Il compenso del professionista/attestatore va sempre commisurato all'effettiva opera prestata

Fabio Signorelli
08 Ottobre 2021

L'art. 1362 c.c., laddove richiama al comma 1 la lettera della pattuizione, è senz'altro da intendere nel senso che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è mai, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi.Costituisce inesatto adempimento il comportamento dell'attestatore il quale, officiato affinché predisponga una relazione ex art. 161 L.F., che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano concordatario, successivamente, rinunci al mandato professionale e si limiti alla redazione di un parere sintetico sulla non attendibilità dei dati e non fattibilità del piano.
Massime

L'art. 1362 c.c., laddove richiama al primo comma la lettera della pattuizione, è senz'altro da intendere nel senso che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è mai, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.

Costituisce inesatto adempimento il comportamento dell'attestatore il quale, officiato affinché predisponga una relazione ex art. 161 l. fall., che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano concordatario, successivamente, rinunci al mandato professionale e si limiti alla redazione di un parere sintetico sulla non attendibilità dei dati e non fattibilità del piano.

Il caso

Un professionista veniva incaricato da una società di redigere una relazione ex art. 161 l. fall. che attestasse la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano concordatario, con la specifica indicazione delle attività da compiersi: valutazione dell'attendibilità dei dati contabili di partenza, verifica della congruità e coerenza delle assunzioni sottostanti il piano, analisi degli interventi richiesti al sistema bancario; verifica dell'effettivo riallineamento dei flussi di cassa attesi dal piano con quelli al servizio del ripagamento dell'esposizione debitoria e della sussistenza di idonei margini di sicurezza in termini di gestione della liquidità, giudizio complessivo sulla fattibilità del piano.

Negata l'attestazione positiva, veniva dichiarato il fallimento della società. Il professionista impugnava poi il decreto del Tribunale di Monza che, in parziale accoglimento della sua opposizione allo stato passivo, aveva ammesso in prededuzione privilegiata il suo credito in misura sostanzialmente dimidiata rispetto a quanto contrattualmente stabilito.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha rigettato il ricorso del professionista, condividendo pienamente le motivazioni del Tribunale.

La questione e le soluzioni giuridiche

Come spesso accade in situazioni consimili, l'imprenditore che intenda accedere alla procedura di concordato preventivo incarica un professionista di sua fiducia di predisporre la relazione ai sensi dell'art. 161, comma 3, l. fall., determinando il compenso per tale attività, senza, tuttavia, prevedere alcunché nel caso in cui, invece, il professionista fornisca un'attestazione negativa.

Nel caso di specie si è palesata la stessa situazione e il perimetro della materia del contendere era limitato alla diversa interpretazione data dal tribunale e dal professionista riguardo l'esatto adempimento delle obbligazioni contrattuali, per cui il secondo, pur avendo prodotto un'attestazione negativa, riteneva di aver diritto al pagamento integrale del compenso contrattualmente previsto, mentre il primo riteneva che l'adempimento fosse solo parziale.

In particolare, il ricorrente lamentava che il Tribunale avesse male interpretato gli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione all'art. 161, comma 3, l. fall. perché il giudice del merito non si era limitato a basare il proprio convincimento, come avrebbe dovuto, sul senso letterale delle parole ma, in violazione della clausola ermeneutica “in claris non fit interpretatio”, si era spinto ad indagare la comune intenzione delle parti, tanto che il Tribunale avrebbe erroneamente equiparato la relazione che attesta la fattibilità del piano e quella che nega l'attestazione, mentre quest'ultima deve concretizzarsi unicamente nell'individuazione dei motivi che ostacolano il rilascio dell'attestazione, sottolineando come, in effetti, l'art. 161, comma 3, l. fall. non individua una forma-contenuto che la relazione deve soddisfare, limitandosi sinteticamente a prevedere che “il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti devono essere accompagnati dalla relazione di un professionista (…), che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo”.

Infine, sempre secondo il ricorrente, il Tribunale, nell'equiparare il contenuto della relazione “positiva” a quella “negativa”, non avrebbe spiegato che cosa, in concreto, mancasse a quella elaborata dall'attestatore, che si articolava in ben quattordici punti, ciascuno dei quali dedicati ad uno degli aspetti rilevanti.

A ciò si doveva aggiungere che proprio sulla base di tale relazione negativa era stato negato il compenso per l'attività attestativa svolta da altri professionisti.

Secondo il Tribunale, l'obbligazione contrattuale principale era, appunto, una relazione che attestasse la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo, con la specifica indicazione delle attività da compiere, come già descritto: valutazione dell'attendibilità dei dati contabili di partenza, verifica della congruità e coerenza delle assunzioni sottostanti il piano, analisi degli interventi richiesti al sistema bancario; verifica dell'effettivo riallineamento dei flussi di cassa attesi dal piano con quelli al servizio del ripagamento dell'esposizione debitoria e della sussistenza di idonei margini di sicurezza in termini di gestione della liquidità, giudizio complessivo sulla fattibilità del piano.

