Il curatore e l'azione di responsabilità per mala gestio verso gli amministratori di società di capitale

Aldo Fittante
01 Ottobre 2021

L'articolo approfondisce il tema dell'azione del curatore della società in fallimento avverso le condotte di mala gestio dell'amministratore. Previa ricognizione della fattispecie, viene presa in specifica considerazione la normativa applicabile a s.p.a., facendo un cenno alla disciplina delle s.r.l., anche ove l'azione sia esercitata nella fase concorsuale.
La mala gestio dell'amministratore

L'accertamento della responsabilità degli amministratori si sostanzia nel controllo sul loro operato, per verificare il rispetto dei doveri di legge e di quelli, ulteriori, sanciti dallo statuto.

In particolare, deve essere valutato, primariamente, l'inesatto adempimento ai suoi doveri, dopodiché si dovrà fare altrettanto con il danno che ne sia eventualmente conseguito.

Al fine di comprenderne esattamente l'ubi consistam, giova passare in rassegna gli obblighi imposti dalla legge agli amministratori ed eventualmente dall'atto costitutivo delle società.

Regola generale in materia è l'art. 2392 c.c.

La norma, specificamente relativa alle S.p.a. , prevede che gli amministratori delle società per azioni devono adempiere ai doveri ad essi imposti dalla legge o dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze. Ove ciò non avvenga, la violazione cui segua un danno determina la loro responsabilità solidale verso la società, con la precisazione, espressa al comma secondo, per cui vale lo stesso qualora gli amministratori, a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbiano fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.

Il codice attuale non enuclea le ipotesi di responsabilità, ma ne offre soltanto una prospettazione di carattere generale.

Sono rari nel tessuto codicistico, eppur presenti, gli obblighi espressi in dettaglio. Si pensi all'art. 2391, comma 4, c.c., che regolamenta il conflitto di interessi o all'art. 2390, comma 2, c.c. che chiama gli amministratori a rispondere per violazione delle regole di concorrenza. Tali norme sono state ritenute da alcuni autori (tra questi cfr. Ferri, Le società, in Tr. Di Dir. Civ. Torino, 1971) inutili superfetazioni, sul presupposto che la responsabilità sussisterebbe ugualmente in forza della regola generale contenuta all'art. 2392 c.c.

Altri, invece, ritengono che la scelta di non individuare una tassonomia delle ipotesi di responsabilità degli amministratori riposi su una ragione fattuale, essendo impossibile predisporre a priori un elenco esaustivo delle condotte cui essi sono tenuti nella concreta gestione di casi dotati di copiose specificità (cfr. in particolare Bonelli, La responsabilità degli amministratori di S.p.a., Milano 1992).

V'è poi chi distingue gli obblighi degli amministratori in base al contenuto della prestazione dovuta (ad obblighi legali si affiancano quelli statutari; accanto agli strumenti prescrittivi sussistono quelli dispositivi) e chi, invece, individua la responsabilità dell'amministratore muovendo dallo scopo delle imposizioni: l'organo risponderà del danno cagionato per violazione degli obblighi e doveri connessi al miglior andamento societario, concernenti l'integrità del patrimonio sociale, il controllo sui conferimenti, la corretta gestione dei bilanci, il corretto impiego del patrimonio sociale, la non assunzione di partecipazioni in imprese con oggetto diverso, il dovere di non concorrenza, il divieto di offrire false comunicazioni sociali, la trasparenza nella gestione e il non ostruzionismo ai controlli, anche di tipo fiscale e tributario.

La giurisprudenza pare seguire tale filone diversificante, individuando alcuni obblighi precipui e altri generali, come quello di amministrare diligentemente. Tra i doveri di natura generale, diversi arresti della Corte di legittimità (in particolare, si veda Cass. SSUU 6 maggio 2015, n. 9100) collocano quelli espressi negli artt. 2391 e 2392 c.c., evidenziando che, laddove l'amministratore persegua l'interesse sociale, realizza un'obbligazione di mezzi e mai di risultato. Perciò, nella valutazione circa l'esatto adempimento, la diligenza assume un rilievo dirimente che, nel caso specifico, va oltre il mero livello di ideale parametrazione, risolvendosi in un carattere della condotta che deve essere dimostrato processualmente come sussistente, ove si voglia escludere la responsabilità, o che difetta, ove si voglia addebitarla (Bozza, Diligenza e responsabilità degli amministratori in società in crisi, in Fall., 2014).

