Procedimento monitorio per la liquidazione dei compensi degli avvocati anche dopo l'abrogazione delle tariffe professionali?

13 Settembre 2021

Le Sezioni Unite hanno chiarito che in tema di liquidazione del compenso dell'avvocato, l'eliminazione del sistema delle tariffe professionali non ha comportato l'abrogazione dell'art. 636 c.p.c., per cui l'avvocato che intende agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali può avvalersi del procedimento per ingiunzione regolato dagli artt. 633 e 636 c.p.c.
Massima

In tema di liquidazione del compenso dell'avvocato, l'abrogazione del sistema delle tariffe professionali per gli avvocati, disposta dal d.l. 1/2012 convertito nella l. 27/2012, non ha determinato in base all'art. 9 del detto d.l. l'abrogazione dell'art. 636 c.p.c. Anche a seguito dell'entrata in vigore della suddetta normativa del 2012, l'avvocato che intende agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali può avvalersi del procedimento per ingiunzione regolato dagli artt. 633 e 636 c.p.c., ponendo a base del ricorso la parcella delle spese e prestazioni, munita della sottoscrizione del ricorrente e corredata dal parere della competente associazione professionale, il quale sarà rilasciato sulla base dei parametri per compensi professionali ex l. 247/2012 e di cui ai relativi decreti ministeriali attuativi.

Il caso

Un avvocato del foro di Roma prima, e lo stesso COA territoriale poi, segnalavano al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione l'indirizzo interpretativo consolidatosi presso il Tribunale della Capitale secondo cui i ricorsi per decreto ingiuntivo presentati per la liquidazione dei compensi legali potevano essere rigettatinonostante fossero corredati da prova documentata dell'attività svolta e dal parere di congruità emesso dal competente Consiglio dell'Ordine. Tale soluzione discendeva dall'assunto secondo cui l'art. 636 c.p.c. (per il quale la domanda azionata in via monitoria deve essere accompagnata dal parere di congruità dell'associazione professionale al quale il giudice deve poi attenersi) in quanto ancorato al sistema tariffario doveva ritenersi implicitamente abrogato a seguito dell'abolizione del medesimo da parte della l. 27/2012.

La nota del COA, evidenziando come tale orientamento risultasse isolato e non condivisibile, chiedeva l'intervento della Procura Generale per la formulazione di un'istanza alla Corte di Cassazione che consentisse di assicurare uniformità interpretativa sul tema.

Svolta apposita istruttoria sul tema ed acquisite informazioni da altri tribunali i quali, invece, riferivano di un indirizzo opposto, il Procuratore Generale presso la Cassazione chiedeva alla Suprema Corte a Sezioni Unite l'enunciazione di un principio di diritto nell'interesse della legge, così da superare i contrasti interpretativi ed uniformare l'applicazione della legge sul territorio nazionale.

La questione

Viene dunque chiesto alla Corte se: 1) «l'abrogazione del sistema delle tariffe professionali per gli avvocati, disposta dal d.l. 1/2012, convertito dalla l. 27/2012, abbia determinato, in base al disposto del suo art. 9, l'abrogazione dell'art. 636 c.p.c.»; 2) la persistente vigenza dell'art. 636 c.p.c. permetta all'avvocato «di agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali con la richiesta di decreto ingiuntivo, ai sensi dell'art. 633, comma 1, n. 2, c.p.c., sulla base della parcella e del parere di congruità rilasciato dal competente Consiglio dell'Ordire reso, a partire dall'abolizione del sistema tariffario disposto con la l. 27/2012, alla luce del sistema dei parametri per i compensi professionali di cui alla l. 247/2012 e ai relativi decreti ministeriali attuativi» (così la richiesta di enunciazione dei principi di diritto formulata dal P.G. presso la Corte di cassazione in questa Rivista, News del 22 settembre 2020).

