Stakeholders-oriented approach, responsabilità degli amministratori e strumenti di governance: qualche spunto di riflessione

Giovanni Gerbini
08 Settembre 2021

Nell'ambito dello «European Green Deal», la Commissione Europea ha di recente avviato una serie di iniziative propedeutiche all'elaborazione a livello comunitario di proposte legislative in materia di sostenibilità “industriale” e responsabilità sociale d'impresa, tra cui lo «Study on directors' duties and sustainable corporate governance». L'Autore svolge alcune riflessioni sulla responsabilità degli amministratori in relazione alla materia della sostenibilità industriale e della responsabilità sociale d'impresa, con uno sguardo anche anche ad un'eventuale fase di crisi dell'impresa.
Premessa: «the King is dead, long live the King!»

Nell'ambito dello «European Green Deal» (il piano d'azione europeo sulla sostenibilità), la Commissione Europea ha di recente avviato una serie di iniziative propedeutiche all'elaborazione a livello comunitario di proposte legislative in materia di sostenibilità ‘industriale' e responsabilità sociale d'impresa.

Tra queste, merita una particolare attenzione lo «Study on directors' duties and sustainable corporate governance», svolto da una nota società di consulenza su incarico della stessa Commissione, nel quale si sono evidenziate le criticità insite nella tendenza delle imprese a concentrarsi sulla massimizzazione del valore nel breve termine, a discapito della sostenibilità economica, ambientale e sociale nel lungo periodo; sulla base di tali rilievi la Commissione ha indetto due consultazioni pubbliche(ci si riferisce a la Stakeholder Consultation on the Renewed Sustainable Finance, conclusasi il 15 luglio 2020, e di cui sono già stati pubblicati i risultati in un Summary Report e la Consultation on Sustainable Corporate Governance, conclusasi lo scorso 8 febbraio 2021) atte a raccogliere le opinioni di cittadini e operatori professionali su vari profili in materia di finanza e corporate governance sostenibili, tra i quali figurava anche l'ipotesi esplicita di prevedere in capo agli amministratori di società dei veri e propri doveri giuridici di agire in conformità alle istanze compendiate nelle formule di «corporate social responsibility» (CSR) e «environmental, social and governance» (ESG).

Il chiaro indirizzo programmatico che informa tali iniziative politico-economiche è stato d'altra parte espresso anche sulle sponde opposte dell'atlantico, laddove in maniera meno istituzionale, ma con un'eco mediatica forse maggiore, la Business Roundtable – la nota associazione che raggruppa i ceo delle più grandi corporations statunitensi (Amazon, Apple, Microsoft, Goldman Sachs e BlackRock, per citarne solo alcune) – nell'agosto del 2019 ha pubblicato una solenne dichiarazione d'impegno a promuovere e perseguire un'economia sostenibile a beneficio di tutta la ‘comunità', e non soltanto dei propri azionisti. Così, 181 firme hanno riformato la grammatica dell'attività imprenditoriale capitalistica, proclamando il ‘regno' dello «stakeholders' value» e abiurando esplicitamente la dottrina della «shareholders' primacy»: una sorta di «the King is dead, long live the King!» targato ventunesimo secolo.

Questi sono solo alcuni degli esempi che testimoniamo un avviato processo culturale, che mira a sdoganare nuove forme di sensibilità verso impegno sociale e sostenibilità; un «capitalismo responsabile» (com'è stato definito da qualcuno), che si ripropone di riabilitare i modelli economico-produttivi disinnescandone l'esasperata propensione al solo guadagno. Finanza sostenibile, fondi d'investimento «ESG-oriented» e green economy hanno così fatto la loro comparsa nel dibattito e nelle cronache di tutti i giorni. Quasi sempre immancabile, nei vari contributi che compaiono sui quotidiani, il riferimento a Milton Friedman e al suo articolo «A Friedman Doctrine: The Social Responsibility of Business is to Increase Its Profits», pubblicato sul New York Times nel settembre 1970, che viene spesso presentato come manifesto di un (nefasto) capitalismo iper-liberista rispetto al quale, invece, le nuove istanze di un'economia più responsabile irrompono come una sorta di rivincita ideologica.

