, dunque, da interpretare restrittivamente). Il secondo sta nel fatto che accogliere la diversa ricostruzione, che equipara la responsabilità civile dei magistrati derivante da violazione di norme interne a quella delle norme comunitarie, «finirebbe con il rendere evanescente la stessa responsabilità dello Stato legislatore, rendendo praticamente impossibile distinguerla da quella dello Stato amministratore o dello Stato giudice». Secondo questo filone ermeneutico, dunque, occorre prendere le mosse dalla «causa petendi» posta a fondamento dell'azione di responsabilità civile proposta contro lo Stato italiano: di talchè, qualora la domanda rinvenga il suo fondamento nella violazione manifesta del diritto dell'Unione Europea (ravvisabile laddove la norma dell'Unione Europa sia sufficientemente chiara e precisa e la violazione presenti il connotato dell'inescusabilità), ancorché consumata da parte di un organo giurisdizionale – se del caso anche sotto forma di omesso rinvio pregiudiziale alla CGUE ad opera di un giudice di ultimo grado -, allora essa non soggiace alle regole procedurali (quanto alle modalità di introduzione ed ai termini decadenziali) sanciti dalla l. 117/1988, bensì alle «ordinarie» regole che governano la responsabilità civile, come tale suscettibile di essere introdotto con qualsiasi forma (ricorso o citazione). Con il risultato pratico – che secondo la Terza Sezione potrebbe trovare un parametro interpretativo nell'art. 4, comma 5, del d.lgs. 150/2011, che sancisce la regola tendenziale della irrilevanza dell'errore sul rito, di poter prendere in considerazione, laddove il giudizio di responsabilità sia stato instaurato con citazione, ai fini della tempestività, la data di notificazione della stessa e non quella di deposito dell'atto introduttivo in cancelleria. Osservazioni
L'ordinanza in commento pone all'attenzione dell'interprete una serie di questioni di primaria importanza nell'ambito dell'attuale scenario ordinamentale, e ciò sia in una prospettiva prettamente teorica, sia in una eminentemente pratica. In particolare, la questione sottoposta al vaglio della Terza Sezione Civile – e di cui questa ha disposto la trasmissione al Primo Presidente della Corte di cassazione affinché valuti l'opportunità di un intervento nomofilattico a Sezioni Unite – concerne, infatti, dal punto di vista teorico, la problematica, ormai all'attenzione della giurisprudenza interna da vari anni, della responsabilità dello Stato italiano per violazione delle norme dell'Unione Europea, ed in particolare nel peculiare ambito della responsabilità derivante da violazione di norme unionali commessa nell'esercizio della funzione giurisdizionale (a sua volta governata dalla «lex specialis» di cui alla l. 117/1988 per contemperare il diritto di difesa con la necessità di assicurare l'indipendenza dei magistrati ed il sereno esercizio dell'attività giurisdizionale). In questo senso la Terza Sezione Civile nella pronuncia in esame non pare aggiungere alcun elemento di novità, limitandosi a ripercorrere il lungo «iter» pretorio della Corte di Giustizia dell'Unione Europea a far data dalle storiche pronunce «Brasserie du Pecheur», «Factortame» e «Francovich», in cui sono stati elaborati gli oramai consolidati concetti di «illecito comunitario» e di responsabilità diretta degli Stati membri verso i singoli per violazione di norme unionali. L'ordinanza pare invece di sicuro interesse allorquando si si interroga, sia pure senza offrire una soluzione sul punto, circa la possibilità di distinguere, ai fini dell'applicabilità oppure no della disciplina speciale contenuta nella l. 117/1988, tra una responsabilità civile dello Stato per violazione del diritto comunitario unitaria e monolitica, cioè tale a prescindere che essa sia concretamente riconducibile alla funzione legislativa (Stato-legislatore), amministrativa (Stato-amministratore) o giurisdizionale (Stato-giudice) ed una responsabilità al contempo «giudiziaria» e «comunitaria» che segue un binario normativo suo proprio, quello appunto delineato dalla legge «Vassalli». Con maggiore impegno esplicativo, dunque, il fulcro della questione risiede nella circostanza che la tematica posta all'attenzione della Sezione rimettente ha ad oggetto un'ipotesi doppiamente peculiare, quella cioè dell'illecito compiuto dallo Stato italiano per violazione