Le soluzioni giuridiche

Le Sezioni unite, ritenuta ammissibile la richiesta del P.G., affermano che per tariffe obbligatorie devono intendersi non solo quelle per le quali l'ammontare del compenso è determinato in un importo fisso, tale da precludere al giudice alcun margine di valutazione, ma anche quelle che prevedono un massimo ed un minimo, qualora il difensore chieda la liquidazione del suo compenso nella misura minima.

Laddove ciò non accada, occorre che il professionista a corredo della richiesta effettuata in via monitoria provveda ad allegare sia la parcella da esso sottoscritta, quale «dichiarazione unilaterale assistita da una presunzione di veridicità, in quanto l'iscrizione all'albo del professionista è una garanzia della sua personalità», sia il parere dell'organo professionale, il quale, ad avviso della S.C., «non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale ma implica la valutazione di congruità del «quantum», attraverso un motivato giudizio critico», in tal modo vincolando il giudice del procedimento monitorio nella fase inaudita altera parte (ma non in quella successiva ed eventuale dell'opposizione a decreto ingiuntivo, potendo il giudice discostarsene, salvo l'obbligo di motivare adeguatamente la sua scelta).

A tale conclusione può giungersi in virtù dell'art. 2233 c.c., a tenore del quale il compenso dovuto per le prestazioni d'opera intellettuale, se non è convenuto dalle parti e se non può essere stabilito secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell'associazione professionale a cui il professionista appartiene.

Dalla norma citata si desume che l'intervento del giudice si pone come sussidiario, laddove manchi un accordo tra professionista e cliente sulla sua misura, ovvero non esistano tariffe obbligatorie.

Abrogato il sistema delle tariffe prima ad opera dell'art. 9, 1 comma della l. 27/2012 e poi con la successiva l. 247/2012, è stato espressamente affermato che il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale (art. 13, l. 247/2012) e che quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, il compenso è liquidato dal giudice «con riferimento ai parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante» (l. 247/2012, art. 13, comma 6), i.e. ai parametri previsti dal d.m. 55/2014, di recente rivisti ed aggiornati dal d.m. 37/2018.

Ora, per le Sezioni unite, «se la determinazione giudiziale deve tener conto dei parametri ministeriali (arg. l. 247/2012, ex artt. 13 e 13-bis), essi entrano nella struttura delle norme relative alla liquidazione dei compensi dei professionisti» e le completano fornendo al giudice un criterio di riferimento nell'attività di liquidazione a lui demandata. Se ciò è vero, allora, tra le tariffe abrogate e i nuovi parametri corre «una forte analogia se non una sostanziale omogeneità», avendo entrambi lo scopo di permettere la determinazione del compenso dovuto al professionista nei casi in cui non sia possibile far riferimento ad un accordo tra le parti.

Insomma, «tanto le tariffe quanto i parametri funzionano come criteri integrativi della remunerazione professionale» (par. 10.1); se è vero infatti che i c.d. parametri presuppongono una diversa tecnica di liquidazione, è del pari vero che questi ultimi, al pari delle tariffe svolgono una funzione sussidiaria, alla quale è possibile ricorrere nel caso in cui non risulti stipulato con il cliente un accordo sul compenso medesimo o sorga una lite tra le due parti del rapporto.

A ciò deve aggiungersi che né la legge professionale di cui al R.d.l. 1578/1933, art. 14, lett. d), né gli artt. 633 e 636 discorrono di tariffe, ma si limitano a richiamare la parcella dell'avvocato sottoscritta dal ricorrente e il parere della competente associazione professionale.

Mancando nell'art. 633 c.p.c., comma 1, n. 2, e art. 636 c.p.c., ogni riferimento alle tariffe non può configurarsi alcuna abrogazione espressa; del pari deve escludersi la possibilità di ritenere perfezionata l'abrogazione tacita per incompatibilità, giacché dal complesso delle norme attualmente in vigore può tarsi la possibilità di una liquidazione giudiziale del compenso professionale ancorata a parametri predeterminati, al pari di quanto accadeva in passato sotto la vigenza delle tariffe professionali.

