Obbligo vaccinale sui luoghi di lavoro, tra impossibilità di imposizione del trattamento sanitario e necessità di contrastare la diffusione del virus

Paolo Patrizio
06 Ottobre 2021

L'odierno focus tematico si prefigge di offrire all'utenza una breve panoramica di sintesi sulla tematica dell'evoluzione argomentativa, giurisprudenziale, previsionale ed applicativa, venutasi in questi mesi a formare in merito all'utilizzo del rimedio vaccinale anti Covid-19 in seno al contesto lavorativo ed in rapporto alla normativa posta a sostrato regolativo dell'ordinamento nostrano.
Abstract

Il 1° aprile 2021 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.L. n. 44/2021 recante "misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici" (c.d. "Decreto Covid"), che ha stabilito l'obbligatorietà del vaccino per il personale sanitario). Il 6 aprile 2021 Governo e Parti Sociali hanno sottoscritto il "Protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all'attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro" (c.d. "Protocollo sui Vaccini in Azienda") dettando le regole per la somministrazione dei vaccini nei luoghi di lavoro.

Tali provvedimenti hanno senza dubbio fissato alcuni punti di riferimento in merito alla possibilità o meno di imporre la vaccinazione anti SARS-CoV-2 sui luoghi di lavoro, ma il dibattito tra il diritto costituzionalmente garantito alla libertà di scelta dei trattamenti sanitari e la necessità di contrastare la diffusione del virus è tutt'altro che sopito.

Tramite la disamina delle prime pronunce giurisprudenziali intervenute in materia e l'analisi dello stato dell'arte in tema di tutela del diritto alla salute, la presente trattazione involge la concreta portata della legislazione estensiva in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, in rapporto all'evoluzione medico/scientifica ed in relazione all'analisi di bilanciamento dei valori e principi in gioco.

Premessa

L'odierno focus tematico si prefigge di offrire all'utenza una breve panoramica di sintesi sulla tematica dell'evoluzione argomentativa, giurisprudenziale, previsionale ed applicativa, venutasi in questi mesi a formare in merito all'utilizzo del rimedio vaccinale anti Covid-19 in seno al contesto lavorativo ed in rapporto alla normativa posta a sostrato regolativo dell'ordinamento nostrano.

Partendo dall'enunciazione di alcune tra le prime pronunce di riferimento in materia, in sede di giurisdizione amministrativa ed ordinaria, la narrazione si concentrerà sulla differente visione caleidoscopica che caratterizza l'approccio alla vicenda, quale risultante della diversa “lente” di inquadramento della materia, a seconda del prioritario richiamo al profilo specialistico della normativa di cui al Testo Unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, piuttosto che all'adattamento estensivo del disposto dell'art 2087 c.c. quale norma di chiusura del sistema di tutele endolavorativo, piuttosto ancora che alla stratificazione ed evoluzione delle disposizioni emergenziali e legislative intervenute a disciplinare l'argomento, se pure in via settoriale e per comparti.

Evidenti e, per molti versi, diversificati (se non proprio distanti) infatti, appaiono gli approdi riflessivi e gestionali sulla tematica, in quanto inevitabilmente attinti dalla riconduzione argomentativa e motivazionale in favore dell'uno o dell'altro dicta semantico e sostanziale posto a fondamento della soluzione giustificativa prescelta, con profonda divaricazione espositiva in ragione della collocazione temporale della vicenda, del contesto di riferimento e dell'intervento legiferante già in essere, mancante o in fieri.

Le prime pronunce intervenute in materia

Generalmente nomenclata come la sentenza “pilota”, solitamente si definisce la pronuncia del Tribunale bellunese n. 12/2021 del 19 marzo come “capostipite” degli interventi giurisprudenziali materia.

Il caso posto all'attenzione del menzionato Giudice ordinario, riguardava un ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c, promosso da alcuni infermieri ed operatori sanitari di una casa di riposo in reazione alla decisione, assunta dalla R.S.A datrice di lavoro, di porli in ferie “forzate” a seguito del rifiuto, dai medesimi espresso, di sottoporsi alla somministrazione del vaccino Pfizer.

