Discrezionalità del giudice in tema di condanna per responsabilità processuale aggravata

Redazione scientifica
04 Ottobre 2021

Deve ritenersi escluso che il giudice goda di assoluta discrezionalità nel condannare la parte soccombente al pagamento di una somma determinata equitativamente ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. e/o che possa limitarsi a giustificare detta condanna evocando un astratto uso strumentale e dilatorio, da parte del soccombente, del mezzo impugnatorio.

Con l'ordinanza in commento i giudici di legittimità fanno chiarezza sui presupposti che giustificano la condanna per responsabilità processuale aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c.

La fattispecie riguardava un procedimento di sfratto di morosità promosso da L.P. nei confronti della società conduttrice dell'immobile, conclusosi in primo grado con la condanna di quest'ultima al rilascio del bene. La Corte d'appello rigettava il gravame proposto dalla società e dal rappresentante legale e li condannava per responsabilità processuale aggravata. Questi proponevano, quindi, ricorso per cassazione.

La S.C., in accoglimento dell'ultimo motivo di ricorso con il quale i ricorrenti denunciavano violazione e/o falsa applicazione dell'art. 96, comma 3, c.p.c., ha affermato che l'istituto in esame si atteggia quale «strumento per reagire ad un utilizzo abusivo dello strumento processuale» e che «l'applicazione dell'articolo in commento richiede la ricorrenza di specifici presupposti».

Invero, «anche quando la giurisprudenza afferma che non occorre che il giudice accerti che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con «mala fede» o «colpa grave» o senza la «normale prudenza», ciò non significa naturalmente che la mera infondatezza della domanda o della difesa possa comportare responsabilità ex art. 96, comma 3, c.p.c. (Cass. civ., n. 27623/2017). Il fatto che non sia necessario l'accertamento di un profilo soggettivo, significa semplicemente che il giudice, all'atto di verificare le condizioni per pronunciare la condanna ex art. 96, comma 3, deve prescindere dalla sussistenza di un'indagine sulla sussistenza dell'elemento psicologico colposo: la condanna può essere pronunciata ogni volta che «oggettivamente» risulti che si è agito o resistito in giudizio in modo pretestuoso, con abuso dello strumento processuale (Cass. civ., n. 7901/2018)».

In particolare, «il comportamento sanzionato non è illecito puramente e semplicemente, cioè non è illecito in senso stretto, ma è un comportamento abusivo più precisamente scorretto, cioè adottato col sacrificio di un interesse alieno di valore superiore rispetto a quello soddisfatto attraverso l'esercizio del diritto o attuato con modalità irrispettose della sfera di interessi dell'interferito – quelli dell'altra parte processuale – o senza alcuna considerazione dell'interesse superiore, ad un efficiente svolgimento del processo, che risulterebbe leso da un aumento del volume del contenzioso, da ogni ostacolo alla ragionevole durata dei processi pendenti nonché dallo spreco di risorse».

Nel caso di specie, la Corte territoriale, nel disporre la condanna ex

art. 96, comma 3,

limitandosi a richiamare

le ragioni che avevano giustificato il rigetto dell'appello avverso la decisione di prime cure, non ha applicato correttamente i principi di diritto esposti.

Tratto da: www.dirittoegiustizia.it

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