07 Settembre 2021

I servizi resi tramite l'utilizzo di piattaforme digitali escono dagli schemi delle tradizionali categorie reddituali che devono essere assolutamente ripensate. Ed in attesa di una codificazione che sembra sempre più lontana (seppur non sia oramai più procrastinabile), si cercherà di mettere in luce gli aspetti fondamentali di tale forma di “economia digitale”, prendendo le mosse dal caso “Uber”.

I servizi resi tramite l'utilizzo di piattaforme digitali escono dagli schemi delle tradizionali categorie reddituali che devono essere assolutamente ripensate. Ed in attesa di una codificazione che sembra sempre più lontana (seppur non sia oramai più procrastinabile), si cercherà di mettere in luce gli aspetti fondamentali di tale forma di “economia digitale”, prendendo le mosse dal caso “Uber”.

Da un lato vi sono soggetti privati che manifestano le proprie esigenze di trasporto e di viaggio (indicando luogo di partenza, luogo di destinazione ed orario), dall'altro vi sono soggetti i quali mettono a disposizione l'auto proprio per la soddisfazione di tali necessità.

Queste ultime vengono manifestate attraverso applicazioni offerte dalle piattaforme digitali gestite da società.

Si tratta del caso Uber, colosso statunitense nato a San Francisco, il cui debutto in Italia è avvenuto nel 2013: i conducenti di veicoli senza licenza che hanno intenzione di offrire un servizio di trasporto si registrano sull'apposita piattaforma e, mettendosi on line, decidono se accettare o meno la richiesta di servizio proveniente da soggetti privati. Nel caso di accettazione viene inviata, tramite app, una notifica al richiedente, il quale paga il costo del servizio tramite carta di credito.

Uber trattiene una parte del corrispettivo (nella misura del 20% circa), versando la parte restante sul conto corrente dell'autista, il quale non rilascia alcuna ricevuta per il servizio reso a fronte del pagamento effettuato con carta di credito dal richiedente.

Appare chiaro come questa forma di servizi ponga numerosi interrogativi sul piano fiscale.

In tale forma di condivisione vengono in gioco tre categorie di soggetti:

  • i prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze, che possono essere sia privati, che offrono servizi su base “occasionale”, sia prestatori di servizi nell'ambito della loro capacità professionale (“prestatori di servizi professionali”);
  • gli utenti di tali servizi;
  • gli intermediari che mettono in comunicazione, avvalendosi delle piattaforme digitali (piattaforme di collaborazione) i prestatori e gli utenti, agevolando le transazioni tra gli stessi.

Occorre prendere le mosse da un dato di fatto, incontestabile: i prestatori di servizi pongono in essere un'attività astrattamente produttiva di reddito, qualificabile come attività commerciale ai sensi dell'art. 2195, comma 1, numero 3), del c.c.

Ciò posto, qualora tale attività economica venga esercitata con carattere di occasionalità, sembrerebbe che possa ritenersi integrata la fattispecie di cui all'art. 67, lettera i) del TUIR, vale a dire la tassabilità di “redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente” o di cui all'art. 67, lettera l) del TUIR, vale a dire la tassabilità di redditi derivanti “dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”, costituiti dalla “differenza tra l'ammontare percepito nel periodo di imposta e le spese specificamente inerenti alla loro produzione” (art. 71, comma 2, del TUIR).

Quando, invece, il prestatore di tali servizi voglia svolgere tale attività in modo stabile e duraturo, la commercialità della stessa è incontestabile, sicchè tutti i proventi conseguiti sono da considerare come reddito di impresa ai sensi degli artt. 6 e 81 del TUIR.

E del resto questa ultima soluzione sembra essere la più corretta anche alla luce della decisione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Grande Sezione, 20 dicembre 2017, n. 434), nel dicembre del 2017, al culmine dell'iter giurisdizionale che ha condotto all'individuazione della reale natura giuridica di Uber, la quale spiega i propri effetti anche ai fini della qualificazione del reddito percepito dagli utenti di tali servizi.

Si è di fronte non ad una piattaforma di collaborazione, bensì ad una società di trasporto.