(Fonte: IlFallimentarista)

Prime osservazioni

Si tratta, in realtà, di una lettura piuttosto riduttiva ed errata, che dimostra – come denunciato dalla dottrina (A. Edmans, What stakeholder capitalism can learn from Milton Friedman, in ProMarket, Stigler Center at the University of Chicago School of Business, 10 settembre 2020; L. Enriques, Missing in Friedman's shareholder value maximization credo: the shareholders, in Oxford Business Law Blog, 25 settembre 2020) – come a tutt'oggi l'articolo di Friedman venga largamente frainteso e spesso citato a sproposito.

L'autore, infatti, non disconosce che da atteggiamenti virtuosi in favore della ‘comunità' possano derivare benefici anche per l'impresa capitalistica; anzi: è il primo ad ammetterlo esplicitamente, così escludendo che vi sia una necessaria alterità tra solidarietà, da un lato, e «profit-maximizing behaviors», dall'altro. Ciò che invece contesta è che il perseguimento di questi fini possa essere imposto agli amministratori – diciamo – per legge, perché un approccio in questo senso si rivelerebbe politicamente pericoloso, per vari motivi (in parte già esposti nel suo precedente Capitalism and Freedom, Chicago, 1962, 119 ss.). La critica di Friedman si pone, dunque, non tanto sul piano del merito, o dei contenuti, ma su quello del metodo.

Letta in questo senso, la questione assume un significato ben diverso e, a dispetto dei pubblici proclami circa «the end of Friedmanism», coglie alcuni profili di una certa attualità.

Senza dubbio il sempre crescente rilievo che stanno assumendo le tematiche della responsabilità sociale d'impresa, della ESG e della finanza sostenibile dev'essere salutato con assoluto favore; tuttavia, sorge qualche perplessità – per l'appunto – con riguardo al metodo che si pensa di assumere nel voler riprodurre tali istanze sul piano del diritto.

Infatti, se l'obiettivo è quello di orientare l'attività dell'impresa societaria verso una maggiore sostenibilità, in chiave sociale ed ambientale, non si può pensare di poter semplicemente introdurre degli obblighi di agire in questo senso in capo alle società, e quindi agli amministratori, poiché così facendo si pretenderebbe di positivizzare a livello legislativo formule che, per propria natura, mal si prestano ad essere tradotte in specifici doveri giuridicamente sanzionabili (P. Marchetti-M. Ventoruzzo, Sarà la cultura che farà l'impresa più sostenibile, in Corriere della Sera. L'economia, 27 gennaio 2020) . Un intervento che si riduca solo a questo sconterebbe evidenti carenze sul piano coercitivo e sanzionatorio (dell'enforcement, dice qualcuno) e porterebbe alla redazione di norme di legge dal contenuto più che altro ‘propagandistico' (in questo senso le iniziative intraprese dalla Commissione Europea nonché la dichiarazione della Business Roundtable si possono leggere come una sorta di responso politico alle sempre più pressanti istanze dei grandi investitori istituzionali, la cui preoccupazione è di attenuare i rischi sistemici del mercato: v. in proposito Aa.Vv., Lo statement della Business Roundtable sugli scopi della società. Un dialogo a più voci, a cura di A. Perrone, in Orizz. Dir. Comm., 2019, 3, 101 ss.), ma poco efficaci dal punto di vista del diritto, se non limitatamente all'ambito dei rapporti interni della società (vale a dire: tra amministratori e soci). Né si dovrebbe d'altra parte ignorare, nell'assenza di una riforma legislativa, che l'esperienza giuridica dei vari ordinamenti europei, e in parte anche del nostro, già conosce altri strumenti di diritto commerciale che si potrebbero impiegare per delineare forme di governance che consentano un coinvolgimento di interessi più ampi rispetto a quelli dei soli soci.

A riprova delle considerazioni appena esposte, è possibile formulare qualche riflessione nei paragrafi che seguono.

a) Gli effetti di uno «stakeholders-oriented approach» sul piano della responsabilità degli amministratori, tra revoca e responsabilità risarcitoria. L'esempio della società benefit.