I maggiori elementi di valutazione si ricavano dal contesto operativo della condotta dell'amministratore, giacché in sede di accertamento della responsabilità il giudice dovrà porsi idealmente nella condizione in cui quegli si trovava e valutare, alla luce delle circostanze specifiche in cui ha agito, se avrebbe dovuto astenersi dai comportamenti in effetti tenuti, ovvero attuarli con altra modalità, per conformarsi ai richiamati doveri di diligenza.

Diversamente, ove l'amministratore abbia violato doveri precipui, l'inesatto adempimento consisterà nella mancata tenuta della condotta prescritta dalla legge o dallo statuto. Si assottiglia, in tal modo, il confine con l'obbligazione di risultato, poiché, dettandosi modalità di comportamento in funzione degli scopi precettivi (es. il perseguimento dell'interesse sociale o la regolarità del bilancio), si individuano prestazioni finalizzate al risultato, ove la responsabilità sussiste proprio per averlo mancato non adottando il comportamento richiesto. L'amministratore, quindi, si libererà mediante la prova della inimputabilità dell'inadempimento, secondo le regole di cui all'artt. 1218 ss. c.c., non risultando sufficiente la comprovata tenuta di un diligente operato.

Può sommariamente tracciarsi un elenco - non esaustivo - degli obblighi di condotta amministrativa, generali e specifici, tracciati per categorie: il generale dovere di agire con diligenza, i puntuali doveri di azione in assenza di conflitto di interessi, gestione conforme all'oggetto sociale, di informare e agire informati, di conservazione del patrimonio sociale, di corretta tenuta della contabilità sociale e di osservazione delle norme fiscali e previdenziali.

Tra i predetti, occorre soffermarsi più approfonditamente sulla diligenza richiesta dalla legge all'organo amministrativo.

Il legislatore ha espunto dal codice civile il riferimento, contenuto nella previgente formulazione dell'art. 2392 c.c., alla figura del mandatario ed alla correlata diligenza del buon padre di famiglia (rispettivamente, artt. 1710 e 1176, comma 1, C.c.).

Oggi la norma si richiama al canone della diligenza professionale, di cui all'art.1176, comma 2, c.c. (“...con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze”).

Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti l'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata, assumendo pertanto una connotazione aggravata, poiché parametrata a un bagaglio conoscitivo ed esperienziale più elevato rispetto a quello dell'uomo medio cui fa capo la prima forma di diligenza. In particolare, nella valutazione della condotta dell'amministratore occorrerà tenere conto della concreta modalità di gestione societaria, rilevandosi differenze tra coloro che detenessero anche un ruolo di presidenza ovvero che fossero autorizzati ad agire con delega o senza delega (Sandulli, La riforma delle società, Torino 2003).

Non appare condivisibile, invece, il rilievo mosso da alcuni autori in dottrina, secondo il quale la riforma dell'art. 2392 c.c., intervenuta nel 2003, avrebbe imposto agli organi un ulteriore dovere di perizia (Sandulli), in quanto ciò andrebbe a incrementare in modo sproporzionato i doveri dell'amministratore, rendendone necessaria una competenza anche di carattere contabile, finanziario o attinente al bilancio, in base all'attività di volta in volta venuta in considerazione e posta in contestazione (e ciò trova conferma anche nella relazione ministeriale al D.lgs. n. 6/2003).

Sembra preferibile, piuttosto, aderire all'impostazione di chi ritiene che l'amministratore debba essere dotato soltanto del bagaglio tecnico minimo per la gestione della società, ovviamente avuto riguardo all'attività da essa svolta in concreto, nonché alla sua effettiva natura - ad esempio, assumendo rilievo il dato della quotazione in borsa (v. Bozza, op. cit. e Dimundo, Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali, 2019), potendosi individuare, quindi, uno standard di comportamento medio quale parametro cui ricondursi nell'accertamento della responsabilità.

In merito alla diligenza è opportuno, inoltre, considerare un limite alla discrezionalità del sindacato giudiziale sull'operato degli amministratori. Esso è integrato dalla cosiddetta business judgement rule e si verifica ogni qual volta l'attività gestoria intrapresa estrinsechi un'opzione di convenienza, ritenuta dall'amministratore - in concreto - più vantaggiosa per gli interessi societari.

Ciò non significa liberalizzare condotte arbitrarie dell'organo, ma porre un distinguo tra la contestabile negligenza e il libero agire discrezionale.