di norme dell'Unione Europea (dotato di regole sue proprie elaborate proprio dalla CGUE ed improntato ai principi di effettività ed equivalenza) e commesso per il tramite dell'attività giurisdizionale (a sua volta regolata dalla l. 117/1988, espressione di un difficile equilibrio tra necessità di assicurare una tutela effettiva ai soggetti che si assumono danneggiati e di non invadere la sfera di indipendenza della magistratura). Sotto questo aspetto, appaiono evidenti i contrapposti interessi in gioco: da un parte la primazia del diritto dell'Unione Europea e la necessità di assicurare la sua effettività nell'ordinamento interno, nonché l'equivalenza della tutela delle situazioni giuridiche soggettive di derivazione sovranazionale con quelle di scaturigine interna e, dall'altra, la necessità di assicurare quei limiti alla responsabilità civile dei magistrati, tratteggiati appunto dalla l. 117/1988, al fine di assicurare a questi ultimi di svolgere l'attività giurisdizionale con la serenità di giudizio che attua a sua volta la guarentigia costituzionale di indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.). Così, laddove si ritenga, come fatto dal «terzo» orientamento della Suprema Corte indicato nell'ordinanza di rimessione, che il rispetto dei principi di primazia ed effettività del diritto dell'Unione Europea e di equivalenza delle tutele costituiscano un valore preminente, da tutelare ad ogni costo, anche laddove la violazione del diritto unionale trovi il suo fondamento nell'esercizio dell'attività giurisdizionale, allora la relativa azione risarcitoria, ancorché avente ad oggetto la responsabilità civile dei magistrati, fuoriuscirà dall'area delle regole procedurali speciali, «ad hoc» di cui alla l. 117/1988 (quanto alla modalità di introduzione con ricorso per le azioni proposte prima della vigenza della l. 18/2015 ed al rispetto dei termini decadenziali di cui all'articolo 4, comma 2, della legge «Vassalli»), per rientrare nell'alveo di un'azione «ordinaria» di risarcimento dei danni, nel paradigma generale della responsabilità aquiliana di cui all'art. 2043 c.c. per violazione del «neminem laedere». Con il risultato applicativo che le azioni di risarcimento dei danni proposte contro lo Stato italiano per violazione del diritto dell'Unione Europea connesse all'esercizio dell'attività giurisdizionale possono essere proposte («ante» riforma del 2015) sia con ricorso che con citazione e non sarebbero soggette ai termini decadenziali previsti dalla l. 117/1988. Qualora, invece, si acceda – come ritenuto dal secondo orientamento prospettato dall'ordinanza interlocutoria – alla tesi per cui il rispetto del diritto dell'UE possa essere adeguatamente contemperato con le garanzie di indipendenza dei magistrati, assicurate in modo «ragionevole» dalle previsioni di cui alla l. 117/1988, allora anche in tal caso l'azione di responsabilità civile proposta contro lo Stato italiano per violazione di norme comunitarie maturata nell'esercizio dell'attività giurisdizionale sarà soggetta alle predette disposizioni, su tutte quelle afferenti alle modalità di introduzione del giudizio con ricorso e di osservanza dei termini decadenziali. A parere di chi scrive, in attesa della decisione che eventualmente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione renderanno sul problema qualora dovessero essere investite della «quaestio iuris» dal Primo Presidente, non appare condivisibile l'orientamento che, partendo dall'eccezionalità delle norme che limitano le ipotesi di responsabilità civile per violazione del diritto dell'Unione Europea, finisce per disapplicare, di fatto, l'ordito normativo di cui alla l. 117/1988 per il caso in cui si agisca ponendo a fondamento della responsabilità dello Stato italiano la violazione di norme unionali nell'esercizio dell'attività giurisdizionale, se del caso anche mediante omissione, da parte di organi giudiziari di ultima istanza, dell'obbligo di effettuare il rinvio pregiudiziale alla CGUE. Invero, questa soluzione non appare convincente per tre ragioni. La prima è che essa si pone in contrasto con la novella normativa operata dalla l. 18/2015 che, nel modificare appunto la legge «Vassalli» nell'ottica di adeguare l'ordinamento interno alla procedura di infrazione intrapresa dalla Commissione UE contro l'Italia ed alle pronunce della