Il pagamento dei debiti di imposta in caso di fallimento

10 Settembre 2021

Tutti gli atti compiuti dal fallito ed i pagamenti da lui effettuati dopo la dichiarazione del fallimento sono sanzionati come inefficaci rispetto ai creditori. Nell'alveo dei pagamenti inefficaci rientra ogni atto estintivo di un debito riferibile al soggetto fallito. Le ragioni di tutti i creditori - nessuno escluso – vengono infatti soddisfatte paritariamente attraverso l'amministrazione del patrimonio del fallito da parte del curatore, sicché nessuna interferenza del fallito è ammissibile, dato che essa vanificherebbe le finalità stesse della procedura di salvaguardia della concorsualità. In questa cornice, sono inefficaci, pertanto, pure i pagamenti relativi a debiti di imposta o contributivi operati dal fallito in favore dell'erario, o dell'agente esattore dopo la sentenza dichiarativa di fallimento.
Massima

Tutti gli atti compiuti dal fallito ed i pagamenti da lui effettuati dopo la dichiarazione del fallimento sono sanzionati come inefficaci rispetto ai creditori. Nell'alveo dei pagamenti inefficaci rientra ogni atto estintivo di un debito riferibile al soggetto fallito. Le ragioni di tutti i creditori - nessuno escluso – vengono infatti soddisfatte paritariamente attraverso l'amministrazione del patrimonio del fallito da parte del curatore, sicché nessuna interferenza del fallito è ammissibile, dato che essa vanificherebbe le finalità stesse della procedura di salvaguardia della concorsualità. In questa cornice, sono inefficaci, pertanto, pure i pagamenti relativi a debiti di imposta o contributivi operati dal fallito in favore dell'erario, o dell'agente esattore dopo la sentenza dichiarativa di fallimento.

Il caso

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16958 del 16/06/2021, con un revirement rispetto alla precedente impostazione di legittimità, torna sul tema della legittimità o meno del pagamento dei debiti di imposta compiuti dal fallito dopo la dichiarazione del fallimento.

Nel caso di specie, un fallimento impugnava in Commissione Tributaria Provinciale una cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato ex art. 54 bis d.P.R. n. 633/1972, con la quale l'erario aveva recuperato a tassazione parte del credito IVA esposto nella dichiarazione IVA presentata per l'anno di imposta 2007.

Il fallimento dichiarava che, alla data della dichiarazione di fallimento, la società vantava un credito IVA pari ad euro 62.950,00.

La procedura concorsuale adduceva, altresì, che, successivamente alla declaratoria fallimentare, parte di tale credito, pari ad euro 41.968,00, era stato utilizzato dal fallito, all'insaputa del curatore, in compensazione con altri debiti ante fallimento, nel mentre il curatore, ignaro di tale pagamento, utilizzava il citato credito IVA per effettuare altri versamenti di imposta.

La CTP accoglieva il ricorso della curatela, valorizzando l'inefficacia degli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 44 l.fall.

L'Agenzia delle Entrate proponeva quindi appello, insistendo sul doppio utilizzo del credito IVA da parte della curatela.

La Commissione Tributaria Regionale accoglieva l'appello erariale, ritenendo che l'art. 44 l.fall. non rilevasse con riferimento all'ipotesi in cui il datore di lavoro, poi fallito, avendo trattenuto somme a titolo di acconto IRPEF sulla retribuzione corrisposta ai dipendenti prima del fallimento, successivamente le avesse devolute all'Amministrazione finanziaria.

La curatela proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, l'illegittimità dell'operazione di compensazione, o comunque l'inefficacia o inopponibilità della stessa, in quanto compiuta dal fallito in costanza di fallimento.

Con un secondo motivo di impugnazione, lamentava poi la violazione della par condicio, sostanzialmente denunciando, sotto il profilo del deficit motivazionale, la ritenuta legittimità di un'operazione di compensazione eseguita in costanza di procedura concorsuale da un soggetto dichiarato fallito.

La questione

Nella specie erano pacifiche le seguenti circostanze:

1) la sussistenza in capo alla società fallita, alla data del fallimento, di un credito IVA (pari ad euro 62.950,00);

2) l'utilizzo di una parte di tale credito (per l'importo di euro 41.968,00) da parte del soggetto fallito, all'insaputa del curatore, in compensazione con altri debiti ante fallimento;

3) il successivo impiego del medesimo credito da parte del curatore in correlazione ad altri versamenti di imposta.

