Prove atipiche

Vincenzo Papagni
15 Ottobre 2021

Sono prove atipiche, o innominate, le prove che sono tali perché possono costituire utili elementi di conoscenza dei fatti della causa, ma non sono specificamente disciplinate dalla legge. Se il problema dell'ammissibilità delle prove atipiche è da risolversi positivamente, discorso forse più complesso è quello della loro valutazione.
Inquadramento

Il domandarsi se il complesso dei mezzi istruttori previsti dalla legge costituisca un numerus clausus o sia possibile anche l'impiego di prove non specificatamente nominate, costituiva un interrogativo già presente fin dal codice di procedura civile del 1865. Sono note, in proposito, le opinioni della dottrina a favore dell'uso di mezzi istruttori non espressamente contemplati dal codice.

Va in proposito osservato che nell'ordinamento civilistico manca una norma generale, quale quella prevista dall'art. 189 c.p.p. nel processo penale, che legittima espressamente l'ammissibilità delle prove non disciplinate dalla legge. Tuttavia, l'assenza di una norma di chiusura nel senso dell'indicazione del numerus clausus delle prove, l'oggettiva estensibilità contenutistica del concetto di produzione documentale, l'affermazione del diritto alla prova ed il correlativo principio del libero convincimento del giudice, inducono ormai da anni consolidate ed unanimi dottrina e giurisprudenza, ad escludere che l'elencazione delle prove nel processo civile sia tassativa, ed a ritenere quindi ammissibili le prove atipiche (Cass. civ., sez. II, 25 marzo 2004, n. 5695; Cass. civ., sez. lav., 27 marzo 2003, n. 4666).

Dunque la prova atipica può essere utilizzata dal giudice per formare il proprio convincimento, in quanto manca nel nostro ordinamento un'espressa disposizione che limiti la tipologia dei mezzi di prova (Cass. civ., sez. I, 28 luglio 1997, n. 7019). Ne consegue che il giudice può legittimamente porre alla base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo (Cass. civ., sez. III, 26 settembre 2000, n. 12763) e senza che ne derivi la violazione del principio di cui all'art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio (Cass. civ., sez. I,1° settembre 2015, n. 17392).

Per tal motivo è stato in particolare precisato che il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova (Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2015, n. 840).

Né è ricavabile dall'ordinamento una regola che vieti di fondare il convincimento del giudice esclusivamente su una prova atipica o che, per converso, attribuisca a questa una efficacia probatoria per così dire dimidiata o condizionata dall'esistenza di altre convergenti prove tipiche (Cass. civ., sez. III, 2 luglio 2021, n. 18810).

L'ingresso della prova atipica nel processo civile non può che essere effettuato con lo strumento della produzione documentale, e deve conseguentemente soggiacere ai limiti temporali posti a pena di decadenza ed alla possibilità ex adverso di replicare, interloquire e controdedurre, ciò che è peraltro confermato dalla giurisprudenza richiedendo la produzione del documento integrante la prova atipica, nel rispetto delle preclusioni istruttorie (Cass. civ., sez. II, 5 marzo 2010, n. 5440).

Detto quindi che non si dubita dell'ammissibilità delle prove atipiche e della loro parificazione alle prove documentali per l'ingresso nel processo, la questione realmente rilevante è quella relativa alla loro efficacia probatoria, che è comunemente indicata come relativa a presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. o ad argomenti di prova (Cass. civ., sez. II, 9 settembre 2004, n. 18131).

Occorre comunque tenere presente che quando si parla di prove atipiche ammissibili nel processo civile, ci si riferisce ai mezzi di prova non previsti dalla legge, non anche ai mezzi di prova previsti che vengono acquisiti attraverso procedimenti diversi da quelli consentiti. Volere ammettere l'atipicità anche in questo secondo senso, significherebbe violare il divieto di impiego della scienza privata del giudice previsto dall'art. 97, disp. att. c.p.c.. In sostanza, i canali che permettono l'impiego della prova nel processo debbono essere solo quelli contemplati dalla legge, perché solo questi garantiscono che l'assunzione della prova non avvenga in violazione dei diritti e delle garanzie delle parti del processo. L'atipicità non si può dunque riferire al modo di acquisizione della prova, ma solo al mezzo di prova.

Nel vigente orientamento processuale, improntato al libero convincimento del giudice, è ammessa la possibilità che egli ponga a fondamento della decisione prove non espressamente previste dal codice di rito, purché sia fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione, rimanendo, in ogni caso, escluso che tali prove «atipiche» possano valere ad aggirare preclusioni o divieti dettati da disposizioni sostanziali o processuali, così introducendo surrettiziamente elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richieda il necessario ricorso ad adeguate garanzie formali. (Cass. civ., sez. II, 5 marzo 2010, n. 5440).