Corte di Giustizia Europea aventi ad oggetto la normativa italiana sulla responsabilità civile dei magistrati, ha consapevolmente ritenuto di equiparare a tutti gli effetti la responsabilità da violazione di norme interne e di norme comunitarie, senza prevedere alcun distinguo di sorta. In questo senso, dunque, ritenere che l'azione risarcitoria contro lo Stato italiano fondata su violazione del diritto unionale maturata nell'ambito dell'esercizio dell'attività giurisdizionale sia sottratta alla disciplina della l. 117/1988 appare assolutamente irragionevole, in considerazione del chiaro dettato normativo (art. 2 come novellato), e del fatto che tale scelta legislativa si pone proprio all'esito di un percorso volto proprio ad assolvere alla necessità di adeguare l'ordinamento interno a quello unionale. La seconda è che, a ben vedere, una siffatta soluzione non appare neanche necessaria, atteso che, come chiarito dal secondo orientamento della Suprema Corte, il complesso di regole delineato dalla l. 117/1988 risulta assolutamente compatibile con i principi di primazia, effettività ed equivalenza, essendo i termini decadenziali previsti dall'art. 4, comma 3, della stessa, tanto nella precedente formulazione (due anni) e, «a fortiori» nell'attuale (che estende tale termine tre anni) – ragionevoli, e ciò anche nella prospettiva del rispetto del principio della ragionevole durata del processo di cui agli art. 6 della CEDU e 111 della Costituzione, principio cardine che viene assunto quale criterio guida assoluto anche delle più recenti riforme della giustizia all'attenzione del Parlamento. In questo modo, dunque, sottoponendo la responsabilità civile dello Stato per violazione del diritto comunitario nell'ambito dell'attività giudiziaria, si assicura da un lato il rispetto del diritto dell'Unione Europea e dei principi di effettività ed equivalenza e, dall'altro, anche l'esigenza di assicurare l'indipendenza dei magistrati. La duplice particolarità dell'illecito «giudiziario» «comunitario», dunque, secondo chi scrive giustifica che esso sia regolato anche dalle norme speciali di cui alla l. 117/1988; a meno che non si voglia considerare che la violazione del diritto dell'Unione Europea da parte dello Stato italiano – in questo caso tramite l'esercizio dell'attività giurisdizionale – costituisca un valore assoluto che non deve essere contemperato con nessun altro interesse in gioco, ancorché di primaria importanza, quale appunto l'esercizio sereno della funzione giurisdizionale (funzionale all'indipendenza della magistratura ex art. 104 Cost.) ed all'attuazione del principio della ragionevole durata del processo (artt. 111 Cost. e 6 CEDU). Infine, la terza è che, a ben vedere, quanto meno a parere di chi scrive, il problema della tardività del deposito in Cancelleria dell'atto di citazione con cui è stato erroneamente introdotto il giudizio – laddove esso sia stato erroneamente introdotto con tale modalità, per i giudizi soggetti alla disciplina della l. 117/1988 prima della riforma del 2015 che, abrogando l'art. 5 della stessa, ha consentito la relativa instaurazione mediante atto di citazione – può essere risolto assumendo la norma di cui all'art. 4, comma 5, del d.lgs. 150/2011 – ancorché norma di rango ordinario - laddove sancisce il principio dell'irrilevanza dell'errore sul rito (al fine della salvaguardia degli effetti sostanziali e processuali della domanda), quale «stella polare» per l'interprete. Questa disposizione, infatti, costituisce espressione di un principio ormai generale, quello cioè dell'affievolimento delle conseguenze dell'errore sul rito che, essendo strumentale alla tutela dei diritti, la cui inosservanza non può comportare esiti abortivi delle controversie o soluzioni in mero rito, come sancito dalle Sezioni Unite Civili con la sentenza n. 26242/2014, con cui è stato proclamato il superamento «dell'assunto della inossidabile primazia del rito rispetto al merito». In questo modo, dunque, si consentirebbe di ritenere tempestivamente proposta l'azione anche laddove l'atto di citazione con cui sia stato erroneamente introdotto il giudizio (nella vigenza della «vecchia» formulazione della l. 117/1988), purché notificato entro il termine decadenziale di cui all'art. 4, comma 2, sia poi stato iscritto a ruolo successivamente allo spirare del termine stesso. |