Non appena si discute di «stakeholders-oriented approach» e responsabilità sociale, l'attenzione si concentra subito sul ruolo degli amministratori e sui loro doveri. È infatti evidente che, laddove una società sia tenuta a perseguire (anche) un beneficio comune, i componenti dell'organo direttivo vedono ampliati gli obiettivi che sono chiamati a realizzare nell'attività di gestione e, di conseguenza, anche il perimetro delle proprie responsabilità. L'eventualità è tutt'altro che teorica nel nostro ordinamento, imponendosi anzi nel caso in cui una società assuma la qualifica benefit, introdotta dalla L. 28 dicembre 2015, prevedendo nel proprio statuto sociale il perseguimento «oltre allo scopo di dividerne gli utili (la menzione dello scopo di lucro si scontra, peraltro, con la previsione per cui anche le cooperative possono assumere la qualifica di società benefit),[di] una o più finalità di beneficio comune […] in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori ed ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse» (art. 1, comma 376); in questo caso, infatti, si prevede che «La società benefit [debba essere] amministrata in modo da bilanciare l'interesse dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi delle categorie» suddette (comma 380).

Nel comprendere che cosa ciò comporti sul profilo ‘sanzionatorio' nei confronti degli amministratori, mi sembra che occorra distinguere i due differenti piani della revoca, da un lato, e della responsabilità risarcitoria, dall'altro. Mentre sul primo, infatti, l'ampliamento dell'oggetto sociale determina senz'altro un ampliamento delle responsabilità degli amministratori, in quanto aumentano i risultati che questi devono raggiungere e, dunque, i possibili motivi di revoca laddove dovessero invece non riuscirvi; sul piano risarcitorio, al contrario, la loro posizione non ne risulta particolarmente aggravata, posto che, se un amministratore cagiona un danno a terzi, sorge a suo carico un obbligo di risarcimento a prescindere dal fatto di essere o meno tenuto ad una gestione socialmente responsabile (tale differenza potrebbe spiegare il motivo per cui il legislatore, con una formulazione che può significare ‘tutto e niente', ha previsto al comma 381 della L. n. 208/2015 che «L'inosservanza degli obblighi di cui al comma 380 può costituire inadempimenti dei doveri importi agli amministratori»). In quest'ultimo caso, non ci si discosta dunque dalla regola generale di neminem laedere (potendo eventualmente assumere rilievo l'art. 2395 c.c.).

Il diverso grado di incidenza che la presenza di finalità di beneficio comune genera sui due diversi piani (della revoca e del risarcimento) può essere ricondotto alla differenza dei soggetti nel cui interesse si pone ciascuno dei due rimedi: i soci, nel primo caso, i terzi danneggiati, genericamente intesi, nel secondo. Solo con riguardo ai primi, infatti, lo strumento costituisce un presidio che inerisce ad un rapporto obbligatorio in senso stretto, avente cioè ad oggetto uno specifico dovere nei confronti di una categoria di persone precisamente individuata; nel secondo caso, invece, la pretesa risarcitoria ha natura aquiliana e consegue alla violazione del dovere, avente portata del tutto generale, di non ledere l'altrui sfera giuridica. Solo i primi, insomma, sono titolari di un diritto nei confronti dell'amministratore: i secondi, invece, dispongono tutt'al più di una posizione di mero interesse, che tale rimane anche quando lo statuto preveda una gestione improntata (anche) in loro favore (ciò che, d'altro canto, costituisce il punto di partenza nel concetto di stakeholders, lett.: portatori di un interesse). Né si può ritenere, in senso contrario, che il contratto sociale ovvero quello sottoscritto tra società ed amministratore possa essere qualificato, nei confronti degli stakeholders, come contratto in favore del terzo ai sensi dell'art. 1411 c.c. (in tal senso anche M. Palmieri, L'interesse sociale: dallo shareholder value alle società benefit, in Banca Impr. Soc., 2017, 214), ciò che porterebbe ad affermare che questi acquistino un diritto soggettivo, e già dal momento della stipula tra i contraenti; perché operi il meccanismo della norma citata, infatti, occorre che il terzo sia preventivamente determinato o determinabile (e ciò non è per gli stakeholders) e che in loro favore sia pattuito il diritto ad una prestazione specifica (e non generica, com'è quello a non subire un danno ex art. 2043 c.c., che in quanto tale fa venir meno il contratto per mancanza dell'oggetto).