Perciò, si ritiene che la condotta dell'amministratore che anche abbia generato perdite o non abbia prodotto utili non configura una ipotesi di responsabilità, possibile solo in caso di violazione di doveri imposti per legge o per statuto, non apparendo sufficiente il generico riferimento all'esito infausto della gestione sociale. Non sussiste, infatti, alcun obbligo di successo economico per l'organo gestorio e il merito delle scelte d'opportunità imprenditoriale è insindacabile nel giudizio di accertamento della sua condotta; si deve, cioè, prescindere dal mancato ottenimento del risultato utile nell'esperire la valutazione di responsabilità, perché altrimenti si verificherebbe un'indebita ingerenza del giudice negli affari sociali e, peraltro, addebitare una responsabilità in base ai risultati ottenuti camufferebbe inammissibili forme di responsabilità oggettiva, posto che il risultato sfugge al controllo dell'amministratore (Rordorf, Doveri e responsabilità degli amministratori di società in crisi, in Società, 2013).

Il giudizio è quindi modulato secondo le regole della full jurisdiction, tipicamente impiegate nell'ordinamento in materia amministrativa, che garantiscono al giudice un pieno accesso al fatto, ma non la sostituibilità della scelta tecnica. L'interprete è chiamato a compiere valutazioni di ragionevolezza e credibilità logico-razionale dell'opzione discrezionale esercitata in concreto dall'amministratore, apprezzando i margini di rischio preventivi ch'egli poteva (e doveva) tenere in debito conto al momento della condotta, valutati in considerazione degli standard di riferimento oggettivi (id quod plerumque accidit) e soggettivi (homo eiusdem condicionis et professionis), come richiesto dall'art. 2381, ultimo comma, C.C. nell'imporre l'obbligo di agire informati agli amministratori e dunque prescrivendo l'adozione di verifiche e cautele preventive all'azione imprenditoriale (Cass. n. 17494 del 4 luglio 2018).

Nell'ottica di un giudizio efficiente, si appalesano sindacabili le scelte avventate e imprudenti, che superano i limiti di ragionevolezza della discrezionalità imprenditoriale, in quanto nessun amministratore diligente e assennato le avrebbe adottate, ove posto nelle stesse condizioni precipue dell'amministrazione il cui operato è posto in accertamento sub iudice; in tale sindacato di ragionevolezza è stato individuato, pertanto, un limite alla regola della busisness judgement rule (Nigro, Principio di ragionevolezza e regime degli obblighi e della responsabilità degli amministratori di S.p.a., in Giur. Comm., 2013, I, 470).

Le azioni di responsabilità codicistiche contro l'amministratore responsabile per mala gestio

Chiariti i profili di responsabilità per mala gestio degli amministratori delle società di capitali, si rende opportuno trattare le azioni di responsabilità contro gli amministratori disposte a tutela di società e soci, nonché dei creditori.

Primariamente, è l'art. 2393 c.c. che interviene a disciplinare l'azione sociale di responsabilità. Esso afferma la possibilità di promuovere l'azione di responsabilità contro gli amministratori a seguito di deliberazione dell'assemblea, anche se la società - precisa l'ultimo comma - è in liquidazione.

Al comma secondo e terzo sono dettate le modalità deliberative per esperire detta azione: l'occasione della discussione di bilancio, qualora si faccia questione di fatti occorsi nell'esercizio cui il documento contabile si riferisce, nonché all'esito di una deliberazione del collegio sindacale, assunta con la maggioranza dei due terzi dei componenti.

Al comma terzo è, ulteriormente, individuato un termine di decadenza per l'esercizio dell'azione sociale, che è promuovibile entro cinque anni dalla cessazione in carica dell'amministratore il cui operato è posto in contestazione. Diversamente, ove la predetta deliberazione dell'azione di responsabilità intervenga a mandato ancora in corso, importa la revoca ufficiosa dell'amministratore, purché sia stata adottata col voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale.

L'azione è rinunciabile nei termini di cui al medesimo art.2393 c.c. e, in forza del successivo art.2393-bis c.c., può essere promossa anche dai soci, anziché dall'organo societario in sé (assemblea), i quali possono comunque rinunziarvi e transigere con le medesime modalità.

L'azione sociale, ove esercitata dai soci, è ammessa - in via generale - se coloro che la promuovono rappresentano almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura disposta nello statuto societario, nel limite del terzo; fanno eccezione le società quotate per cui sono previste regole diverse.