In conclusione, «l'effetto abrogativo deve ritenersi limitato solo alla parte in cui la norma rinvia alla fonte di rango inferiore ormai soppressa, lasciando per il resto in tutto e per tutto inalterata la relativa struttura: la previsione del diverso criterio di liquidazione dei compensi, costituito dai parametri, comporta l'effetto sostitutivo dell'elemento abrogato con il nuovo sistema, ritenuto dal legislatore più congruo e agevole rispetto al precedente» (par. 11.6).

Osservazioni

La questione oggetto della decisione in commento invero non è nuova, avendo già interessato le Sezioni Unite della Corte di Cassazione per almeno altre due precedenti occasioni.

Si intende fare riferimento alle decisioni a Sezioni unite n. 4485/2018 e n. 4247/2020 che, nel ricostruire il sistema creato dal nuovo testo dell'art. 28 della l. 794/1942 come modificato dall'art. 14 del d.lgs. 150/2011, hanno dato atto della coesistenza dell'art. 633 c.p.c., accanto al procedimento speciale disciplinato dall'art. 14 del d.lgs. 150/2011.

Con la decisione in commento, viene dunque definitivamente esplicitata la tesi già in nuce fatta propria dalla S.C. secondo cui deve escludersi l'abrogazione del sistema monitorio di cui agli artt. 633 e 636 c.p.c. per effetto della soppressione delle tariffe professionali obbligatorie.

Ne deriva, perciò, che il ricorso per decreto ingiuntivo per la liquidazione dei compensi professionali dell'avvocato deve considerarsi ancora ammissibile; pertanto, laddove il compenso non sia stato oggetto di un accordo preventivo, esso potrà essere liquidato secondo la parcella presentata dal professionista e integrata dal parere del COA.

Ciò in quanto il criterio di liquidazione delle prestazioni forensi si è innovato attraverso la nuova legge professionale, restando rimasto intatto il potere di opinamento dei COA che oggi riguarda i parametri, anziché le tariffe.

Dunque, si conferma l'idea, già in passato fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il monitorio «puro» è sopravvissuto alla soppressione delle tariffe obbligatorie, al pari del parere di congruità reso dalle competenti associazioni professionali.

Residua, tuttavia, la questione attinente al ruolo che il parere suddetto riveste nel sistema monitorio che si è descritto, che è quello di rendere liquida la parcella la quale è, a sua volta, atto unilaterale del creditore.

Sul punto, la richiesta di enunciazione del principio di diritto nell'interesse della legge avrebbe potuto essere utile per risolvere siffatta questione.

Al riguardo, infatti, sono individuabili due opposti orientamenti.

Secondo l'indirizzo maggioritario, il parere inciderebbe solo sul quantum debeatur, ossia si limiterebbe ad un mero controllo di congruità tra la somma richiesta e quanto previsto dalle tariffe (ieri, oggi dai parametri) per l'attività dichiarata (per tutti v. T.A.R. Toscana, Sez. I, 2 luglio 1996, n. 596, in Foro Amm. TAR, 1997, 541).

Viceversa, secondo altro indirizzo, il parere inciderebbe non solo sul quantum, ma anche sull'an debeatur. In altre parole, la funzione del parere non si esaurirebbe in una mera certificazione di corrispondenza dell'importo richiesto a quello indicato nelle tariffe, ma implicherebbe anche il potere per il Consiglio dell'Ordine di valutare la congruità della somma richiesta rispetto all'importanza ed alla complessità dell'opera prestata, consentendogli, dunque, di verificare anche la sussistenza dell'incarico conferito al professionista (Cons. Stato, sez. IV, 24 dicembre 2009, n. 8749, in Foro Amm. CdS, 2009, 12, 2833).