In sintesi, secondo il giudice di merito, l'attestatore non aveva provveduto alla redazione di una relazione che rispondesse in dettaglio ai quesiti formulati e, quindi, se il professionista avesse voluto avanzare pretese sull'intero compenso pattuito, egli avrebbe dovuto elaborare una relazione negativa predisposta con le medesime modalità e criteri che avrebbe utilizzato per la predisposizione di un'attestazione positiva, ciò che non sarebbe accaduto, tanto più che l'oggetto della missiva con cui era stato reso il giudizio negativo riguardava la rinuncia al mandato professionale.

Il Tribunale dava ampia contezza delle attività che l'attestatore avrebbe dovuto compiere per adempiere completamente al mandato professionale ricevuto: verificare la reale consistenza del patrimonio aziendale, esaminando gli elementi che lo componevano. Sempre secondo il Tribunale, la relazione avrebbe dovuto contenere l'accertamento circa la (non) esistenza e la (non) corretta valutazione dei beni materiali ed immateriali; l'(in)esistenza e la (non) concreta esigibilità dei crediti vantati, in quanto relativi ai debitori (non) solvibili.

Quanto alle passività, l'accertamento avrebbe dovuto consistere nella verifica:

1) delle imposte risultanti in contabilità e desumibili da informazioni presso fornitori, banche, ecc.;

2) della natura dei crediti (privilegiati e chirografari), indagando la condizione del creditore della causa del credito;

3) delle passività potenziali connesse agli obblighi contributivi o fiscali e dei rischi connessi ai contenziosi pendenti o prevedibili.

La Suprema Corte ha innanzitutto dato atto che fosse non controverso che le parti avessero previsto la corresponsione del compenso indipendentemente dal fatto che la relazione attestasse o meno la sussistenza dei presupposti per l'accesso alla procedura concordataria, chiarendo che non v'era dubbio alcuno che il professionista che ha negato l'attestazione avesse diritto al compenso pattuito nel contratto di prestazione d'opera intellettuale, restando solo da stabilire (con una valutazione di fatto preclusa in sede di legittimità, se compiutamente motivata) se egli, pur avendo negato l'attestazione, non avesse, però, redatto, come contrattualmente richiesto, una relazione completa, ma solo parziale; con l'ovvia conseguenza che la retribuzione dovesse essere liquidata in relazione al lavoro effettivamente svolto.

La Corte di Cassazione coglie l'occasione per confermare un principio assolutamente consolidato in giurisprudenza, secondo il quale il carattere prioritario dell'elemento letterale previsto dall'art. 1362 c.c. non va inteso in senso assoluto, ma è senz'altro da intendere nel senso che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è mai, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti.

D'altra parte, osserva la Suprema Corte, è lo stesso ricorrente a sollecitare un'indagine sulla comune intenzione delle parti in contrapposizione all'interpretazione del Tribunale, giacché mentre quest'ultimo ha ritenuto che il contratto avesse affidato al professionista la redazione di una relazione dal contenuto identico (ad eccezione, ovviamente, delle conclusioni), il ricorrente ha dato la diversa interpretazione secondo la quale la relazione negativa avrebbe dovuto avere un contenuto diverso da quella positiva.

Né, sempre secondo la sentenza in commento, può essere d'aiuto lo stesso art. 161 l. fall., posto che il suo terzo comma appare neutro, riferendosi genericamente alla necessità di una “relazione”, senza specificarne in alcun modo i contenuti.

La Suprema Corte, infine e riassuntivamente, seppur, a parere di chi scrive, in modo eccessivamente lapidario, ricondotta la materia del contendere nell'alveo della comune intenzione delle parti, nel senso che queste ultime avrebbero voluto, nel pattuire la redazione della relazione, che essa avesse il medesimo contenuto in ogni caso, sia che la relazione fosse positiva sia che essa fosse negativa, si è limitata (né, probabilmente, avrebbe potuto fare diversamente) a prendere atto delle valutazioni di merito del Tribunale, per nulla scalfite (la scelta del verbo non sembra affatto casuale) dal ricorrente laddove aveva dedotto la violazione dei canoni ermeneutici legislativamente previsti.

Un ultimo rilievo riguarda la censura del ricorrente relativa al fatto che il tribunale non avrebbe fornito adeguate motivazioni in ordine al diniego, sulla base della relazione negativa, del compenso per l'attività di attestazione fornita da altri professionisti.

In questo caso la Corte di Cassazione ha avuto buon gioco nel rigettare, in stretto punto di diritto, tale eccezione, rimarcando come non fosse stato spiegato per quale ragione il fatto sarebbe stato decisivo e ciò sulla base del principio già espresso, a Sezioni Unite, per il quale l'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

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