I soci promotori, a maggioranza del capitale posseduto, nominano uno o più rappresentanti comuni, al fine di esercitare l'azione, e recuperano le spese dal patrimonio sociale, ove la domanda sia accolta, ma resta ferma la destinazione al medesimo patrimonio sociale di ogni corrispettivo ottenuto in ragione dell'azione.

La normativa ordinaria prevede poi l'azione di responsabilità a beneficio dei creditori sociali: gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale. Nel caso in cui, come spiega il comma secondo dell'art. 2394 c.c., il patrimonio sociale si appalesi insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti, i creditori possono procedere contro gli amministratori.

Il legislatore chiarisce, inoltre, l'indipendenza di tale azione rispetto a quella sociale. Infatti, anche ove la società abbia rinunciato all'azione, i creditori possono comunque procedere nei confronti degli amministratori e, anzi, è loro riservata la facoltà di impugnare con revocatoria la transazione eventualmente conclusa tra i predetti organi, ove ne ricorrano gli estremi.

Come si nota, mentre l'azione di responsabilità verso i creditori è ammessa a fronte della lesione dell'integrità del patrimonio sociale, quella sociale in senso stretto ha tra i propri presupposti tutti i profili di violazione dei doveri di condotta e gestione dell'organo, ivi raccolti al precedente paragrafo 2.

Le differenze, inoltre, sussistono sul piano della natura della responsabilità. Mentre risponde alla disciplina ex art.1218 c.c. e ss. quella nei riguardi di società e soci, atteso che origina dall'inadempimento di doveri assunti nel rapporto di immedesimazione organica che si instaura con la società, ha natura aquiliana la responsabilità verso i creditori, la cui base giuridica riposa nell'art. 2043 c.c. (s sostegno si veda Cass. 22 ottobre 1988 n.10488 e Cass. Civ. Sez. I, n.25977/2008).

Processualmente ne deriva una diversificazione in termini di onere probatorio: mentre è tenuto a fornire prova piena dell'inadempimento il creditore, nell'azione sociale è invece sufficiente adempiere ad un onere di mera allegazione, purché precipua e dettagliata, sulla scorta degli insegnamenti della nota sentenza della Cass. n. 13533/2001.

Deve darsi atto, inoltre, dell'azione disciplinata all'art. 2395 c.c., rubricata come individuale del socio e del terzo. La legge precisa che le disposizioni sin qui richiamate (e quella che si passa a trattare di seguito) non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori.

Si tratta dell'azione individuale, che può essere proposta nei confronti degli amministratori della società, entro cinque anni dall'atto dannoso compiuto nei loro riguardi, sia dai soci che dai creditori, intesi quali terzi aventi diritto, i quali abbiano subito dalla mala gestio un danno diretto al proprio patrimonio. L'azione in parola si distingue dall'azione di cui all'art. 2394 c.c., coinvolgente l'intero assetto creditorio e pertanto non è esercitabile dal curatore (Cass. n. 9983/2017 e, secondo il Trib. Napoli, 9 febbraio 2016, rientra tra queste l'azione risarcitoria per danno da abusiva concessione di credito: essa non è azione di massa, ma si volge a tutelare il singolo creditore e pertanto non può essere esercitata dalla curatela del fallimento).

Come rilevato, in casi simili occorre che si configuri un danno diretto in capo al socio o al terzo, ch'esso dovrà aver cura di provare in sede processuale, non essendo sufficiente il pregiudizio derivato in modo solo riflesso dal vulnus arrecato dall'amministratore al patrimonio della società.

Da ultimo, l'art. 2394-bis c.c. contempla l'azione di responsabilità nelle procedure concorsuali. La norma dà la stura alla trattazione specifica delle azioni esperibili dal curatore del fallimento, contenute agli artt. 2393, 2393-bis e 2394 c.c., nella parte in cui, in via generale, gliene assegna la titolarità in caso di fallimento.

La richiamata norma generale dev'essere coordinata con la legge speciale fallimentare, che all'art. 146 individua la base giuridica dell'azione del curatore del fallimento: previa autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori, ove nominato, il curatore esercita, tra l'altro, le azioni di responsabilità contro gli amministratori delle società per azioni, nonché quelle contro i soci della società a responsabilità limitata.