Quest'ultimo indirizzo che si ribadisce è assolutamente minoritario, non trova l'adesione della prevalente dottrina. Come autorevolmente sostenuto, «l'attribuzione agli ordini professionali di un potere di indagine circa l'effettività delle prestazioni indicate nella parcella […] appare comunque smentita, nella sua conformità alla volontà del legislatore, dalla seconda proposizione del comma 1 dell'art. 636 c.p.c.: se il parere dell'associazione professionale non occorre quando le tariffe sono determinate in cifra fissa, ciò è segno evidentissimo che l'intervento dell'ordine non ha nulla a che fare con il controllo sull'effettività della prestazione del professionista, ma attiene esclusivamente alla valutazione sulla congruità della controprestazione dovuta dal cliente» (cfr. Ronco, Procedimenti sommari (633-639 c.p.c.), in I procedimenti sommari e speciali, a cura di Chiarloni e Consolo, Torino, 2005, 147).

Sulla scorta dell'indirizzo maggioritario, la Corte di cassazione ha interpretato la norma in esame nel senso di attribuire al parere di congruità efficacia vincolante solo in sede di emissione del decreto ingiuntivo, venendo la parcella, corredata dal predetto parere, ad assumere in tal sede valenza di dichiarazione unilaterale, sorretta da presunzione di veridicità (ex multis Cass. civ., sez. II, 17 aprile 2013, n. 9366, in Dir. & Giust., 2013, 4).

Viceversa, tale efficacia verrebbe meno in sede di opposizione laddove, a seguito dell'apertura di un procedimento ordinario di cognizione, in contraddittorio tra le parti, il professionista, assumendo la veste di attore in senso sostanziale, è chiamato a provare il credito da lui vantato. In sostanza, spetta al professionista, in caso di contestazione da parte dell'opponente, provare il conferimento dell'incarico, l'attività da lui svolta nonché la congruità dell'importo richiesto, senza che il predetto parere possa assumere alcuna valenza per il giudice, il quale ha facoltà di discostarsene dietro congrua motivazione.

Alla luce di quanto riportato, vi è da domandarsi se tale orientamento possa essere ribadito anche dopo la riforma attuata dal d.lgs. 150/2011 al procedimento di liquidazione dei compensi degli avvocati. Come è noto, l'art. 14, 1 comma del d.lgs. 150/2011 riproduce la previsione, di cui al previgente art. 30 della l. 794/1942, oggi abrogato, secondo cui l'opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di spese, onorari e diritti di avvocato per prestazioni giudiziali civili, deve svolgersi secondo il procedimento speciale previsto per la liquidazione degli onorari.

Stando alla già citata decisione delle Sezioni unite n. 4485/2018, sebbene dal dato letterale dell'art. 14, 1 comma sembri desumersi che la forma dell'opposizione sia quella indicata dall'art. 645 c.p.c. e, dunque, che l'opposizione debba introdursi con citazione, con la conseguente inapplicabilità delle regole concernenti il rito sommario di cognizione, tale interpretazione «sembra contraria alla logica dell'adozione del rito sommario, che non giustifica l'esclusione della fase di introduzione dell'opposizione dall'efficacia regolatrice disposta dall'art. 14». Se così è ne discende che l'opposizione va proposta con ricorso e che l'intero procedimento segue le forme del rito sommario di cognizione.

Qualora in sede di opposizione venga contestata nell'an la domanda monitoria, secondola ricostruzione operata dalla giurisprudenza di legittimità, il giudizio di opposizione resta soggetto al rito di cui all'art. 14 d.lgs. 150/2011 anche quando i clienti sollevino contestazioni relativamente all'esistenza del rapporto o, in genere, all'an debeatur. Infatti, secondo l'orientamento della Corte di Cassazione, soltanto qualora il convenuto ampli l'oggetto del giudizio di una domanda (riconvenzionale, di compensazione o di accertamento pregiudiziale), la trattazione di quest'ultima dovrà avvenire, ove si presti a un'istruttoria sommaria, con il rito sommario (congiuntamente a quella proposta ex art. 14 dal professionista) e, in caso contrario, con il rito ordinario a cognizione piena (ed eventualmente con un rito speciale a cognizione piena), previa separazione delle domande.

