LGBT vittima di stalking: le offese basate sull’orientamento sessuale giustificano il risarcimento del danno morale ed esistenziale
17 Settembre 2021
Rigettando il ricorso avverso la condanna per stalking commesso ai danni di una persona in ragione del suo orientamento sessuale, la Cassazione ha sottolineato come il pregiudizio sofferto rilevi sotto il peculiare aspetto del “genere” della persona offesa e giustifichi quindi il riconoscimento del danno morale ed esistenziale patito.
Stalking e risarcimento per la parte civile. La Corte d'Appello di Torino confermava la condanna di prime cure per due imputate condannate per concorso nel reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.). Veniva confermata anche la condanna al risarcimento del danno morale ed esistenziale per la persona offesa. Dalla ricostruzione della vicenda emerge che le due imputate avevano rivolto messaggi minatori ai danni della persona offesa, evocativi anche delle tendenze sessuali di quest'ultima. I messaggi erano stati inviati anche ad amici e conoscenti della persona offesa, fino ad integrare esplicite minacce di morte.
Danno morale e esistenziale. La Cassazione sottolinea in primo luogo come correttamente i giudici di merito abbiano qualificato il danno subito dalla persona offesa come morale ed esistenziale rilevante sotto il peculiare aspetto del “genere” della persona offesa, «come enucleabile dalle fonti internazionali, con particolare riferimento alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa del 11/04/2011, in relazione specificamente all'orientamento sessuale». Nella vicenda in esame sussiste infatti il danno morale per le sofferenze causate alla vittima dalla condotta ingiuriosa e volgare derivante dalle invettive subite proprio a causa del suo orientamento sessuale, mentre il danno esistenziale scaturisce dalle conseguenze pregiudizievoli subite nella sua dimensione lavorativa e sociale. Viene dunque escluso ogni dubbio sulla liquidazione in via equitativa del danno sofferto dalla persona offesa, risultando ampiamente assolto l'onere motivazionale da parte del giudice di merito.
Escluse le attenuanti generiche. Ugualmente indiscutibile, per la Cassazione, è l'esclusione delle attenuanti generiche per la mancanza di indici di resipiscienza e per la protrazione delle condotte persecutorie. Il fatto che anche le due imputate fossero lesbiche, così come la persona offesa, non esclude la gravità delle condotte con le quali venivano volutamente utilizzati termini dispregiativi nei confronti della vittima, con la palese volontà di colpirne l'identità di genere. Anzi, come precisa il giudice di prime cure, «proprio l'analogo orientamento sessuale delle imputate rende ancor più gravi le condotte delle stesse, in quanto perfettamente consapevoli delle sofferenze che possono derivare da discriminazioni sessuali».
La giurisprudenza europea e nazionale. La Cassazione richiama poi la posizione della Corte EDU sul tema la quale ha evidenziato con la sentenza Lilliendahl c. Islanda del 12 maggio 2020 che una legislazione penale di contrasto ai discorsi d'odio contribuisce alla corretta realizzazione della libertà di manifestazione del pensiero in una società democratica e plurale. Sempre secondo la CEDU, deve essere escluso che leggi contro le discriminazioni e l'incitamento all'odio nei confronti di persone LGBT possano costituire un'illegittima limitazione della libertà di pensiero. Ne consegue che «in tale contesto va declinata l'identità di genere, ossia la percezione che ciascuna persona ha di sé come uomo o donna, il che non necessariamente corrisponde con il sesso attributi alla nascita; il genere, quindi, indica qualunque manifestazione esteriore di una persona, che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse all'essere uomo o donna» (v. Direttiva 2011/95/UE, Direttiva 2012/29/UE e la già citata Convenzione di Istanbul). Nel diritto interno, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 221/2015 ha riconosciuto il diritto all'identità di genere «elemento costitutivo del diritto all'identità personale, rientrante a pieno titolo nell'ambito dei diritti fondamentali della persona». Il principio è stato ribadito nella sentenza n. 180/2017, secondo cui «l'aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz'altro espressione del diritto al riconoscimento dell'identità di genere». In altre parole, «l'identità di genere, quindi, valorizza la fluidità delle appartenenze, attribuendo importanza allo spazio di autodeterminazione individuale in una prospettiva di rifiuto degli stereotipi e, quindi, di coesistenza con il concetto di "sesso", che, invece, mette in risalto la dimensione biologica». In conclusione, la Corte rigetta il ricorso.
(Fonte: Diritto e Giustizia) |