Tirando alcune somme, si può dunque dire che all'estensione dei doveri degli amministratori (per l'estensione dell'oggetto sociale) non corrisponde un ampliamento soggettivo dei destinatari dei doveri fiduciari gravanti sui gestori (S. Prataviera, Società benefit e responsabilità degli amministratori, in Riv. Soc., 2018, 919) e che, pertanto, non vantando alcun diritto nei loro confronti, gli stakeholders non hanno neppure alcuna legittimazione a far valere l'inadempimento dei suddetti obblighi di gestione, pur essendo questi previsti in proprio favore (in senso analogo F. Denozza-A. Stabilini, Due visioni della responsabilità sociale dell'impresa, con una applicazione alla società benefit, Atti del Convegno “Il Diritto Commerciale Verso il 20202: I Grandi Dibattiti in Corso, I Grandi Cantieri Aperti, Orizz. Dir. Comm., Roma, 17 febbraio 2017; M. Palmieri, (nt. 7) 213; P. Guida, La società “benefit” quale nuovo modello societario, in Riv. Not., 2018, 510).

b) (segue) La valutazione dell'ingiustizia del danno nel bilanciamento degli interessi
Si può allora affermare che (come detto supra) la previsione in capo all'amministratore di un obbligo specifico di perseguire anche gli interessi degli stakeholders determina effetti sul solo piano della responsabilità nei confronti dei soci (e della revoca per giusta causa)

(Cfr. C. Angelici,

Società benefit

, in

Orizz. Dir. Comm

., 2017, 2, 10),

esaurendosi dunque nell'ambito interno alla società.

Vi è tuttavia uno specifico profilo che potrebbe indurre a ritenere che la previsione di un siffatto obbligo esplichi taluni effetti anche sul piano dei rapporti con i ‘non-soci', in particolare, con riguardo alla responsabilità da fatto illecito, benché si tratti in ogni caso di una questione di rilevanza contenuta, che di certo non muta i profili essenziali della responsabilità risarcitoria dell'amministratore. Sembra, cioè, che l'espressa previsione statutaria di finalità socialmente responsabili valga ad imporre, nel momento della valutazione degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c., una maggiore sensibilità in favore dello stakeholder danneggiato. In particolare, muovendo dalla premessa secondo cui il debito risarcitorio sorge solo se ilfatto, doloso o colposo, cagiona ad altri un danno ingiusto, e che quest'ultimo connotato deve risultare a fronte di una valutazione comparativa tra gli interessi dell'agente e quelli del danneggiato (P. Trimarchi, voce «Illecito», in Enc. Dir. (dir. priv.), Milano, 1970, 100), non è da escludere che in questo bilanciamento l'ordinamento voglia riservare all'interesse al beneficio comune una considerazione particolarmente privilegiata, e di riflesso a quello della società/dell'amministratore una maggiore severità. In altri termini, verrebbe arretrata la soglia di tolleranza (di ‘ingiustizia') che il danneggiato può essere tenuto a sopportare, a fronte di un avanzamento della posizione di responsabilità del danneggiante; il che porrebbe evidenti difficoltà nell'equilibrare la bilancia dei valori in tutti quei casi in cui l'atto degli amministratori sia di per sé lecito e vantaggioso per la società, ma comunque nocivo, in modo più o meno marcato, di un qualche interesse collettivo.

Come detto, tale implicazione (che riguarda più che altro la questione del bilanciamento tra valori, che è opera discrezionale della persona del giudice) non mi sembra in ogni caso assumere un'importanza tale da riconsiderare quanto affermato sinora, che mantiene la sua validità generale, e cioè che l'introduzione di doveri gestori «stakeholders-oriented» non produce alcun effetto sostanziale sul piano della responsabilità degli amministratori verso i ‘non-soci'.

c) L'altra faccia della medaglia: possibili effetti liberatori per gli amministratori