Il personale interessato lamentava, in particolare, l'illegittimità della decisione datoriale invocandone la stigmatizzazione, sul presupposto della incomprimibilità della libertà di scelta vaccinale prevista dall'ordinamento italiano.

Senonchè, il Tribunale di Belluno ha respinto senza mezzi termini il ricorso promosso, legittimando la correttezza della decisione datoriale, siccome assunta in puntuale adempimento dell'obbligo di garanzia posto dall'art. 2087 c.c.

È infatti notorio, scrive il Giudice di prime cure, che il vaccino costituisce misura idonea a tutelare l'integrità fisica degli individui a cui è somministrato prevenendo l'evoluzione della malattia e, posto che i ricorrenti sono operatori sanitari impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro, il rischio di contrarre il virus, in assenza di vaccino, può ritenersi concreto ed elevato, tale per cui la permanenza di tale personale nel luogo di lavoro comporterebbe la violazione dell'obbligo di cui al citato art. 2087 c.c.

A tale pronuncia fa immediatamente eco, temporalmente, quella del Tribunale di Modena (n. cron. 2467/2021) del 19 maggio 2021, anch'essa inerente un procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c finalizzato alla declaratoria di illegittimità del provvedimento di sospensione cautelativa dal servizio e dalla retribuzione di due fisioterapiste, adottato dalla datrice di lavoro titolare di RSA in data 27 gennaio 2021 a seguito della ricezione dell'espresso diniego alla vaccinazione da parte della menzionate dipendenti.

In particolare, nel respingere il ricorso promosso dalle lavoratrici, il Tribunale modenese sottolinea chiaramente come la determinazione datoriale non abbia in alcun modo conculcato il diritto delle ricorrenti di rifiutare la somministrazione del vaccino anti Sars Covid-2.

Per i Giudici emiliani, il diritto alla libertà di autodeterminazione, che trova copertura costituzionale negli artt. 2 e 32, deve essere bilanciato con altri diritti di rilevanza costituzionale, quali il diritto alla salute dei pazienti della struttura sanitaria (soggetti fragili, con pregresse e invalidanti patologie) e degli altri dipendenti, nonché con il principio di libera iniziativa economica ex art. 41 Cost.

A fronte del principio di solidarietà collettiva, gravante sulla generalità dei consociati (compresi i lavoratori), dunque, i magistrati modenesi hanno ritenuto legittima la scelta datoriale che, nel contemperare i suddetti principi, ha disposto la temporanea sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del dipendente, in luogo dell'interruzione del rapporto di lavoro (tutelato dall'art. 4 Cost.), onde preservare l'incolumità degli utenti della struttura sanitaria e del personale dipendente (compresa la salute del lavoratore attinto dal provvedimento di sospensione).

Trattasi di misura connotata da una evidente finalità precauzionale, in quanto diretta a prevenire la diffusione del contagio all'interno della RSA, posto che il datore di lavoro si qualifica come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all'interno dei locali aziendali, in ossequio al chiaro disposto dell'art. 2087 cod. civ. che, quale diretta estrinsecazione dell'art. 32 Cost, impone al datore di lavoro di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che, secondo la migliore scienza ed esperienza, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica del prestatore di lavoro ed, allo stato, la vaccinazione contro il Covid-19 costituisce la misura più idonea ad evitare, in modo statisticamente apprezzabile, il rischio di trasmissione della malattia e dell'infezione all'interno dell'azienda.

Per il Giudice del lavoro del Tribunale di Modena, dunque, il rifiuto della somministrazione, non giustificato da cause di esenzione e da specifiche condizioni cliniche, costituisce impedimento di carattere oggettivo all'espletamento della prestazione lavorativa, con conseguente legittimità della sospensione del lavoratore dalla prestazione e dalla retribuzione in caso impossibilità di repechage.