In evidenza

Si dicono prove tipiche, o nominate, le prove che vengono prese espressamente in considerazione dalla legge e sono da essa regolate. Sono invece prove atipiche, o innominate, le prove che sono tali perché possono costituire utili elementi di conoscenza dei fatti della causa, ma non sono specificamente disciplinate dalla legge. La giurisprudenza fa quotidianamente uso delle prove atipiche essendo orientata nel senso che il giudice possa impiegare, per accertare i fatti, ogni elemento utile che pervenga alla sua conoscenza.

Efficacia

Se il problema dell'ammissibilità delle prove atipiche è da risolversi positivamente, discorso forse più complesso è quello della loro valutazione. Certamente la prova atipica non dà, né potrebbe dare, la stessa garanzia di quella nominata. Una testimonianza e una perizia stragiudiziale, non hanno la stessa obiettività della testimonianza resa in giudizio o della consulenza tecnica d'ufficio. Analogamente è a dirsi per i verbali di prove di altri processi, che arrivano dinanzi agli occhi del giudice come semplici pezzi di carta: le deposizioni ivi contenute non possono certo offrire le stesse garanzie di quelle raccolte viva voce direttamente dal magistrato che deve giudicare.

Le particolari cautele che si impongono nella valutazione delle prove atipiche, hanno indotto la dottrina a ritenere che il loro valore non possa essere superiore a quello dell'indizio.

Ma si potrebbe sostenere che la loro efficacia sia addirittura inferiore, simile cioè a quella degli argomenti di prova, ex art. 116, comma 2, c.p.c.. Sotto questo profilo, la prova atipica non sarebbe autosufficiente per decidere, ma avrebbe necessariamente bisogno di altra prova alla quale abbinarsi. Il collegamento con gli argomenti di prova viene effettuato soprattutto per le acquisizioni provenienti da altro processo. Nel processo civile, a tale risultato si arriva di solito sulla base dell'art. 310, comma 3, c.p.c., che imponendo di valutare ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c., le prove raccolte nel processo estinto, sembra fondare la regola generale in virtù della quale un simile valore dovrebbe competere a tutte le risultanze processuali non direttamente raccolte dal giudice che deve valutarle.

Difatti, il giudice può trarre argomenti di prova, ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c., anche dalle risultanze istruttorie di un processo estinto, le quali, se si trovano raccolte nel relativo fascicolo di ufficio, non abbisognano di particolari formalità di produzione od esibizione, per essere prese in considerazione, risultando sufficiente l'istanza della parte interessata e la conseguente acquisizione del suddetto fascicolo d'ufficio agli atti del giudizio (Cass. civ., sez. III, 4 agosto 2005, n. 16372).

In evidenza

In quanto la valutazione di una prova non sia espressamente regolata dalla legge, si ritiene che essa possa essere fatta dal giudice secondo la sua esperienza. Questa libertà si desume, col limite ivi stabilito, dall'art. 2729 c.c., giusta il quale «le presunzioni, che non sono stabilite dalla legge, sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti e solamente nei casi in cui la legge ammette la prova testimoniale».

Il richiamo all'art. 116, secondo comma, c.p.c. da taluni effettuato per attribuire un minor valore probatorio alle prove atipiche, non appare del tutto illuminante. Invero, non è affatto detto che, con tale disposizione, cui rimanda l'art. 310, comma terzo, c.p.c. per la valutazione delle prove raccolte in altro giudizio, il legislatore abbia codificato un'ipotesi di diverso ed inferiore valore probatorio rispetto a quello normalmente riconosciuto agli indizi. Dire che il giudice trae argomenti di prova da un fatto significa inequivocabilmente che quel fatto è utilizzabile a fini probatori. Se, dunque, il comportamento processuale delle parti, ossia il fatto specificamente considerato dall'art. 116, comma secondo, c.p.c., normalmente per sé solo si rivela non sufficiente a fondare il convincimento non dipende da una aprioristica classificazione ma soltanto dal fatto che non è in grado di fondare un'inferenza presuntiva che abbia i crismi previsti dall'art. 2729 c.c. (gravità, precisione e concordanza degli indizi).