Occorre inoltre notare che la peculiare composizione di interessi che, in queste ipotesi, gli amministratori sarebbero chiamati ad attuare, imporrebbe una revisione tout court del loro operato, se è vero che, a fronte di un ampliamento delle relative responsabilità verso i soci, essi conseguirebbero anche (e soprattutto) rilevanti effetti liberatori in proprio favore. Si pensi al caso in cui gli amministratori rinuncino ad un investimento perché, nonostante l'alto potenziale di rendimento, questo possa danneggiare in qualche modo l'ambiente e che vi preferiscano, invece, un altro investimento di minor profitto, ma di maggior beneficio per la comunità. In una prospettiva esclusivamente lucrativa, in quest'ipotesi i soci potrebbero contestare (in senso lato) la decisione gestoria assunta nella misura in cui abbia determinato ricavi minori rispetto a quelli potenziali. Assumendo una prospettiva più ampia, inclusiva anche degli interessi collettivi, invece, la condotta non potrà essere in alcun modo censurata laddove giustificata dall'obbligo statutario di realizzare risultati ‘eterogenei' che trascendono il solo guadagno della società, ciò che potrà pertanto essere invocato dagli amministratori a propria discolpa. In questo senso, anche il paradigma dell'insindacabilità nel merito delle scelte gestorie (c.d. business judgement rule) dovrà necessariamente costruirsi secondo un processo valutativo complesso, che tenga conto non solo dei soci, ma di tutti i portatori di interessi. Mi sembra di poter leggere in questi termini il comma 380, L. n. 208/2015, già citato, laddove allude ad un dovere di amministrare la società «in modo da bilanciare l'interesse dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi delle categorie indicate nel comma 376».

d) Interessi eterogenei nella fase patologica della crisi d'impresa
L'esame dell'interazione tra corporate social responsibility e gestione societaria si può estendere anche alla fase patologica dell'impresa, senza che le conclusioni tratte sinora debbano esser messe in discussione. Anche in tale fase, infatti, la posizione e la responsabilità degli amministratori non sembrano risultare modificate in alcun modo, se non in senso positivo.

È noto che in presenza di uno stato di crisi, sia esso rappresentato da perdite del capitale al di sotto del minimo legale (ed in assenza della relativa ricostituzione) o da una situazione di insolvenza, gli amministratori sono tenuti ad una gestione volta in ogni caso alla conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale (che si potrà concretizzare nella messa in liquidazione o nell'accesso alle procedure concorsuali), al fine di non aggravare il dissesto in danno a soci e creditori e, così, di favorire la composizione regolare di tutti gli interessi (rectius: diritti) in gioco. Pertanto, qualora vi sia una minaccia alla continuità aziendale, gli amministratori vedono evidentemente ridotta la propria discrezionalità gestoria, ed il loro dovere di diligenza assume tratti specificamente prudenziali e conservativi; ne deriva l'importante corollario per cui essi perdono il proprio diritto «a sbagliare» – nel senso di poter compiere atti economicamente non profittevoli purché diligenti (business judgement rule) –, posto che qualsiasi nuova operazione è di per sé illegittima per violazione del dovere di non proseguire l'impresa (se non a fini conservativi). La ratio è, come in parte già detto, quella di non pregiudicare le ragioni di soci, da un lato, e creditori, dall'altro, a favore dei quali deve ritenersi ‘vincolato' il patrimonio della società e, quindi, orientata la sua amministrazione.

Nel caso in cui, però, la società persegua anche finalità di beneficio comune, oltre alle due ora menzionate, sulla scena della composizione della crisi compare una terza categoria di soggetti titolari di interessi di cui tener conto: gli stakeholders. Viene allora da chiedersi se ciò comporti una qualche variazione sul piano della responsabilità degli amministratori nella particolare fase patologica della società.

La risposta – come anticipato – mi sembra debba essere tendenzialmente negativa, nel senso che la gestione da parte degli amministratori deve mantenere anche in questo caso il proprio indirizzo a favore, innanzitutto, di creditori e soci; ciò che d'altra parte pare giustificato, in virtù di una sorta di gerarchia delle posizioni, dal fatto che essi soltanto vantano diritti soggettivi o di credito, a differenza degli altri che – come già visto – dispongono di un semplice interesse.