Sulla medesima linea si pone la pronuncia del Tribunale di Roma relativa al contenzioso n. 18441/2021 del 28 luglio 2021, con la quale il Giudice capitolino ha sottolineato come “è evidente, quindi, che contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, la comunicazione datoriale non costituisce un provvedimento disciplinare per il rifiuto di sottoporsi a vaccinazione, bensì un doveroso provvedimento di sospensione adottato stante la parziale inidoneità alle mansioni della lavoratrice. In questi casi, infatti, il datore di lavoro ha l'obbligo di sospendere in via momentanea il dipendente dalle mansioni alle quali è addetto ai sensi dell'art. 2087 c.c.”, richiamando espressamente “le condivisibili argomentazioni espresse dal Tribunale di Modena (ordinanza del 19 maggio 2021)”.

Passando, invece, all'ambito della giustizia amministrativa, viene senz'altro in rilievo la sentenza n. 480 del TAR Puglia, Lecce, sez. II del 5 agosto 2021, intervenuto in relazione al profilo inerente l'impugnativa della sospensione dall'esercizio della professione, adottato dall'Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Brindisi, in attuazione del disposto di cui al D.L. n.44 del 1° aprile 2021 convertito in L. n.76/2021 “Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da Covid-19…”.

Evidenzia, in particolare, il Giudice amministrativo come nel giudizio di bilanciamento dei contrapposti interessi, la posizione della ricorrente e il diritto dell'individuo debbono ritenersi decisamente recessivi rispetto all'interesse pubblico sotteso alla normativa di cui trattasi, nel contesto emergenziale legato al rischio di diffusione della pandemia da COVID-19, che deve costituire il parametro di lettura della normativa medesima.

Il rimedio vaccinale tra t.u. in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, previsione codicistica, normativa emergenziale e novella legislativa

All'esito della veloce disamina dei principali passaggi motivazionali delle riportate pronunce giudiziali in materia, appare dunque possibile enucleare una prima classificazione operativa della argomentazioni ed orientamenti posti a fondamento del dibattito in merito all'utilizzo del rimedio vaccinale anti Covid-19 in seno al contesto lavorativo.

Ebbene, sin dall'introduzione del piano strategico nazionale dei vaccini, di cui alla Legge 178/2020, opinione diffusa è stata quella di ricondurre il tema alla concreta portata ed attuazione della legislazione estensiva in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ed al rispetto dei sostanziali obblighi di prevenzione e protezione che gravano sui protagonisti del rapporto di lavoro.

Fulcro e perno del complessivo assetto motivazionale al riguardo, è apparsa sin da subito la disposizione cristallizzata dall'art. 2087 c.c., considerata a ragione alla stregua di una vera e propria previsione in bianco di chiusura del sistema, grazie alla sua portata precettiva per così dire “aperta”, che impone all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Tale obiettiva posizione di garanzia viene dunque enucleata in tutta la sua portata dinamica e mutevole, siccome caratterizzata da una espressa rigerenerazione evolutiva dei propri ambiti applicativi, in stringente e diretta derivazione rispetto ai costanti progressi tecnologici, scientifici, medici ed esperienziali, che via via intervengono a veicolare nuove e migliori tecniche di tutela, prevenzione e sicurezza.

Il fine, nemmeno troppo velato, è chiaramente quello di dotare l'ordinamento di un meccanismo che possa fungere da raccordo rispetto alla complessiva produzione regolamentare e normativa in tema di salvaguardia e prevenzione nel contesto lavorativo, ma che sappia anche (e soprattutto) comportare ex sé l'adeguamento automatico della propria portata operativa rispetto al diverso incedere dell'innovazione e del progresso nei vari comparti e settori del mondo produttivo, consentendo al sistema di garanzia di beneficiare costantemente di una normazione di protezione, che rappresenti il “collo d'imbuto” di ogni considerazione ed analisi in materia.