Le azioni del curatore fallimentare: l'art. 146 l.fall. e la disciplina ordinaria applicabile

E' dunque l'art. 146, comma 2,l . fall., a fissare la base giuridica (speciale) delle azioni di responsabilità verso gli amministratori delle società di capitali, la cui titolarità spetta al curatore del fallimento.

La natura della legittimazione del curatore è meramente processuale, permanendone la titolarità in capo ai soggetti sostituiti in giudizio.

In quest'ottica, l'art.146 l. fall. assume un carattere meramente ricognitivo delle azioni disciplinate a livello codicistico (Dongiacomo, op. cit.).

Essa è multiforme, a titolarità esclusiva e derivata, consistente in una mera delegazione processuale (Bernabai, Profili processuali delle azioni di responsabilità, in Società, 2005), volta a reagire alle condotte di mala gestio perpetrate dagli amministratori che, per dolo o per colpa, non abbiano adempiuto ai loro doveri nella fase fisiologica della vita societaria, ovvero in avvio a quella patologica (mediante il pronto accertamento delle cause di scioglimento della società, ovvero gestendola in modo da conservarne l'integrità patrimoniale, in rapporto a quelle già poste in scioglimento).

Si tratta dei rimedi espressi negli artt. 2393 ss. c.c. per le S.p.a. (e nei diversi artt. 2476 ss. c.c. per le S.r.l.). Le richiamate norme di rango ordinario si pongono in combinato disposto con tale legge di settore, speciale, per cui al curatore spetta la legitimatio ad processum assegnata, fuor di fallimento, a società, creditori e soci (Cabras, La responsabilità per l'amministrazione delle società di capitali, Torino, 2002).

La previsione duplica quanto già previsto all'art. 2394-bis c.c. e anticipa l'ulteriore dettato dell'art. 206, comma 1, della stessa L. F., in relazione alle società poste in liquidazione coatta amministrativa, per cui è comunque il commissario liquidatore, ai sensi degli artt. 2393 e 2394 c.c., ad agire contro gli amministratori (Cabras, ibidem).

Dalla formulazione testuale delle norme richiamate si ricava, quindi, una legittimazione trasversale e onnicomprensiva del curatore, potendo egli esercitare tutte le azioni di responsabilità contro gli amministratori che abbiano condotto la società con mala gestio.

Secondo alcuni Autori, la formulazione ampia dell'art.146 L. Fall., compiendo una rimessione generica al curatore di tutte le azioni di responsabilità, ne determinerebbe una legittimazione anche ulteriore rispetto a quella prevista dall'art. 2394-bis c.c. Si assisterebbe, pertanto, ad una legittimazione non tipizzata e coinvolgente anche società d'altra natura rispetto a quelle di capitali, come le società di persone, o d'altra veste, come le cooperative, entro limiti di compatibilità disciplinare (Dongiacomo, in “Codice della crisi di impresa”, 2017).

Individua, invece, un limite certo alla legittimazione del curatore l'immediato vantaggio che abbia a ricavare dall'esercizio del rimedio il patrimonio oggetto della procedura concorsuale.

Invero, sia in relazione ai soci che in rapporto ai creditori, il curatore potrà agire solo ove l'azione sia “di massa”, cioè finalizzata alla ricostituzione del patrimonio su cui i creditori - ammessi al passivo del fallimento - possono soddisfare le loro ragioni, secondo l'ordine di legge. Dal che discende l'impossibilità per il curatore di esperire azioni volte alla tutela d'interessi specifici di soci o creditori direttamente danneggiati nel patrimonio individuale dalla mala gestio dell'amministratore. Nonostante l'evocata generalità della sua legittimazione, è opinione pacifica che il curatore non sia ammesso ad agire ex art. 2395 c.c. (v. la sentenza Cass. n. 6870/10).

La norma, nel prevedere che le azioni sociali e dei creditori non pregiudicano il diritto al risarcimento spettante al singolo socio o terzo direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori, segrega due interessi distinti: da un lato, quello della procedura concorsuale alla acquisizione dei beni aggredibili dalla massa creditoria ammessa al passivo; dall'altro, gli interessi specifici, uti singuli, dei creditori o soci lesi nel loro patrimonio personale dall'azione degli amministratori. Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che il curatore non può agire ai sensi dell'art. 2395 c.c., poiché al contrario si configurerebbe un'inaccettabile violazione del principio di ne bis in idem sostanziale, illegittimamente duplicandosi il risarcimento cui gli amministratori sarebbero tenuti (in tal senso si è espresso il Trib. Napoli con sent. n. 946/07).