Per una conferma, si pensi – recuperando l'esempio già proposto sopra – al caso in cui gli amministratori, in una evidente situazione di crisi, diano seguito ad un'operazione che generi un utile sul piano economico; fosse questa l'ipotesi, nonostante l'astratta illiceità della loro condotta, in termini concreti nessuna responsabilità potrebbe esser fatta valere contro di loro, dato che non solo non vi sarebbe un danno, ma vi sarebbe addirittura un aumento delle possibilità di soddisfazione della massa. Si aggiunga, però, che tale operazione sia stata preferita ad un'altra, ancor più redditizia, per il motivo che, oltre ad un profitto economico, la prima generi importanti benefici anche a livello ambientale, a differenza dell'altra (quella non realizzata) che sotto questo profilo sarebbe stata ‘neutra'. Rispetto alla crisi nelle società ‘ordinarie', qui vi è la singolarità che gli interessi ‘in conflitto', e da bilanciare, non appartengono rispettivamente solo a soci e creditori, bensì, da un lato, a soci e creditori (accomunati dall'interesse ad un maggior profitto), e, dall'altro lato, ai ‘titolari' del ‘bene-ambiente'. Tuttavia, come detto, tale specificità non sembra implicare alcuna novità sul piano delle responsabilità. Ed infatti, i soci non potranno eccepire alcunché rispetto alla scelta dell'amministratore, che pure avrebbe l'effetto di ridurre le loro aspettative sul residuo di liquidazione, per il semplice motivo che sono loro stessi ad aver previsto nello statuto sociale finalità ulteriori rispetto al solo lucro. Né avranno nulla da ‘recriminare' neppure i creditori: questi, infatti, non hanno alcun titolo nei confronti degli amministratori, dato che non ricorre tra gli uni e gli altri alcun rapporto giuridico, né tanto meno alcun obbligo risarcitorio, il quale semmai sorge nel solo momento in cui, mediante un proprio atto in violazione del divieto di operazioni ‘nuove', questi ultimi rechino un danno alle ragioni creditorie dei primi; ma non è questo il caso dato che, come visto, qui vi sarebbe addirittura un effetto positivo per i creditori. Né d'altra parte si potrebbe in quest'ipotesi applicare l'art. 2486, c. 2, c.c., che postula un danno inteso come diminuzione della garanzia generica rispetto al momento in cui sorge l'obbligo della gestione conservativa, e non si può dunque applicare nel nostro esempio, laddove i creditori potrebbero tutt'al più lamentare un mancato ‘maggior guadagno'.

Quest'ultima disposizione potrà semmai assumere rilievo nel caso, assolutamente peculiare, in cui l'operazione intrapresa consista in un investimento solo inizialmente positivo, ma che, non appena verificatasi una causa di scioglimento, assuma un andamento fortemente negativo, con conseguente perdita di valore del patrimonio sociale. Solo in questo caso, infatti, si può affermare che l'amministratore, nell' ‘interregno' che precede la messa in liquidazione, sia tenuto ad attivarsi per garantire la conservazione della garanzia dei creditori: pena l'assunzione a titolo personale della responsabilità per i danni (consistenti nel deprezzamento dell'investimento) causati dalla sua omissione. Dicendo questo, tuttavia, non diciamo nulla di nuovo rispetto allo stato dell'arte, se è vero che in quest'ultimo caso prospettato la soluzione rimarrebbe la stessa a prescindere dall'esistenza, o meno, di finalità di beneficio comune nello statuto: ciò che, in conclusione, consente di confermare che, nemmeno in questa fase, i doveri e le responsabilità degli amministratori sembrano subire alcuna variazione.

Strumenti di governo societario e coinvolgimento di interessi eterogenei

Le riflessioni formulate sinora dimostrano sostanzialmente che la semplice ‘positivizzazione' di un dovere di agire nell'interesse non solo dei soci, ma – diciamo – della ‘comunità' si dimostrerebbe insufficiente rispetto all'obiettivo di dare un'effettiva attuazione alle suggestioni ESG; non solo: come capita per tutte le riforme nel diritto, anche questa potrebbe peraltro rivelarsi foriera di problematiche interpretative e di criticità rispetto alla tenuta sistematica della materia. In proposito, non si devono peraltro trascurare altri strumenti del diritto commerciale – già previsti in alcuni ordinamenti stranieri, ma in parte anche nel nostro – che possono offrire validi profili d'impiego per orientare la gestione societaria verso il perseguimento di interessi che vadano al di là del guadagno per i soci.