In un tale contesto andava dunque evidenziato come la dichiarazione di fallimento inneschi effetti su tre piani correlati:

- il primo relativo all'apertura del concorso tra i creditori;

- il secondo concernente lo spossessamento ex art. 42 l. fall.;

- il terzo riguardante l'inefficacia degli atti compiuti dal fallito in costanza di procedura concorsuale ai sensi dell'art. 44 l. fall..

La dichiarazione di fallimento implica anzitutto, ai sensi dell'art. 52, comma 1, l. fall., l'apertura del concorso dei creditori sul patrimonio del fallito.

La procedura concorsuale si regge quindi, da lì in avanti, su due regole specifiche: quella del concorso formale, in base alla quale tutti i creditori sono tenuti a far accertare le rispettive ragioni nelle forme indicate dagli artt. 92 ss. l. fall.; e quella del concorso sostanziale, in virtù della quale i creditori possono soddisfarsi proporzionalmente, ferme le rispettive cause di prelazione, sul ricavato della vendita dei beni del fallito e sull'attivo fallimentare.

In un tale contesto normativo, la questione in giudizio riguardava dunque, da un lato, la complessa problematica dei limiti e margini entro cui un soggetto dichiarato fallito possa, in costanza di procedura concorsuale, adoperare un credito ad essa riconducibile, anche mediante l'istituto della compensazione.

E, dall'altro lato, il coordinamento tra la disciplina della ritenuta d'acconto operata dal datore di lavoro sulla retribuzione dei dipendenti e le previsioni della legge fallimentare, tra cui, segnatamente, l'art. 44 cit., in punto di inefficacia degli atti di disposizione compiuti dal fallito successivamente alla dichiarazione fallimentare.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Suprema Corte, il primo motivo di ricorso era fondato e andava accolto, con assorbimento delle altre censure.

La Cassazione ritiene di superare il precedente indirizzo di legittimità sul tema, come già rappresentato da Cass. n. 4957/2000, in base al quale: "L'art. 44, comma1, l. fall., nel prevedere l'inefficacia, rispetto ai creditori, dei pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, configura logico corollario della perdita della disponibilità dei beni acquisiti al fallimento stesso (art. 42) e mira a preservare l'integrità dell'attivo, assicurando la "par condicio creditorum".

La norma in questione, alla luce della valenza letterale dell'espressione "pagamenti eseguiti dal fallito", nonché del presupposto sul quale essa norma si basa e della finalità da essa perseguita, è riferibile agli atti estintivi di obbligazioni del solvens, compiuti con prelievo dal suo patrimonio e con connesso trattamento preferenziale dello accipiens.

Da ciò consegue che essa non si riveli applicabile rispetto alle somme che il datore di lavoro devolva all'esattore delle imposte ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 602/1973, in relazione all'art. 23 d.P.R. n. 600/1973, dopo averle trattenute a titolo di acconto IRPEF sulla retribuzione corrisposta ai dipendenti prima del fallimento. Esse somme, infatti, fanno parte del compenso lavorativo, sono ritenute dal datore di lavoro nella sua veste di "sostituto d'acconto", e vengono versate in nome e per conto dei lavoratori "sostituiti" i quali restano i soggetti passivi dell'obbligazione tributaria e dovranno definire la loro posizione al termine del corrispondente periodo d'imposta computando, appunto, le anticipazioni effettuate attraverso il "sostituto"".

Nel motivare il cambio di indirizzo, la Suprema Corte rileva che, in conseguenza della declaratoria fallimentare ex art. 42, comma 1, l. fall. "La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento".

Pertanto, all'imprenditore fallito è sottratto ope legis il potere di amministrare e di disporre dei propri beni, venendo tale potere concentrato in capo al curatore.

Il fallito, sottolineano i giudici, conserva in sostanza la titolarità dei diritti reali e dei rapporti obbligatori, ma perde radicalmente la legittimazione ad amministrarne e disporne, passando essa in capo al curatore.

Il fallimento comporta inoltre non solo il vincolo di indisponibilità su tutti i beni del debitore (art. 2913 c.c.), ma anche l'insensibilità del patrimonio di questi alle obbligazioni di qualunque genere egli possa assumere dopo la dichiarazione di fallimento.

Lo spossessamento colpisce del resto anche i beni (e le utilità) in possesso del fallito, ma di proprietà di terzi, i quali, per recuperarli, potranno (rectius: dovranno) richiedere, in sede fallimentare, la rivendicazione, la restituzione o la separazione.

Se dunque l'art. 42 cit. pone un generale vincolo di indisponibilità sui beni acquisiti al fallimento, il successivo art. 44 individua la portata sanzionatoria di quel vincolo, per cui, avendo perso la legittimazione, gli atti e i pagamenti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono comunque inefficaci rispetto ai creditori.