Inoltre, alla luce del rilevato divieto, preme dare atto di una ipotesi che consente al curatore di agire in nome dei singoli creditori o terzi. Secondo la Cassazione, intervenuta con sent. n. 22573 del 23/10/2014, a fronte dell'omissione di pagamenti preferenziali compiuta dagli amministratori, il curatore può agire assumendo su di sé la titolarità dell'azione dei singoli soci o creditori, sussistendo un interesse congiunto, poiché tale danno incide sia sugli interessi dei singoli che su quelli complessivi della procedura.

La titolarità dell'azione si riferisce alla fase concorsuale, dove il curatore è l'unico legittimato ad agire processualmente; tuttavia, la titolarità derivata consente un avvio antecedente alla procedura concorsuale, laddove le azioni siano già state proposte dai titolari del diritto, con conseguente surroga del curatore. Egli può, quindi, subentrare o avviare ex novo procedimenti, ove gli aventi diritto siano rimasti inerti, nell'esercizio dell'amministrazione del patrimonio fallimentare cui è tenuto (art.31 L.Fall.), nonché per reintegrare il patrimonio sociale quale mezzo di garanzia generale di soci e creditori (art. 2740 c.c.).

L'azione del curatore nella fase successiva alla dichiarazione di fallimento (intervenuta ai sensi dell'art.146 L. Fall.), pertanto, non si aggiunge a quelle concesse dal codice civile a soci e creditori considerati nel loro complesso; piuttosto, col fallimento si determina l'unitaria concentrazione della legittimazione processuale in capo a lui.

Ciò si deve al fatto che l'azione cumulativa si esplica quale strumento di vantaggio per la curatela e gli interessi protetti dalla procedura fallimentare, consentendo di affermare la responsabilità degli amministratori sia con riguardo ai presupposti dell'azione tipicamente offerta ai creditori sociali, sia quanto alla - diversa e ulteriore - azione sociale in senso stretto.

In tal modo, il curatore nominato assume su di sé il completo controllo del quadro patrimoniale societario e, in termini processuali, ne deriva l'improcedibilità per sopravvenuto difetto di legittimazione attiva delle azioni avviate prima del fallimento, nonché la sospensione - fino alla chiusura della procedura - per quelle esperite dopo la declaratoria. Sono altresì possibili le azioni, per i creditori (ex art. 2394 c.c.), in rapporto a quanto sofferto per la mancata salvaguardia del patrimonio sociale.

Dall'unitaria legittimazione in capo al curatore deriverebbe, secondo un'impostazione dottrinale (per vero, minoritaria) (Galgano, “Il fallimento delle società” in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico economico, Padova 1988), che il curatore è tenuto all'esercizio di entrambe le azioni, ex artt. 2393 e 2394 c.c. Il cumulo dei vantaggi di entrambe consentirebbe all'organo del fallimento di agire nonostante l'intervenuta stipula di transazioni (previa attivazione del rimedio della revocatoria) o rinunce all'azione. Inoltre, gli amministratori non potrebbero opporre al curatore eccezioni proponibili contro la società o i creditori agenti autonomamente, individuandosi un'azione speciale e composita del curatore, caratterizzata dai requisiti strutturali di entrambe le azioni ordinarie, invocabili al bisogno dal curatore in forza dell'interesse - anch'esso eccezionale - della procedura.

La questione della riunione nell'esclusiva azione del curatore di tutti gli elementi costitutivi delle azioni sociali e dei creditori non è di poco momento, poiché, come si vedrà nel paragrafo specificamente dedicato all'analisi degli aspetti processuali, ciò potrebbe riverberare effetti sia sul tema dell'onere della prova che sulla prescrizione.

Segnatamente, ritenere che sussista una perfetta coincidenza (rectius: sovrapponibilità) tra le azioni riunite in capo all'organo del fallimento, conduce alcuni a ritenere che il termine ex art 2949, comma 2, c.c., quinquennale, si estenderebbe prevalendo su quello decennale e decorrerebbe dal momento in cui l'insufficienza patrimoniale si è resa nota ai creditori, in disparte il momento determinativo del danno alla società.