Tale impianto a carattere generale, trova quindi fertile terreno di estrinsecazione nella stratificazione normativa a carattere speciale e settoriale, che, ad alterne velocità, nondimeno interviene a disciplinare con rigore l'assetto di prevenzione, protezione e salvaguardia della salute e sicurezza suoi luoghi di lavoro.

Si pensi, in tal senso, alla direttiva UE n. 2020/739 del 3 giugno 2020 (recepita con l'art. 4, D.L. n. 125/2020, conv. dalla L. n. 159/2020) che ha incluso il Covid-19 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche nell'ambiente di lavoro, estendendo le misure di prevenzione previste dalla direttiva 2000/54/CE, recepita dal D.Lgs. n. 81/2008; all'art. 42, comma 2, D.L. n. 18/2020, che ha qualificato come infortunio il contagio da Covid nei luoghi di lavoro, prevedendo una presunzione semplice di origine professionale per gli operatori sanitari, in ragione del rischio biologico specifico e del costante contatto con l'utenza (cfr. Circolare INAIL 13/2020); ai più recenti protocolli condivisi di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, intervenuti a regolamentare la materia in piena fase emergenziale.

A ben vedere, tuttavia, il richiamo più stringente viene sempre operato con riguardo alle previsioni del D.lgs. 81/2008 meglio noto come Testo Unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, che, a più riprese, stabilisce oneri ed obblighi di prevenzione, tutela e sicurezza a carico di tutte le parti del rapporto operativo.

Agevole, in tal senso, il riferimento al disposto dell'art. 20 del D.Lgs. 81/2008, per cui ogni lavoratore deve prendersi cura della salute e sicurezza propria, nonché di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, sulle quali ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni ed è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro aventi ad oggetto la protezione collettiva ed individuale; ovvero all'art. 41 t.u. sicurezza 81/2008, il quale prevede un obbligo di sorveglianza sanitaria, con esami clinici e biologici anche invasivi, estesa a tutti i lavoratori e comprensiva anche della diagnosi per SARS-CoV-2, quale nuovo agente biologico del gruppo 3.

Facendo perno, dunque, sul combinato disposto della richiamata normativa ordinaria di matrice codicistica aggregata da quella specialistica, è stato sottolineato come il rifiuto immotivato alla vaccinazione da parte del personale dipendente potrebbe addirittura integrare un inadempimento contrattuale del lavoratore per violazione dell'obbligo di collaborazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e dei connessi doveri di tutela dell'integrità psico-fisica propria e dei terzi, con conseguente valido esercizio del potere disciplinare da parte datoriale ed adozione sanzionatorie finanche in termini di impossibilità stessa della prosecuzione del rapporto di lavoro.

Altri ritengono, invece, come dalla condotta inadempiente del lavoratore rispetto a tali obblighi di cooperazione in materia di salute e sicurezza, potrebbero derivare conseguenze di natura “oggettiva” sul rapporto di lavoro, tali da configurare e giustificare una sostanziale irricevibilità della prestazione da parte datoriale, senza necessità di accertamenti ulteriori. In tale ottica, dunque, resterebbe esclusa qualsiasi rilevanza disciplinare della condotta, residuando la mera presa d'atto di una circostanza obiettiva, avvallata dalla successiva previsione legislativa introdotta dalla novella del D.l. 44/2021, quale elemento esegetico, ritenuto da molti utile ai fini della valutazione anche di fattispecie precedenti la sua entrata in vigore.

Eppure, per diversi autori qualsiasi tentativo di conciliare i contrapposti interessi attraverso il ricorso alle norme ordinarie costituirebbe un aggiramento surrettizio ed inammissibile del chiaro disposto del 2 comma dell'art. 32 della Costituzione, che sancisce come “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

L'intervento legislativo invocato dalla norma costituzionale non potrebbe, dunque, essere validamente soddisfatto mediante l'applicazione della richiamata previsione codicistica di cui agli artt. 2087 c.c. e 20 TU 81/2008, necessitando di una specifica previsione espressamente riferita al trattamento sanitario di cui è sancito l'obbligo.