In realtà il giudizio di validità del ragionamento probatorio fondato su prove atipiche non soggiace a regole diverse da quelle che devono applicarsi ove quel ragionamento sia fondato su prove tipiche. L'atipicità a ben vedere riguarda la fonte dell'elemento di prova; ma una volta che si superino i diversi eventuali profili che attengono alla possibilità di dare ingresso alla fonte di prova nel processo civile (es. autenticità della scrittura; divieto di scienza privata del giudice; prova illecita; prova sottratta al contraddittorio delle parti), la valutazione del suo contenuto obbedisce alle medesime regole. L'ordinamento consente, infatti, che l'accertamento dei fatti possa fondarsi su presunzioni semplici, sempre che si rivelino gravi, precise e concordanti: art. 2729 c.c.; in tal modo, dunque, la legge si preoccupa soltanto di prevedere le modalità del ragionamento inferenziale idoneo a fondare l'accertamento dei fatti, mentre non tipizza le fonti (vale a dire, gli indizi) dell'inferenza presuntiva. Ne deriva, da un lato, che proprio l'atipicità delle fonti dell'inferenza presuntiva diventa un solido riscontro positivo a favore dell'ammissibilità del ricorso alle c.d. prove atipiche nel processo civile, dall'altro, che la valutazione sulla correttezza del ragionamento inferenziale fondato su prove atipiche non potrà essere condotta sulla base di inesistenti aprioristici impedimenti al loro utilizzo, quanto piuttosto in ragione dell'osservanza o meno delle regole che, ai sensi dell'art. 2729 c.c., debbono guidarlo (Cass. civ., sez. III, 2 luglio 2021, n. 18810).

Testimonianza stragiudiziale

La dottrina del processo civile offre vari esempi di prove atipiche. Il caso più comune è quello della testimonianza stragiudiziale, resa cioè fuori del processo e ad esso acquisita mediante il documento che la contiene.

La testimonianza stragiudiziale, com'è noto, non è prevista dalla legge, a differenza, ad esempio, della confessione nel processo civile, che può essere giudiziale o stragiudiziale, ex art. 2730 c.c.. Tuttavia la possibilità di impiego di dichiarazioni rese dai terzi fuori dal processo è consentita da vari ordinamenti, come quello di common law, che pur prevedendo rigide regole di esclusione di varie prove «rules of exclusion», fra le quali quella che vieta ogni deposizione testimoniale che non sia resa viva voce nel dibattimento, ha sempre riconosciuto l'efficacia probatoria delle attestazioni scritte di terzi «affidavit», purché fossero contenute in atti rogati da persone degne di fede, come ad esempio i notai, o fossero redatte in condizioni che non ne avrebbero più consentito la ripetibilità in udienza, ad esempio in punto di morte.

La giurisprudenza attribuisce alla testimonianza stragiudiziale il valore di indizio se essa proviene da un privato, mentre se proviene da un pubblico funzionario nell'espletamento della sua attività pubblicistica ad essa viene attribuita un'efficacia analoga a quella dell'atto pubblico, anche se nel caso specifico il pubblico funzionario non rientra nel novero di quelli che sono abilitati ad attribuire all'atto pubblica fede. Così, per esempio, viene attribuita l'efficacia di piena prova fino a querela di falso, non solo agli atti del segretario comunale o dell'ufficiale di stato civile, che tale efficacia hanno per volontà espressa di legge, ma anche agli atti di notorietà, alle certificazioni amministrative, ai verbali di polizia giudiziaria e simili, e ciò anche in mancanza di una norma espressa che attribuisca ad essi quel valore probatorio.

Testimonianza scritta

Nel processo civile il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può autorizzare l'acquisizione della prova testimoniale scritta. Il testimone scriverà le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato, su un modulo apposito, conforme al modello approvato con decreto 17 febbraio 2010 del Ministro della giustizia, seguendo le istruzioni per la sua compilazione, da notificare unitamente al modello. L'acquisizione della testimonianza scritta è utilizzabile anche nell'ipotesi di assunzione di prova delegata, prevista dall'art. 203, c.p.c.

Il testimone apporrà la propria firma al termine di ogni risposta e su ciascun foglio del modulo. La sottoscrizione dovrà essere autenticata da un segretario comunale o da un cancelliere di un ufficio giudiziario ed il modulo sarà infine spedito o depositato in cancelleria. La testimonianza scritta avente ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti potrà essere redatta liberamente dal testimone, mediante dichiarazione scritta non autenticata e consegnata al difensore della parte interessata. Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il teste sia chiamato a deporre davanti a lui.