Al contrario, come sostenuto da diversa dottrina, dalla legittimazione riunita in capo al curatore deriverebbe l'estensione della natura contrattuale anche ai diritti dei creditori che, in via ordinaria, non potrebbero giovarsi delle agevolazioni che vi si riconnettono quanto a onere probatorio e prescrizione (anche la giurisprudenza si attesta su questa impostazione in alcune pronunce: cfr. Cass.civ. 18 febbraio 1997, n. 1479 e Cass. n. 16314/2017).

Tale declinazione, di un orientamento già di per sé minoritario, risulta ancor meno seguito in dottrina, posto che l'unificazione avverrebbe solo ex latere subiecti, ma non anche in rapporto al contenuto delle azioni (Amatucci, op. cit.).

Nemmeno pare doversi fare luogo necessariamente all'esercizio di entrambe le azioni, sul presupposto che le valutazioni d'opportunità giudiziale sono rimesse al solo curatore (Iorio, “La rinuncia dei sindaci: tra applicabilità della prorogatio e limiti temporali di responsabilità” in Notariato, 2012, p. 33 ss.).

In tal senso si pone anche la relazione d'accompagnamento al nuovo Codice della Crisi e dell'Insolvenza, dove, in riferimento all'art.255, il legislatore si sofferma sulla previsione dell'esercizio delle azioni sociali e dei creditori, compiuto anche in via separata.

Dal riferimento precipuo alla separazione è parso doversi ricavare la volontà legislativa di porre fine all'incertezza applicativa della richiamata norma, insorta insieme ad un cospicuo dibattito giuridico (sul punto cfr. Di Mundo, op. cit., 51), confermando, in tal modo, anche la natura autonoma e indipendente delle due azioni di cui pure, come visto, certa dottrina dubitava (diversamente, Abriani, Le azioni di responsabilità alla luce del codice della crisi in la riforma del diritto fallimentare, a cura di Pollio, Milano 2019, 58.).

In senso lato, quindi, con l'apertura della procedura concorsuale, l'art. 146 L.F. attribuisce al curatore la legittimazione a esercitare le azioni di responsabilità, al fine di ricostruire la massa attiva (da cui l'espressione azione di massa) su cui potranno trovare soddisfo, secondo le regole della par condicio creditorum, tutti i creditori della società (soci e terzi) (F. Abitabile, La responsabilità degli amministratori nella Spa e nella S.r.l., 2018, 41).

A conforto di quanto sin qui sostenuto si è espressa, a più riprese, la giurisprudenza, che con una recente pronuncia della Corte di cassazione a Sezioni Unite il 23 gennaio 2017 (la n.1641), ha chiarito che le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c. si sommano, in caso di fallimento, nell'unica azione di responsabilità esercitabile dal curatore ai sensi dell'art. 146 L. F. Secondo le parole della Corte: “Il Curatore fallimentare ha legittimazione attiva unitaria (…) all'esercizio di qualsiasi azione di responsabilità ammessa contro gli amministratori di qualsiasi società (…)”.

Il principio è stato ritenuto estensibile anche alle società a responsabilità limitata, come si avrà modo di approfondire nel prosieguo della presente trattazione, confermandosi definitivamente la legittimazione processuale del curatore all'esercizio di ogni azione volta al reintegro della massa patrimoniale.

In proposito, deve darsi conto che la Cassazione (con sent. n. 19308/14) aveva già precisato come la variazione concerne la sola legittimazione a stare o agire in giudizio e non coinvolge la cosiddetta legitimatio ad causam: non si compie alcun trasferimento del diritto sostanziale in capo al curatore, mero sostituto processuale, e anche nell'esercizio dell'azione della curatela permangono i requisiti strutturali delle azioni riservate in via ordinaria agli altri soggetti, soci e creditori.

Sicché, può conclusivamente sostenersi che in capo al curatore grava un onere della prova corrispondente, specificamente, a quello individuato dall'art. 2393 c.c. per l'azione sociale, nonché a quello dell'azione ex art. 2394 c.c. concernente la responsabilità degli amministratori verso i creditori. Preme, altresì, notare che il foro competente per tutte le azioni sin qui analizzate è il Tribunale delle Imprese, individuato ai sensi della legge n. 27/2012.

Quanto alla competenza, inoltre, laddove prima della declaratoria di fallimento fossero state introdotte azioni ai sensi degli art. 2393, 2394 (o 2476 per le S.r.l.), a fronte dell'intervento in giudizio della curatela, si verifica un fenomeno di translatio iudicii, attraendo il foro del fallimento anche i pregressi procedimenti, che vi si pongono in rapporto di continuità ed identità (v. Cass., 21 giugno 2012, n. 10378 e nuovo art. 255 del Codice della Crisi d'Impresa).