La Corte ha osservato come l'intermediazione costituisca parte integrante di un servizio complessivo nel quale l'elemento principale è da individuarsi comunque nel trasporto.

A tali asserzioni si è giunti dimostrando come il fornitore del servizio di intermediazione incida di fatto su profili essenziali del contratto stipulato fra prestatore e utente, modellando il servizio di trasporto effettuato dal primo. In particolare, i Giudici hanno posto in evidenza che la società americana non ricopre affatto un ruolo marginale nella formazione dell'accordo fra i privati, limitandosi a fornire una piattaforma di incontro, ma, al contrario, influenza sensibilmente la contrattazione.

Infatti, Uber individua in prima persona i conducenti non professionisti ed incide sull'oggetto del contratto, fissando le condizioni della prestazione, quantomeno, nel prezzo massimo della corsa; riscuote prima di tutti il corrispettivo versato dall'utente, destinandone soltanto una parte agli autisti; valuta il comportamento di questi ultimi, optando anche per la loro esclusione se necessario. Inoltre, atteso l'orientamento della Corte secondo il quale la nozione di “servizio nel settore dei trasporti” ricomprende non soltanto i servizi di trasporto in senso stretto, ma anche “ogni servizio intrinsecamente connesso a un atto fisico di trasferimento di persone o di beni da un luogo a un altro tramite un mezzo di trasporto”, può dirsi che la piattaforma fornisca principalmente un servizio di trasporto al quale si aggiunge, soltanto in termini accessori, un'opera di intermediazione (sul punto, Corte di Giustizia, Grande Sezione, 10 luglio 2018, n. 320).

Uber quindi non si limita a fare le vesti di intermediario per le prestazioni rese autonomamente dai conducenti (non è una tech company che gestisce solamente una app), ma ricopre le funzioni di un'azienda di trasporti che utilizza la tecnologia in modo innovativo, organizzando e gestendo un vero e proprio servizio di trasporto, in cui la parte tecnologica è inestricabilmente legata al trasporto, il quale costituisce l'aspetto economicamente più rilevante dell'intera prestazione e per tal ragione, non si sarebbe in presenza di un fenomeno di “sharing economy”.

Perché si possa parlare di “sharing economy” la transazione deve avere ad oggetto un'attività svolta in maniera non professionale e tale attività, per poter essere considerata non professionale, dovrà essere posta in essere in maniera saltuaria e non dovrà, invece, costituire una fonte stabile di reddito, che altrimenti la commuterebbe in una vera e propria attività lavorativa.

Posto, quindi, che il soggetto il quale fornisce il servizio di trasporto opera all'interno di un contesto di “commercialità”, potendo lo stesso era definito quale “operatore economico”, l'abitualità con cui svolge l'attività esige che lo stesso diventi un soggetto Iva addebitando, quindi, l'imposta sui corrispettivi incassati per il trasporto i quali confluiranno nel reddito di impresa come componenti positivi.

Inquadrato il regime fiscale dei prestatori di servizi, occorre ora soffermarsi sui soggetti che gestiscono le piattaforme; viene in gioco l'individuazione della “stabile organizzazione” ai fini di individuare il soggetto che ha il potere di imposizione.

All'interno dell'art. 162 del Tuir è stata inserita una nuova lettera, la lettera f-bis), secondo cui l'espressione “stabile organizzazione” comprende, in particolare, “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio dello Stato”.

Ad un esame approfondito, emerge come tale disposizione mal si attagli alla questione in oggetto, avuta considerazione del fatto che le società che gestiscono le piattaforme operano effettivamente sul mercato e, quindi, gli scambi sono reali.

Appurato, quindi, come tale disposizione non possa trovare applicazione nel caso di specie, al momento il criterio per individuare il Paese in cui sottoporre a tassazione i proventi percepiti dalla società che gestisce le piattaforme è quella di residenza della stessa.

Si continua a restare in attesa di una normativa che, in virtù anche dei pronunciamenti della Corte di Giustizia, formalizzi gli aspetti fiscali dei servizi (di qualsiasi genere) resi tramite l'utilizzo di piattaforme.

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