Prima dell'ammissibilità della testimonianza scritta nel processo civile, le parti potevano produrre una dichiarazione scritta del terzo, cui era attribuito il valore di prova atipica costituita. Attualmente, con l'introduzione della disciplina della testimonianza scritta, la dichiarazione del terzo assume rilevanza quando è formata secondo il procedimento stabilito per la assunzione di tale tipo di testimonianza. E ciò in considerazione del fatto che nel processo civile non c'è più spazio per una mera dichiarazione scritta, sostitutiva della prova testimoniale (T.R.G.A. Trentino-Alto Adige, Trento, Sez. Unica, n. 20/2013, in www.retidigiustizia.it).

L'intervenuta generalizzazione della testimonianza scritta, prima circoscritta esclusivamente al giudizio arbitrale, modifica i termini del rapporto fra prova testimoniale ed atipicità della prova, ma ciò non significa affatto che, per l'effetto, sia venuta meno l'atipicità della dichiarazione proveniente da un terzo contenuta in un documento, indipendentemente dal fatto che detta dichiarazione sia stata o meno raccolta da un pubblico ufficiale.

È opportuno precisare che, a seguito dell'intervento del legislatore del 2009 deve ritenersi che cessi di essere atipica, in quanto tale, la modalità di assunzione della testimonianza per iscritto ma lo è, comunque, la sua assunzione in forma scritta al di fuori delle modalità predeterminate dai nuovi artt. 257-bis, c.p.c. e art. 103-bis, disp. att. c.p.c., ossia in assenza di processo già pendente, in riferimento ai capitoli ammessi dal giudice di quel processo. Di conseguenza, anche dopo le modifiche introdotte dalla l. 69/2009, l'assunzione della prova testimoniale in forma scritta può non essere tipica ma restare piuttosto atipica qualora avvenga con modalità differenti da quelle predeterminate dal legislatore del 2009, con conseguente impossibilità di riconoscerle la medesima valenza probatoria della prova testimoniale. Difatti, con riguardo alla dichiarazione di un terzo che la parte intenda produrre in giudizio la stessa si risolve in una vera e propria testimonianza scritta, la quale non può più rivestire alcun ruolo se non si sia formata secondo il procedimento stabilito per il nuovo istituto, non essendovi ulteriore spazio, nell'ambito del giudizio ordinario di cognizione, per l'acquisizione di una mera dichiarazione scritta di un terzo, sostitutiva della prova testimoniale (Trib. Belluno, sez. civ., 10 ottobre 2011, in Giur. merito, 2, 2013, 1300 ss.).

Le dichiarazioni testimoniali scritte prodotte dalle parti sono inammissibili: infatti, non si tratta di documenti, ma di una forma di surrettizia testimonia scritta che non è ammissibile, non sussistendo i presupposti e non essendo state rispettate le forme di cui all'art. 257-bis, c.p.c. (Trib. Milano, sez. IX, 26 giugno 2015, in www.ilcaso.it).

L'ambito di applicazione dell'art. 257-bis, c.p.c., risulta circoscritto al giudizio di cognizione, mentre nel procedimento possessorio, dove è attribuito al giudice il potere di procedere agli atti di istruzione, nel modo più opportuno in relazione alla fattispecie esaminata, deve ritenersi ammissibile l'acquisizione di dichiarazioni scritte a prescindere dai limiti stabiliti dalla predetta disposizione.

Pertanto, mancando nel nostro ordinamento un'espressa disposizione che limiti la tipologia dei mezzi di prova, l'assunzione atipica della testimonianza scritta in un procedimento possessorio – con il solo limite della sottoscrizione e dell'autenticazione delle dichiarazioni dell'informatore – ben può essere utilizzata dal giudice per formare il proprio convincimento. È evidente che, in assenza del contatto diretto tra il giudice e gli informatori, il giudizio di attendibilità degli stessi potrebbe venirne inficiato ed inoltre una testimonianza scritta potrebbe offrire minori garanzie di una deposizione che avvenga sotto giuramento dinanzi al giudice medesimo. Tuttavia, con il procedimento possessorio il legislatore concede al possessore molestato nell'esercizio del potere di fatto sulla cosa, o privato in maniera illegittima di esso, una immediata tutela il cui scopo è quello di ottenere la cessazione della turbativa o la reintegra nel possesso (Trib. Belluno, sez. civ., 10 ottobre 2011, in Giur. merito, 2, 2013, 1300 ss.). Peraltro, l'introduzione in questo procedimento della testimonianza scritta atipica può incidere positivamente sui tempi di definizione della controversia.