Nel panorama internazionale, le principali forme di governance che tradizionalmente assumono rilievo a tali fini sono le benefit corporations, da un lato, che rappresentano la veste societaria per antonomasia nel perseguimento di un obiettivo socialmente responsabile, e i modelli di cogestione, dall'altro, che tipologicamente attuano un coinvolgimento nell'amministrazione della società di una platea di soggetti più ampia dei soli soci. Le prime, come già visto sopra, hanno fatto la loro ufficiale comparsa nel nostro ordinamento con la legge di stabilità del 2016 (L. 28 dicembre 2015, n. 208), che ha introdotto e delineato la ‘nuova' veste giuridica della società benefit, da intendere non come un tipo societario autonomo, ma semmai come l'etichetta di un modo di fare impresa basato sul bilanciamento tra interesse economico e fine solidaristico. Benché, come sopra esposto, neppure l'adozione di questa particolare qualifica comporti effetti dirompenti sul piano delle responsabilità ‘esterne' degli amministratori – per cui si potrebbe affermare che, quanto ad efficacia, questa non si ponga su un livello molto superiore alle ipotesi vagliate dal legislatore comunitario (rispetto, beninteso, agli obiettivi fissati) – l'istituto reca se non altro l'evidente vantaggio di fondarsi su una disciplina già tipizzata nel nostro diritto (con quel ne deriva in termini di ‘rodaggio' e conoscenza da parte degli operatori) e che, seppure non particolarmente articolata, prevede anche alcuni meccanismi sanzionatori in capo all'Autorità garante della concorrenza e del mercato (v. art. 384).

Non appartiene invece al nostro ordinamento il secondo dei due istituti menzionati, vale a dire: le forme di cogestione societaria in favore degli stakeholders, che pure avrebbero potuto essere previste ed attuate a fronte dell'introduzione, con la riforma del 2003, del sistema di amministrazione dualistico, tradizionalmente utilizzato proprio per realizzare modelli di compartecipazione, ad esempio, dei lavoratori (come nell'ordinamento tedesco) mediante la riserva, in loro favore, di alcune ‘poltrone' nell'organo di sorveglianza sulla gestione.

Va comunque notato che la stessa riforma del 2003 ha equipaggiato la disciplina della s.p.a. di altri strumenti che, in quanto atti a delineare varie forme e titoli di partecipazione alla società, possono ovviare a tale mancanza concedendo diritti di voice anche a lavoratori o altri stakeholders. Il riferimento è essenzialmente agli artt. 2346, c. 6 e 2349 c.c., nella misura in cui prevedono la possibilità, da un lato, di assegnare ai prestatori di lavoro speciali categorie di azioni dotate di diritti amministrativi (norma che, ad ogni buon conto, era già prevista anche pre-riforma), e dall'altro di emettere, in favore degli stessi lavoratori nonché di terzi sottoscrittori, strumenti finanziari (diversi dalle azioni) parimenti forniti di diritti patrimoniali e/o amministrativi (escluso il voto nell'assemblea generale degli azionisti) (lo strumento è stato di fatto poi esteso, a seguito del c.d. decreto crescita 2.0, D.L. 179/2012 conv. in L. 221/2012, anche alle start up innovative e, a seguito del c.d. decreto investment compact ,D.L. 3/2015, conv. in L. 33/2015, alle pmi innovative).

In particolare, sia gli strumenti finanziari, sia (si ritiene) le categorie speciali di azioni possono conferire ai propri titolari il diritto di voto su argomenti specificamente indicati e può esser ad essi riservata la nomina di un componente del consiglio di amministrazione, del consiglio di sorveglianza o, ancora, di un sindaco. Ne deriva, allora, la possibilità (pur soggetta alla volontà dei soci) di realizzare una vera e propria forma di cogestione in favore dei lavoratori e, in generale, di una vasta gamma di altri stakeholders quali sono i sottoscrittori di titoli di quasi capitale o di quasi debito (emessi ai sensi dell'art. 2346, c. 6 c.c.) dotati di diritti amministrativi tali da legittimare una loro ingerenza nella gestione della società. Nel caso in cui sia loro riservata la nomina di un amministratore, infatti, seppur in via mediata e fiduciaria, essi prendono formalmente parte al momento decisorio con una concreta ed effettiva capacità di indirizzo amministrativo.