Ecco, dunque, che viene in rilievo il D.L. n. 44/2021 recante "Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da Covid-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici", pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 1° aprile 2021 (e convertito dalla Legge 76/2021) e che introduce l'obbligo alla vaccinazione contro il virus Sars Cov-2 per determinate categorie di lavoratori (ma non per la generalità di essi) stabilendone deroghe, conseguenze e procedure.

Dispone, in particolare l'art. 4 della novella legislativa in menzione, come: “1. In considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del piano di cui all'art. 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'art. 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socioassistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2. La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati. La vaccinazione è somministrata nel rispetto delle indicazioni fornite dalle regioni, dalle province autonome e dalle altre autorità sanitarie competenti, in conformità alle previsioni contenute nel piano. 2. Solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale, la vaccinazione di cui al comma 1 non è obbligatoria e può essere omessa o differita. 3. Entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, ciascun Ordine professionale territoriale competente trasmette l'elenco degli iscritti, con l'indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma in cui ha sede. Entro il medesimo termine i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali trasmettono l'elenco dei propri dipendenti con tale qualifica, con l'indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma nel cui territorio operano i medesimi dipendenti. 4. Entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi di cui al comma 3, le regioni e le province autonome, per il tramite dei servizi informativi vaccinali, verificano lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi. Quando dai sistemi informativi vaccinali a disposizione della regione e della provincia autonoma non risulta l'effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell'ambito della campagna vaccinale in atto, la regione o la provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all'azienda sanitaria locale di residenza i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati. 5. Ricevuta la segnalazione di cui al comma 4, l'azienda sanitaria locale di residenza invita l'interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell'invito, la documentazione comprovante l'effettuazione della vaccinazione o l'omissione o il differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l'insussistenza dei presupposti per l'obbligo vaccinale di cui al comma 1. In caso di mancata presentazione della documentazione di cui al primo periodo, l'azienda sanitaria locale, successivamente alla scadenza del predetto termine di cinque giorni, senza ritardo, invita formalmente l'interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all'obbligo di cui al comma 1. In caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l'azienda sanitaria locale invita l'interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l'adempimento all'obbligo vaccinale. 6. Decorsi i termini per l'attestazione dell'adempimento dell'obbligo vaccinale di cui al comma 5, l'azienda sanitaria locale competente accerta l'inosservanza dell'obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all'interessato, al datore di lavoro e all'Ordine professionale di appartenenza. L'adozione dell'atto di accertamento da parte dell'azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2. 7. La sospensione di cui al comma 6 è comunicata immediatamente all'interessato dall'Ordine professionale di appartenenza. 8. Ricevuta la comunicazione di cui al comma 6, il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio. Quando l'assegnazione a mansioni diverse non è possibile, per il periodo di sospensione di cui al comma 9 non sono dovuti la retribuzione nè altro compenso o emolumento, comunque denominato. 9. La sospensione di cui al comma 6 mantiene efficacia fino all'assolvimento dell'obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021. 10. Salvo in ogni caso il disposto dell'art. 26, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, per il periodo in cui la vaccinazione di cui al comma 1 è omessa o differita e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2. 11. Per il medesimo periodo di cui al comma 10, al fine di contenere il rischio di contagio, nell'esercizio dell'attività libero professionale, i soggetti di cui al comma 2 adottano le misure di prevenzione igienico-sanitarie indicate dallo specifico protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministro della salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto. 12. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

L'intervento legislativo in menzione, dunque, ha “tranciato a piè pari” ogni disquisizione interpretativa e dogmatica in materia, disponendo, se pur per il solo ambito sanitario, l'obbligo legale di vaccinazione, in puntuale attuazione della riserva di legge di promanazione costituzionale, con estensione chiarificatrice anche per quel che concerne le conseguenze e le procedure di accertamento dell'inadempimento del personale attinto dalla previsione, disponendo senza mezzi termini la sospensione del lavoratore dalla prestazione e dalla retribuzione in caso impossibilità di repechage.