Documenti scritti provenienti da un terzo

A differenza di quanto previsto dall'art. 238 del codice di rito del 1865, l'attuale codice civile non prevede tra le prove la scrittura attribuita a terzi; pertanto, la stessa, non essendo assimilabile alla scrittura privata, non è soggetta alla disciplina sostanziale dell'art. 2702 c.c., non avendo l'efficacia probatoria legale della scrittura privata, né è soggetta alla disciplina processuale degli artt. 214 - 215 c.p.c., non dovendo essere disconosciuta e non essendo necessario impugnarla per falsità (Cass. civ., sez. II, 27 novembre 1998, n. 12066), potendosi invece con qualsiasi mezzo di prova contestarne il contenuto. Conseguentemente, le scritture private provenienti da terzi costituiscono prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario, e che possono, quindi, contribuire a fondare il convincimento del giudice unitamente agli altri dati probatori acquisiti al processo (Cass. civ., sez. un., 23 giugno 2010, n. 15169). In tutta evidenza, laddove poi il terzo sia chiamato alla conferma testimoniale del contenuto del documento, non si potrà parlare di scrittura privata riconosciuta, non essendo il documento riferibile alla controparte bensì appunto ad un terzo, ma nemmeno di mero indizio, in ragione della conferma testimoniale: in tal caso si avrà una normale prova testimoniale, come tale valutabile dal giudice.

Difatti, nel processo civile le scritture private provenienti da terzi estranei alla lite costituiscono meri indizi, liberamente valutabili dal giudice e contestabili dalle parti senza necessità di ricorrere alla disciplina prevista in tema di querela di falso o disconoscimento di scrittura privata autenticata. Ne consegue che, sorta controversia sulla autenticità di tali documenti, in applicazione del generale principio di cui all'art. 2697 c.c., l'onere di provarne la genuinità grava su chi la invoca (Cass. civ., sez. lav., 30 novembre 2010, n. 24208).

Invero, le dichiarazioni di terzo oltre a non produrre gli effetti di piena prova non essendo soggetti al regime sostanziale di cui all'art. 2702 c.c. né a quello processuale previsto dall'art. 214 c.p.c., possono solo essere liberamente apprezzati dal giudice nel loro valore meramente indiziario, ragion per cui il loro contenuto deve essere supportato da ulteriori elementi che ne confortino l'attendibilità e la verosimiglianza e, quindi, supportino la possibilità per il giudice di merito di conferire ad essi il valore di prova effettivamente convincente (Cass. civ., sez. I, 1settembre 2015, n. 17392).

In evidenza

Le dichiarazioni scritte, provenienti da terzi estranei alla lite su fatti rilevanti, non possono esplicare efficacia probatoria nel giudizio se non siano convalidate attraverso la testimonianza ammessa ed assunta nei modi di legge ma possono unicamente assumere valore d'indizio, l'utilizzazione del quale costituisce non già un obbligo del giudice, bensì una facoltà (Cass. civ., sez. II, 23 ottobre 2017, n. 24976).

Il documento di trasporto firmato dal solo vettore, costituente scrittura proveniente dal terzo, come tale assumendo mero valore indiziario, necessita di corroborazione ai sensi dell'art. 2729, c.c., ove non puntualmente confermata dalla deposizione del compilatore o da altre dichiarazioni testimoniali, di talché da solo non soddisfa l'onere probatorio, che l'art. 2697, c.c., pone a carico del mittente, in ordine alla consegna di determinati beni al destinatario (Cass. civ., sez. II, 6 dicembre 2019, n. 31974).

Perciò, se da un lato è pacifico che tale scritto non possiede l'efficacia probatoria piena propria delle prove documentali, non si può negare che esso può fondare un indizio (Cass. civ., sez. I, 12 settembre 2008, n. 23554) o una presunzione (Cass. civ., sez. II, 9 settembre 2004, n. 18131); mentre, d'altra parte, può costituire l'oggetto di una conferma testimoniale; né può dubitarsi che può essere prodotto in giudizio proprio come documento e che la sua efficacia è sia pure indirettamente prevista dall'ordinamento.

Peraltro, nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, quali le dichiarazioni scritte provenienti da terzi, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie, senza che ne derivi la violazione del principio di cui all'art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio (Cass. civ., sez. I, 1 settembre 2015, n. 17392).

Pertanto, per scritto del terzo non può intendersi anche una scrittura proveniente da terzo redatta e finalizzata in funzione volutamente probatoria di una tesi della parte (Cass. civ., sez. III, 5 marzo 2010, n. 5440). Del resto la Suprema Corte, in relazione ai c.d. fatti notori, ha ricordato come non si possa derogare, se non nei casi ex lege, al principio dispositivo e al contraddittorio, introducendo nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati (Cass. civ., sez. II, 18 dicembre 2008, n. 29728).

