L'amministratore dimissionario e l'azione di responsabilità a suo carico ex art. 146 l.fall.

07 Ottobre 2021

Non è configurabile un'estensione di responsabilità nei confronti del dimissionario per comportamenti compiuti da altri amministratori in epoca successiva alle dimissioni...
Massima

Non è configurabile un'estensione di responsabilità nei confronti del dimissionario per comportamenti compiuti da altri amministratori in epoca successiva alle dimissioni, trattandosi di responsabilità per fatto proprio e correlata ad un adempimento (la richiesta d'iscrizione della causa di cessazione dalla carica di amministratore) che l'art. 2385, comma 3, c.c. pone a carico del collegio sindacale “(…) La cessazione degli amministratori dall'ufficio per qualsiasi causa deve essere iscritta entro trenta giorni nel registro delle imprese a cura del collegio sindacale” e che giammai potrebbe essere compiuto dal dimissionario, ormai estraneo all'azienda.

Il caso

A seguito della dichiarazione di fallimento di una società cooperativa a r.l., proclamata dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere in data 21-03-2001, la curatela fece convenire innanzi al medesimo tribunale diversi soggetti facenti parte del consiglio di amministrazione della menzionata cooperativa. Tra questi, vennero citati in giudizio alcuni consiglieri, il presidente ed il vicepresidente. Venne loro contestata l'omessa tenuta delle scritture contabili obbligatorie, in considerazione del fatto che le annotazioni rinvenute sui libri erano incomplete ed eseguite a matita. Ulteriore contestazione derivava dall'utilizzo di fondi della cooperativa per finalità estranee all'impresa e per la mancata convocazione dell'assemblea per l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 2447 del c.c. Tale ultima inadempienza da parte dell'organo amministrativo risiede nell'accertamento, da parte della curatela, di un passivo fallimentare di € 303.429,90 a fronte di un attivo pari a zero. Da ciò la specifica contestazione prevista dal menzionato articolo del codice civile: Se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del limite stabilito dall'articolo 2327, gli amministratori, o il consiglio di gestione e, in caso di loro inerzia, il consiglio di sorveglianza devono senza indugio, convocare l'assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società”.

Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con sentenza del 16-06-2019, ritenendo fondate le doglianze della curatela, dichiarò sussistente la responsabilità del vicepresidente del C.d.A. con altri due membri del consiglio e con i sindaci condannandoli al pagamento, a titolo risarcitorio, per i reati loro contestati, alla somma di € 289.561,23. In particolare, uno dei sindaci venne condannato per la mancata tenuta delle scritture contabili. Avverso tale sentenza i convenuti proposero appello; tra questi il vicepresidente, deducendo di non essere responsabile di alcuna inadempienza in quanto i fatti ascrittigli erano stati commessi in periodi nei quali non aveva ricoperto alcuna carica. Lamentava, inoltre, la inapplicabilità nei suoi confronti, per avvenuta prescrizione, dell'azione di cui all'art. 146 l.fall.

La Corte territoriale, con sentenza del 27-08-2014, nel ritenere priva di pregio sia l'eccezione sollevata dal ricorrente, circa la cessazione della carica di amministratore, in quanto non comunicata al registro delle imprese, che il motivo d'impugnazione della prescrizione, rigettò gli appelli proposti confermando la sentenza del tribunale. Ricorrono per cassazione sia il vice-presidente, che il sindaco. Quest'ultimo, successivamente, ha desistito dalla coltivazione del ricorso con separato atto accettato dalla curatela.

La questione

La sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, anche se fondata sull'analisi di dati confusi ed alcuni privi di senso logico, come meglio si dirà nelle “osservazioni”, è comunque da condividere. La Corte territoriale, avallando la pronuncia del tribunale, evidenzia una non corretta applicazione del dettato normativo, omettendo di procedere alla correzione dell'errata interpretazione fatta dal Giudice di prime cure sui fatti di causa. E' pacifico che il vice-presidente del c.d.a. non possa mai rispondere di fatti posti in essere in periodi nei quali lo stesso non ricopriva alcuna carica o delle inadempienze registratesi nello stesso periodo. Tali carenze, come evidenziato dalla stessa Corte di legittimità, “(…) dalla sentenza impugnata poco chiara e alquanto lacunosa, anche nella esposizione delle ragioni della decisione riferite ai singoli appellanti in maniera incompleta e disorganica rispetto all'oggetto di causa (…)”, hanno portato all'emissione di una sentenza affetta da gravi incongruenze e priva di motivazioni determinanti a supporto delle conclusioni a cui è giunta la Corte territoriale. La Suprema Corte, con il suo intervento, nonostante l'insufficiente materiale a disposizione, ha ripristinato il bilanciamento degli interessi giuridici, rimettendo la causa alla Corte territoriale, in diversa composizione, per una nuova pronuncia nel merito.

Le soluzioni giuridiche

La soluzione prospettata dalla Corte è in linea con altri precedenti giurisprudenziali ed è da ritenersi, come detto, condivisibile. Altre sentenze sul tema confermano il pronunciamento della Corte nel ritenere responsabili gli amministratori e gli altri organi gestori dei danni arrecati al patrimonio sociale qualora ciò sia avvenuto in vigenza dell'espletamento dell'incarico. Qualche sentenza, con una diversa sfumatura, conferma, in linea di principio, il contenuto della sentenza de quo. L'orientamento che alla data si registra è, come dianzi detto, quello di escludere da ogni responsabilità gli organi gestori per fatti estranei alla loro gestione o per quelli commessi in periodi nei quali erano privi di qualunque incarico.

Infatti, la sentenza dianzi menzionata afferma: “La decisione impugnata è pienamente conforme ai principi di diritto affermati da questa Corte in tema di decorrenza della prescrizione dell'azione di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) esercitata dal curatore, ai sensi dell'art. 146 L.F., nei confronti di amministratori e sindaci delle società di capitali. Secondo tali principi, (…) in ragione della onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione "iuris tantum" di coincidenza tra il "dies a quo" di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull'amministratore (o sul sindaco) la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale (…)”.

Osservazioni

La sentenza oggetto di commento contiene una serie di imprecisioni che hanno reso disagevole il lavoro della Suprema Corte, ad esempio in tema di prescrizione: come correttamente sottolineato dal ricorrente, non potendo essere a lui ascritto alcun tipo di reato all'esame dei fatti, non sarebbe potuto decorrere alcun periodo prescrizionale.

In ogni caso, l'orientamento maggioritario della Suprema Corte, tra le tante in senso conforme, Cass. 15 novembre 2019, n. 29719, è nel ritenere il dies a quo di decorrenza della prescrizione coincidente con la data di dichiarazione del fallimento.

Le varie incongruenze e discrasie rilevate alimentano dubbi anche sulla corretta quantificazione delle poste dell'attivo e del passivo alla data del fallimento, in virtù di dati apparentemente incompleti acquisiti dalla curatela.

Conclusioni

Dalla lettura di quanto illustrato dalla Suprema Corte appare evidente che l'approssimazione della Corte territoriale sulla valutazione degli elementi di prova ha generato dubbi e perplessità ulteriormente alimentate da una non corretta interpretazione della documentazione prodotta dalle parti. Con l'annullamento della sentenza ed il rinvio alla Corte territoriale, in diversa composizione per una nuova pronuncia nel merito, tali inesattezze dovranno essere rimosse ripristinando come d'uopo l'equilibrio tra gli interessi delle parti in causa.

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