Tale previsione, rileva la Corte, va evidentemente letta in stretta connessione con il principio di indisponibilità del patrimonio del fallito, di cui costituisce diretta conseguenza e con la tutela della par condicio creditorum, dal momento che, verificatosi, come detto, in forza dell'art. 42, lo spossessamento del fallito, la naturale conseguenza sul piano funzionale è proprio quella dell'inefficacia di eventuali atti dispositivi da questi posti in essere.

Conclude quindi la Cassazione, rilevando come l'art. 44 cit. costituisce in tal senso l'esplicitazione più evidente dello spossessamento, che rende il patrimonio del fallito insuscettibile di variazioni successive alla data di fallimento che possano inficiare il soddisfacimento dei creditori, di modo che le somme o i beni di cui il fallito abbia (illegittimamente) disposto con atti inefficaci continuano comunque a far parte della massa attiva.

In definitiva, l'effetto del fallimento è duplice:

- privativo per il fallito, cui è sottratta la capacità di disporre dei beni, delle somme e utilità che ricadono nel perimetro del patrimonio societario;

- attributivo per il curatore, che, in base all'art. 31 l. fall., ha l'amministrazione in via esclusiva del patrimonio fallimentare ed è onerato di compiere tutte le operazioni della procedura, anche relativamente a rapporti giuridici, economici e fiscali ricadenti nella sfera giuridico-economica del debitore fallito, sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori.

Oggetto dello spossessamento di cui al menzionato art. 42 l.fall. sono, pertanto, già in virtù della sentenza dichiarativa di fallimento, i beni mobili, gli immobili, i beni immateriali, i poteri, le azioni, le facoltà, le potestà, le aspettative, i rapporti giuridici e - infine – anche i beni sui quali i terzi vantino diritti reali o personali.

Terzi che, rileva la Cassazione, non potranno conseguire, per le vie brevi, quanto di loro spettanza, dovendo anch'essi proporre domande di rivendicazione e di restituzione, ai sensi dell'art. 93 e dell'art. 103 l. fall. (cfr. Cass. n. 607/2012).

E quindi, ogni qualvolta reclamino il riconoscimento di un credito, dovranno chiedere l'ammissione al passivo e chiedere la verifica nelle forme procedurali di legge, che sono quelle che (sole) consentono a ciascun creditore di partecipare alla liquidazione del patrimonio del debitore, attraverso la presentazione della domanda di insinuazione al passivo e la prova del credito.

Solo a seguito dell'ammissione, i creditori, oltre che concorsuali, diventano infatti concorrenti ed hanno pertanto diritto ad essere soddisfatti secondo il principio della parità di trattamento, salve le cause legittime di prelazione.

In questo quadro, conclude la Cassazione, tutti gli atti compiuti dal fallito ed i pagamenti da lui effettuati dopo la dichiarazione del fallimento, a prescindere dalla loro idoneità a recare pregiudizio, sono sanzionati come inefficaci rispetto ai creditori.

E tra i pagamenti inefficaci rientra ogni atto estintivo di un debito riferibile al soggetto fallito, o comunque capace di incidere sulla consistenza patrimoniale del patrimonio spossessato; compresi, pertanto, anche quelli relativi a debiti di imposta o contributivi, operati dal fallito in favore dell'erario o dell'agente esattore.

E questo anche quando il pagamento venga effettuato a seguito di riscossione coattiva, dovendo a quel punto l'erario restituire la somma incamerata e/o insinuare al passivo il corrispondente credito.

Tale schema, evidenziano ancora i giudici di legittimità, non muta del resto neppure nell'ipotesi in cui il soggetto fallito abbia effettuato un pagamento per ritenute di acconto IRPEF.

Sebbene, infatti, le ritenute siano operate sulle retribuzioni di pertinenza dei lavoratori, per un verso, le relative somme rientrano comunque nel patrimonio oggetto di spossessamento ex art. 42 l. fall., e, per altro verso, come visto, il potere di amministrazione dei rapporti debitori, compresi quelli fiscali, contributivi e di lavoro, resta in ogni caso concentrato in capo al curatore, senza esclusione o distinguo.

I soli beni che non ricadono nel fallimento – e quindi non sono appresi alla massa fallimentare spossessata – sono del resto espressamente annoverati dall'art. 46 l. fall., che contempla i beni strettamente correlati alla persona del fallito, o ai membri del suo nucleo familiare, le cose che non possono essere pignorate (art. 514 c.p.c.), gli stipendi, le pensioni, i salari e i redditi da attività del fallito.