Quanto ai documenti degli investigatori privati, giova ricordare come l'attività di investigatore privato, volta alla produzione di un servizio di acquisizione di dati e di elaborazione degli stessi, resti confinata nell'ambito delle attività senza valenza pubblicistica, costituendo attività professionale collocabile nel settore del commercio. Ne consegue che i documenti formati dall'investigatore sono qualificabili, quanto alla valenza probatoria, in termini di scritti del terzo e costituiscono, dunque, una prova atipica. Dunque, nel processo civile non può essere prodotta la relazione dell'investigatore privato costituendo scritto proveniente da un terzo a contenuto testimoniale che deve essere acquisito mediante prova orale o nelle forme ex art. 257-bis, c.p.c., affinché acquisti valore probatorio, altrimenti si aggirerebbero le norme poste a garanzia dell'andamento processuale (Trib. Milano, sez. IX, 8 aprile 2013, in www.ilcaso.it).

VALORE PROBATORIO DEGLI SCRITTI DEL TERZO: CASISTICA

Il valore di presunzione semplice ex

art. 2729 c.c.

o di argomento di prova.

Cass. civ., sez. II, 9 settembre 2004, n. 18131; Cass. civ., sez. III, 26 settembre 2000, n. 12763; Cass. civ., sez. lav., 30 novembre 2010, n. 24208.

Se il documento in sé ha valore neutrale può costituire un indizio, anche se deve essere supportato da altri elementi probatori.

Cass. civ., sez. I , 12 settembre 2008, n. 23554; Cass. civ., sez. I, 1 settembre 2015, n. 17392; Cass. civ., sez. II, 23 ottobre 2017, n. 24976.

Se invece il documento è a contenuto testimoniale allora deve essere acquisito al procedimento mediante prova orale o nelle forme ex

art. 257-

bis

c.p.c.

, affinché acquisti valore probatorio, altrimenti si aggirerebbero le norme poste a garanzia dell'andamento processuale.

Trib. Milano, sez. IX, 8 aprile 2013, in www.ilcaso.it; Trib. Milano, sez. IX, 26 giugno 2015, in www.ilcaso.it.

Certificazioni amministrative, verbali di polizia giudiziaria, atti di notorietà

Sul piano formale, le dichiarazioni rese dalle parti o dai terzi agli agenti di polizia si qualificano come prove atipiche in quanto assunte al di fuori del contesto giudiziale (Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2019, n. 25426).

Mentre si ritiene che le certificazioni amministrative costituiscano atto pubblico a tutti gli effetti quando avvengono nell'esercizio del potere certificativo dell'amministrazione, anche se parte in causa (Cass. civ., sez. III, 24 febbraio 2004, n. 3654), limitatamente a quanto il verbalizzante attesta avvenuto in sua presenza (Cass. civ., sez. un., 24 luglio 2009, n. 17355) ed esclusi gli eventuali apprezzamenti (Cass. civ., sez. III, 14 aprile 2000, n. 4844) non si dubita comunque che possano valere come fonti di presunzione e come indizi. Infatti, il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente, le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell'art. 444 c.p.p., potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. civ., sez. lav., 30 gennaio 2013, n. 2168).

In evidenza

Non è d'altro canto preclusa la prova testimoniale contro le attestazioni, recepite nei verbali annessi al rapporto della polizia giudiziaria, le quali, assolvendo alla funzione - diversa da quella propria dell'atto pubblico - di informativa all'autorità giudiziaria di una notizia di reato, sono soggette, ai sensi dell'articolo 116 c.p.c., alla libera valutazione del giudice del merito in relazione alla intrinseca veridicità delle dichiarazioni dei soggetti verbalizzanti, specie quando esse abbiano la natura di una testimonianza ed esprimano valutazioni, percezioni e sensazioni in ordine alla rappresentazione di un fatto dal quale possano sorgere responsabilità penali; ogni valutazione del giudice del merito in ordine alla rilevanza o meno della prova in concreto è, peraltro, incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata (Cass. civ., sez. lav., 8 gennaio 2008, n. 132).