A ben vedere, si può peraltro individuare un tratto distintivo tra la posizione dei lavoratori e quella di tutti gli altri stakeholders, posto che, mentre l'art. 2349, c. 1 c.c. prevede, in favore dei lavoratori, un'assegnazione gratuita delle azioni speciali, ed altrettanto si può ritenere (nonostante la lettera non lo dica espressamente) anche per gli strumenti finanziari di cui al secondo comma della medesima disposizione, l'art. 2346, c. 6 c.c., invece, contempla l'emissione di strumenti finanziari solo a fronte di un apporto da parte del sottoscrittore. Sembra così delinearsi, tra le due fattispecie, la differenza per cui i lavoratori possono acquistare un ‘diritto di cogestione' a titolo gratuito, mentre gli altri stakeholders solo a titolo oneroso. Non è tuttavia da escludere che, in virtù della forte autonomia organizzativa di cui godono a seguito della riforma, le società siano legittimate ad emettere e assegnare a titolo gratuito anche gli strumenti finanziari di cui all'art. 2346, c. 6 c.c., ma tale considerazione dovrebbe essere attentamente vagliata alla luce del divieto di patto leonino, laddove il titolo incorpori capitale di rischio, o dei limiti posti all'emissione di obbligazioni rispetto al patrimonio netto, laddove invece rappresenti un debito.

Avviandoci a concludere, rivolgiamo anche qui, come già fatto sopra, uno sguardo ad un'eventuale fase di crisi dell'impresa per osservare che gli strumenti finanziari in esame possono conferire diritti rilevanti anche nel momento patologico della società: si pensi, ad esempio, al diritto di voto nelle delibere riguardanti la riduzione del capitale per perdite, oppure l'apertura di una procedura fallimentare, concordataria, di ristrutturazione (art. 182bis l. fall.; art. 56 CCI) o di risanamento (art. 67, c. 3 lett. d), l. fall.; art. 57 CCI). Del resto, gli stessi obbligazionisti, ma anche i titolari di strumenti finanziari c.d. non partecipativi di cui all'art. 2411, c. 3, c.c., hanno il diritto di pronunciarsi in tale materia, seppur limitatamente alle proposte di concordato (art. 2415 c.c.) (e amministrazione controllata, istituto tuttavia abrogato ).

Riflessione conclusiva

Come nota di chiosa all'intero discorso, si può infine riproporre l'osservazione – già espressa da autorevole dottrina – secondo cui le formule ESG e CSR recano istanze che per propria natura, nella maggior parte dei casi, «mordono poco nella carne viva del diritto in azione» e «saremmo [pertanto] ingenui a pensare che [ai fini di una loro attuazione] siano sufficienti formule generiche, affidarsi alle virtù salvifiche di dichiarazioni d'intenti, o attribuire a norme programmatiche un ruolo che […] non hanno e non devono avere» (P. Marchetti-M. Ventoruzzo, op. cit.). Gli strumenti del diritto commerciale possono (e devono) certamente essere utilizzati in questo campo, ma occorre prendere consapevolezza che essi postulano una necessaria specificità concettuale che non appartiene affatto ai temi in esame, i quali si connotano semmai per genericità ed indeterminatezza. Ciò ne limita l'efficacia ad una dimensione inevitabilmente particolare, della singola società e degli stakeholders concretamente coinvolti, cui si contrappone quella generale, di mercato, nella quale la tutela degli interessi in esame non può che essere eteronoma, consistere cioè nella previsione regolamentare di limiti esterni all'azione degli amministratori, a presidio dei quali siano posti meccanismi sanzionatori di tipo pubblicistico (AA. VV., Lo statement della Business Roundtable sugli scopi della società. Un dialogo a più voci, cit., 599) (in quanto tali maggiormente disincentivanti). Laddove questo non sia possibile e, in generale, laddove non arrivi il diritto, si può condividere l'auspicio che la questione possa se non altro esser sviluppata sul diverso «piano della cultura economica [e imprenditoriale], delle sensibilità diffuse, della politica in senso alto e ampio, delle volontà degli uomini e delle donne d'impresa» (P. Marchetti-M. Ventoruzzo, op. cit.).

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