In sostanza, l'inefficacia ex art. 44 l. fall. non colpisce i soli atti e i pagamenti relativi a situazioni e rapporti estranei al fallimento, o relativi ai beni esclusi dallo spossessamento di cui all'art. 46 l. fall.

Viceversa, ciascun pagamento che incida sul patrimonio come cristallizzato alla data di fallimento deve ritenersi automaticamente inefficace, a prescindere dal pregiudizio arrecato ai creditori e dalla finalità cui assolva.

Osservazioni

Si ricorda che, da un punto di vista processuale, l'accertamento tributario, ove riguardi crediti i cui presupposti si siano determinati anteriormente alla dichiarazione di fallimento, o nel periodo d'imposta in cui detta dichiarazione è intervenuta, va comunque notificato non solo al curatore ma anche al contribuente, che non è privato, a seguito della declaratoria fallimentare, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, rimanendo esposto ai riflessi, anche sanzionatori, derivanti dalla definitività dell'atto impositivo.

Ne consegue che, alla luce dell'interpretazione sistematica del combinato disposto degli artt. 43 l.fall. e 16 d.P.R. n. 636/1972, conforme ai principi garantiti dall'art. 24 Cost., il fallito, nell'inerzia degli organi fallimentari – ravvisabile nell'omesso esercizio, da parte del curatore, del diritto alla tutela giurisdizionale avverso l'atto impositivo - è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela (cfr. Cass. n. 11618/2017; Cass. n. 8034/2017; Cass. n. 5392/2016; Cass. n. 4113/2014).

La notifica nei confronti del fallito non esclude comunque la notifica dell'avviso di accertamento anche nei confronti del curatore fallimentare, altrimenti l'avviso di accertamento resta inefficace nella procedura fallimentare, con la conseguenza che la cartella notificata al solo soggetto fallito è inopponibile alla curatela (cfr. Cass. n. 22277/2011; Cass. n. 25689/2015; Cass. n. 18002/2016; Cass. n. 28707/2018).

Il curatore fallimentare, in sostanza, ove la cartella non sia stata preceduta dalla previa notificazione, anche nei suoi confronti, dell'atto impositivo che ne costituisce il necessario presupposto, non avrà interesse ad impugnare la cartella di pagamento riguardante tributi dovuti in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento.

La ratio della notifica del provvedimento anche al soggetto fallito risiede comunque nel permettere allo stesso di prendere conoscenza della pretesa creditoria, onde valutare la possibilità di opporsi alla stessa; ciò, soprattutto qualora il curatore intenda prestare acquiescenza al provvedimento, adducendo ragioni non condivisibili sotto il profilo tecnico-giuridico, o, ancora, allorquando il medesimo curatore abbia fatto inutilmente spirare, per mera negligenza, i termini perentori entro cui adire la competente Commissione Tributaria Provinciale.

Tale impostazione è seguita anche dalla sentenza in commento, la quale rileva a tal proposito che in materia tributaria, “quantunque sussista la legittimazione concorrente del fallito con quella del curatore e il primo non sia privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, restando esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che conseguono alla "definitività" degli atti impositivi, nondimeno egli è abilitato ad invocare tutela avverso detti atti solo nell'inerzia degli organi fallimentari”.

È in ragione di ciò, conclude la Corte, che gli avvisi di accertamento e le cartelle esattoriali, anche se inerenti a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, devono essere notificati sia al curatore, in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione dei beni e delle attività acquisiti al fallimento, sia al contribuente fallito.

Tali conclusioni processuali, tuttavia, forse si pongono in contrasto con l'impostazione sostanziale già indicata nella sentenza in commento.

Più coerente potrebbe infatti considerarsi l'altra tesi (affermata da Cass. 27 maggio 2015, n. 10899), secondo cui , in seguito alla dichiarazione di fallimento, sarebbe corretta e legittima la notifica dell'atto impositivo al solo curatore fallimentare.

In base a tale tesi (sostenuta, a dire il vero, da giurisprudenza minoritaria), gli atti del procedimento tributario debbono essere emessi nei confronti del soggetto esistente al momento dell'emissione e quindi nei confronti della società, se sia questa la debitrice fallita, solo finché questa è in bonis. Con il fallimento, invece, anche se la società non viene meno, i suoi organi perdono la legittimazione sostanziale (art. 44 l. fall.) e processuale (art. 43 l. fall.), che viene assunta dalla curatela fallimentare, la quale, per tale ragione, subentra, a tutti gli effetti, nella posizione della fallita (cfr. Cass. n. 12893/2007).

Tesi quest'ultima, come visto, ribadita, almeno sostanzialmente, anche nella sentenza in esame.

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