Prove assunte in precedente giudizio o in giudizio estinto o in sede penale o raccolte da giudice incompetente

Nel rito processualcivilistico manca una norma come quella dell'art. 238 c.p.p., che nel processo penale disciplina in modo generale l'acquisizione di verbali di prove di altro procedimento, conferendo loro, laddove esse siano state formate in processi in cui l'imputato era parte, dignità di piena prova anche nel processo penale nel quale trovano ingresso. Nel processo civile, invece, l'unica norma di riferimento è quella specificamente posta dall'art. 310, comma 3, c.p.c. relativa al valore indiziario delle prove raccolte in un processo estinto (Cass. civ., sez. un., 8 aprile 2008, n. 9040). Tuttavia sulla base di tale disposizione è stato enucleato un principio generale per il quale i verbali di prove espletate in altri giudizi civili, in giudizi penali od amministrativi, compresi gli accertamenti di natura tecnica-peritale, hanno valore di mero indizio, e ciò non solo laddove le prove siano state raccolte in un processo tra le stesse parti (Cass. civ., sez. II, 11 giugno 2007, n. 13619), ma anche tra altre parti (Cass. civ., sez. lav., 25 febbraio 2011, n. 4652).

Invero, le predette prove possono essere vagliate dal giudice senza che egli sia vincolato dalla valutazione fatta dal giudice della causa precedente (Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2004, n. 4186).

Difatti, la sentenza penale di condanna non definitiva integra una prova atipica, dalla quale il giudice civile può trarre elementi di convincimento, ex art. 116 c.p.c., in particolare utilizzando le prove raccolte e gli elementi di fatto acquisiti nel giudizio penale; ma resta necessario che il procedimento di formazione del libero convincimento sia esplicitato nella motivazione della sentenza civile, atteso che il generico richiamo alla pronuncia penale si tradurrebbe nell'elusione del dovere di autonoma valutazione delle complessive risultanze probatorie e di conseguenza nel vizio di omessa motivazione (Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2010, n. 10055).

Pertanto, il giudice civile può legittimamente utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine al diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico (Cass. civ., sez. lav., 12 gennaio 2016, n. 287; Cass. civ., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16893).

Più in particolare, le dichiarazioni rese dall'imputato nel dibattimento penale sono soggette al libero apprezzamento del giudice civile e non possono integrare una confessione giudiziale nel giudizio civile, atteso che questa ricorre, ai sensi dell'art. 228 c.p.c., soltanto nei casi in cui sia spontanea o provocata in sede di interrogatorio formale, quindi all'interno del giudizio civile medesimo (Cass. civ., sez. VI, 20 giugno 2013, n. 15464; Cass. civ., sez. VI, 25 luglio 2019, n. 20255).

Inoltre, il giudice civile può avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale (Cass. civ., sez. II, 20 gennaio 2017, n. 1593), le quali debbono, tuttavia, considerarsi quali semplici indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio, la cui concreta efficacia sintomatica dei singoli fatti noti deve essere valutata – in conformità con la regola dettata in tema di prova per presunzioni – non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva in base ad un apprezzamento che, se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, non è sindacabile in sede di legittimità. Ne consegue, da un canto, che anche una consulenza tecnica disposta dal P.M. in un procedimento penale, se ritualmente prodotta dalla parte interessata, può essere liberamente valutata come elemento indiziario idoneo alla dimostrazione di un fatto determinato (ancorché la relativa valutazione debba pur sempre tener conto della circostanza che l'atto si è formato senza il contraddittorio tra le parti e che esso non risulta sottoposto al vaglio del giudice del dibattimento), dall'altro che, trasposta la vicenda processuale in grado di appello, il giudice del gravame ha l'obbligo di estendere il proprio giudizio a tutte le eventuali, successive risultanze probatorie, e non limitarsi ad una rivalutazione della sola consulenza eventualmente posta a fondamento della decisione di primo grado (Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 2001, n. 16069; Cass. civ., sez. III, 19 luglio 2019, n. 19521).

Si è peraltro osservato che questa efficacia probatoria, ancorché limitata va subordinata all'almeno potenziale contraddittorio nel processo in cui la prova è stata raccolta; in questa linea si è affermato che l'eventuale rilevanza della prova raccolta nel processo penale presuppone, a pena di nullità, l'instaurazione del contraddittorio su di essa.

Quanto alla sentenza di patteggiamento, ex art. 444, c.p.p., spetta al giudice il potere-dovere di accertare e valutare in via autonoma i fatti di causa per trarre elementi di giudizio, sottoponendo la sentenza a vaglio critico. Detta sentenza, pur ontologicamente diversa da una vera e propria pronuncia di condanna, non impedisce che, alla stregua dei principi generali, possa procedersi, nel corrispondente giudizio in sede civile ed ai fini della relativa decisione, all'accertamento autonomo ed incidentale dei fatti illeciti del giudizio penale; e che tale accertamento autonomo ed incidentale del giudice civile possa fondarsi sulla sentenza di patteggiamento, quale indiscutibile elemento di prova che ben può essere utilizzato, anche in via esclusiva, per la formazione del proprio convincimento, dal giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per le quali l'imputato abbia ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione ritenendo di non procedere al proscioglimento, ex art. 129 c.p.p. (Cass. civ., sez. V, 8 settembre 2008, n. 22548).