Inoltre, qualora la domanda introdotta dal cliente non appartenga alla competenza del Giudice adito, troveranno applicazione gli artt. 34, 35 e 36 c.p.c. che eventualmente possono comportare lo spostamento della competenza sulla domanda ai sensi del citato art. 14 (Cass. civ., sez. un. 4485/2018, cit.; Cass. civ. 27 febbraio 2019, n. 5733).

Dunque, è ben possibile contestare l'an debeatur in sede di opposizione a decreto ingiuntivo senza che ciò determini alcun mutamento di rito (salve le precisazioni appena riportate); in tale sede, seguendo la tesi secondo la quale il parere di congruità riguarda solo il quantum, il giudice, al pari di quanto accadeva in passato, ha la facoltà di discostarsene, previa adeguata motivazione, spettando la professionista dare la prova dell'esistenza dell'incarico.

Vi è di più; trattandosi di un provvedimento amministrativo, che, in quanto tale deve essere corredato da una sia pure succinta motivazione, il giudice lo può disapplicare e conseguentemente rigettare la domanda già in sede monitoria ove riscontri che il parere sia carente di motivazione.

Invero, proprio con riguardo alla fase monitoria, sorge un problema di prova rispetto all'an debeatur, potendosi domandare quale sia la prova diretta a sorreggere l'esistenza dell'avvenuta prestazione rispetto alla quale si chiede la liquidazione del compenso. Partendo dall'idea per cui il parere di congruità riguarda solo il quantum, allora è chiaro che il Consiglio dell'Ordine non entra nel merito dell'esistenza della prestazione; ciò tuttavia sembra determinare il sorgere del problema relativo alla necessità della prova dell'an in tale sede, a meno che non si sostenga la tesi - che invero appare implicitamente fatta propria dalla decisione in commento - a mente della quale la parcella emessa dall'avvocato costituisca, essa stessa, la prova scritta che proviene dallo stesso creditore, come avviene per gli artt. 634 e 635 c.p.c..

Invero, i problemi sollevati paiono rivestire un'importanza più teorico-sistematica che pratica, in quanto dopo l'abolizione del sistema tariffario con l'introduzione delle pattuizioni scritte e dopo la pronuncia delle S.U. n. 4485/2018 cit., che ha ampliato la portata dell'art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 estendendola all'an debeatur, il numero dei ricorsi monitori fondati sul parere del Consiglio dell'Ordine si è di molto ridotto, essendo il decreto ingiuntivo richiesto allo scopo di conseguire un titolo unico per più prestazioni eventualmente espletate davanti ad uffici giudiziari diversi o in diversi gradi, evitando in tal modo evitare frazionamenti di cause ex art. 637 comma 3 c.p.c.

Riferimenti
  • Carbone L., La «liquidazione» della parcella da parte dell'Ordine professionale, in Giust. civ., 1991, II, 497.
  • Frasca, Abrogazione del sistema tariffario forense e art. 636 c.p.c., in www.judicium.it, 2021;
  • Giordano, Brevi note sulla disciplina intertemporale in tema di liquidazione dei compensi degli avvocati, in Corr. Merito, 2013, 1, 35;
  • Magrone, Onorari del procuratore e parere del Consiglio dell'Ordine, in Foro it., 1968, I, 2518;
  • Metafora, Il procedimento per la liquidazione dei compensi degli avvocati, Napoli, 2020;
  • Signori, Potere discrezionale del giudice nella rideterminazione degli onorari dell'avvocato, in Nuova Giur. Civ., 2013, 9, 1765.

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