Importante è notare che se il curatore esercita entrambe le azioni, dei creditori e sociale, diviene necessario valutare il termine di prescrizione con riguardo ad entrambe, posto che permangono distinti gli elementi costitutivi dei due rimedi (in tal senso Trib. Milano 27 ottobre e 23 settembre 2015). In materia societaria, il codice civile, all'art. 2949, detta la regola dell'estinzione del diritto in cinque anni - dalla verificazione della condotta illecita in sé -, mentre la diversa azione ex art. 2394 c.c., ancorché esercitata in sede fallimentare dal curatore, appare esperibile dal momento della rilevata insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare i crediti dei creditori.

Ove si versi nel caso dell'azione di massa, tale termine non coincide necessariamente con la data di dichiarazione di fallimento (in tal senso, si veda Cass. n. 24715/201515), né con la dichiarazione di insolvenza, ma si individua nel concretizzarsi di fatto della incapacità di far fronte alle obbligazioni assunte.

In conclusione: uno sguardo alle azioni di responsabilità del curatore nelle s.r.l.

Da ultimo, è opportuno soffermarsi sulla disciplina delle azioni di responsabilità esercitate dal curatore in rapporto alle società a responsabilità limitata.

La struttura di responsabilità dettata per le s.p.a. si diversifica da quella relativa alle s.r.l., in quanto difetta ogni riferimento alla diligenza nella lettera della legge.

Ciò nonostante, pacificamente si ritiene estensibile in via analogica l'applicazione della diligenza aggravata, di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., anche a tale forma societaria, in forza delle similarità di doveri ed obblighi imposti agli amministratori di s.p.a. e s.r.l.

Diversamente opinando, si creerebbe un'ingiustificabile disparità di trattamento non sorretta da previsioni normative, sul presupposto ulteriore che la legge volutamente arresta a un livello generale e astratto la previsione dei doveri gestorii per le ragioni indicate supra.

Nelle S.r.l. la responsabilità degli amministratori si fonda sull'art. 2476 c.c., norma a contenuto analogo a quello dell'art. 2392 c.c., disponente gli obblighi degli amministratori verso la s.p.a.

Vi si affianca l'art. 255 CCI, il quale rimette al curatore le azioni: sociale di responsabilità; di responsabilità dei creditori; verso i soci di S.r.l. che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato atti di mala gestio (art. 2476, comma 7, c.c.).

Inoltre, il comma 5-bis dell'art. 2476 c.c. medesimo dispone che “Gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale. L'azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. La rinunzia all'azione da parte della società non impedisce l'esercizio dell'azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l'azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi”.

In tal modo, si è ripristinata l'originaria formulazione del rimedio dell'azione sociale di responsabilità e dei suoi presupposti strutturali, modificata con il D.lgs. n. 6/2003, ponendo fine a un annoso dibattito insorto a seguito della riforma della società a responsabilità limitata.

Si era inizialmente ritenuto, infatti, che il legislatore, togliendo ogni riferimento alle S.p.a, avesse voluto impedire alle S.r.l., anche in via analogica per il tramite del 2394 c.c., l'esercizio dell'azione ex art. 2393 c.c., residuando solo la previsione della diversa azione ex art. 2393-bis c.c.

Per vero, prima della novella citata, la Cass., sez. un., con sentenza n. 1641/2017, aveva già composto i sopra citati dubbi ermeneutici, ritenendo che, nonostante le modifiche apportate dal legislatore con la novella del 2003, la formulazione generale dell'art.146 L. F. consentisse di estendere alla S.r.l., in analogia, tutte le azioni a tutela di soci, società e creditori delle S.p.a., modello generale dell'ordinamento.

Pertanto, anche in rapporto ai requisiti strutturali dell'azione sociale, di soci e creditori, si conferma una sostanziale assimilazione di disciplina che, fuori dalle descritte divergenze e al di là del dato normativo, appare sovrapponibile per S.p.a. ed S.r.l. (essendo le azioni per entrambi i tipi societari rinunciabili, transigibili, a natura contrattuale, se si tratta di azione sociale in senso stretto e dei soci, anche ove intraprese dalla curatela; diversamente, aventi natura aquiliana se avviate dai creditori, difettando ogni rapporto di incarico tra soci e amministratori).

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