Conclusioni

Se, dunque, a seguito dell'espresso intervento legislativo del c.d. Decreto Covid, che ha stabilito l'obbligatorietà del vaccino e le conseguenze in caso di inadempienza per il personale sanitario latamente inteso, il contrasto interpretativo per tale settore sembra essersi fortemente affievolito (ma mai del tutto sopito), tutt'altro che certa appare la situazione negli altri ambiti e contesti lavorativi.

Il dibattito tra il diritto costituzionalmente garantito alla libertà di scelta dei trattamenti sanitari (inteso in senso individualistico) e la necessità di contrastare la diffusione del virus (in favore di una tutela collettiva) è, invero, ancora aperto e, per molti, difficilmente appianabile se non con interventi normativi efficaci.

La diversità di opinione sulla possibilità datoriale di imposizione vaccinale ai dipendenti, a ben vedere, promana dal contrasto valutativo in merito al rapporto tra il dato interpretativo ed ermeneutico dell'art. 32 Cost. e la stingente normativa ordinaria in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Ebbene, è opportuno ricordare al riguardo come la Corte Costituzionale abbia in più occasioni delineato e sancito la natura polivalente della tutela del diritto alla salute all'interno del nostro ordinamento, in ottica perequativa del principio di autodeterminazione del singolo e dell'interesse collettivo.

Si veda ad esempio il passaggio della sentenza n. 268/2017, in cui la Corte espressamente evidenzia come “l'art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l'interesse della collettività” , ovvero gli assunti in tema di vaccinazioni obbligatorie rinvenibili nella ben nota sentenza n. 258/1994, per cui “Tali considerazioni meritano attenta riflessione ma non possono essere correttamente apprezzate se non in necessario bilanciamento con la considerazione anche del parallelo profilo che concerne la salvaguardia del valore (compresente come detto nel precetto costituzionale evocato) della salute collettiva, alla cui tutela - oltre che, (non va dimenticato) a tutela della salute dell'individuo stesso - sono finalizzate le prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie”, piuttosto che nella più recente pronuncia n. 5/2018, per cui “i valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici e implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute individuale e collettiva (tutelate dall'art. 32 Cost.)”.

Appare, dunque, evidente come, sulla scorta della richiamata giurisprudenza costituzionale, l'art. 32 della Costituzione risulti posto a tutela di una pluralità di interessi, che vanno dalla libertà di autodeterminazione del singolo alla difesa della salute collettiva, in ottica solidaristica e di opportuno bilanciamento travalicante la dimensione di intangibilità personale ove vi sia il rischio concreto di lesione della salute altrui.

Sotto altro profilo, invece, per molti il punto nodale dell'analisi riposa sulla valutazione della corretta osservanza della posizione di garanzia posta a carico del datore di lavoro, nel rispetto della richiamata normativa a tutela della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro e delle obbligazioni di condotta a carico di tutti i protagonisti della vicenda lavorativa stricto sensu.

In tale prospettiva, dunque, si potrebbe giocoforza ritenere che, anche a seguito della previsione del "Protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all'attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro" ("Protocollo sui Vaccini in Azienda"), la gestionale dell'obbligazione vaccinale nel contesto lavorativo lungi dal rappresentare un caso di compressione del diritto alla salute sotto forma di imposizione vaccinale ingiustificata e normativamente non prevista, parrebbe integrare, a buon titolo, una dimostrazione di corretta applicazione della normativa di garanzia posta a presidio della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, oltre che di simultanea attuazione espansiva della tutela e della portata dell'art 32 della Cost. in ottica ultraindividuale ed a beneficio collettivo.

Ma la partita è ancora aperta e solo una chiara presa di posizione da parte del legislatore e del Supremo Organo della Nomofilachia, potrà mettere la parola “fine” ad un dibattito di matrice ideologico/valoriale, destinato a “tenere banco” per molto tempo ancora.

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