Parimenti, la sentenza civile, oltre a produrre gli effetti propri del giudicato tra le parti ex art. 2909 c.c., può avere, anche rispetto ai terzi che non sono parti nel giudizio, la diversa efficacia di prova documentale in ordine alla situazione giuridica che abbia formato oggetto dell'accertamento giudiziale. Tale efficacia indiretta di prova documentale rispetto ai terzi che non sono parti nel giudizio, pur se non vincolante per il giudice, può essere invocata da chi vi abbia interesse, spettando al giudice di merito esaminare la sentenza prodotta a tale scopo e sottoporla alla sua libera valutazione, anche in relazione ad altri elementi di giudizio presenti negli atti di causa (Cass. civ., sez. lav., 5 novembre 2009, n. 23446).

Il giudice di merito, in difetto di particolari divieti normativi, può utilizzare per la formazione del proprio convincimento, anche prove, e più in genere, risultanze istruttorie, tra cui in particolare la consulenza tecnica, formate in un diverso giudizio estinto, svoltosi tra le stesse parti o anche tra altre parti, da considerare quali semplici indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio (Cass. civ., sez. II, 20 dicembre 1994, n. 10972). In difetto dell'istanza della parte interessata, il giudice non può trarre argomenti di prova dalle risultanze istruttorie del diverso procedimento estinto, assumendole dai relativi fascicoli d'ufficio (Cass. civ., sez. II, 6 agosto 2003, n. 11842).

Affermazioni di fatti o deposizioni raccolte in una consulenza tecnica

Per quanto riguarda l'efficacia probatoria dei chiarimenti resi dalle parti al CTU e dalle informazioni da lui assunte da terzi, si rileva che i chiarimenti resi non hanno valore confessorio o negoziale, mentre le informazioni assunte non possono essere considerate vere e proprie prove testimoniali. In entrambi i casi, si è in presenza di elementi aventi valore meramente indiziario di argomento di prova, rientranti nella categoria delle prove atipiche. Parimenti, il giudice del merito può trarre elementi di convincimento anche dalla parte della consulenza d'ufficio eccedente i limiti del mandato, ma non sostanzialmente estranea all'oggetto dell'indagine in funzione della quale è stata disposta (Cass. civ., sez. II, 25 marzo 2004, n. 5965).

Ed invero, è indubbio che la consulenza tecnica, sebbene abbia, di regola, la funzione di fornire al giudice una valutazione relativa a fatti già probatoriamente acquisiti al processo, può legittimamente costituire, ex se, fonte oggettiva di prova qualora si risolva non soltanto in uno strumento di valutazione, bensì di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche (Cass. civ., sez. III, 2 luglio 2010, n. 15714).

Inoltre, il giudice di merito può legittimamente tenere conto, ai fini della sua decisione, delle risultanze di una consulenza tecnica acquisita in un diverso processo, anche di natura penale ed anche se celebrato tra altre parti, atteso che, se la relativa documentazione viene ritualmente acquisita al processo civile, le parti di quest'ultimo possono farne oggetto di valutazione critica e stimolare la valutazione critica su di essa (Cass. civ., sez. lav., 5 dicembre 2008, n. 28855).

Riferimenti
  • Cavallone, Critica della teoria delle prove atipiche, in Riv. dir. proc., 1978, 725;
  • Comoglio, Le prove, in Trattato di dir. priv., dir. da RESCIGNO, XIX, 1, Torino, 1986, 171 ss.;
  • Dondi, voce Prova testimoniale nel processo civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 1997, 62 ss.;
  • Giordano, L'istruzione probatoria nel processo civile, Milano, 2013, 57-66;
  • Lupoi, Processo sommario di cognizione: il “rito” e il “modello”, Torino, 2019, 226-232;
  • Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, vol. II, Torino, 1998, 166-167;
  • Montesano, Le «prove atipiche» nelle «presunzioni» e negli «argomenti» del giudice civile, in Riv. dir. proc., 1980, 233 ss.;
  • Merz, Manuale pratico della prova civile, Padova, 2008, 296-303;
  • Morlini, Art. 116 c.p.c., in Commentario al Codice di procedura Civile, a cura di Cendon, Vol. II, Milano, 2012, 919-951;
  • Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc., 1973, 391;
  • Papagni, Procedimento possessorio ed assunzione “atipica” della testimonianza scritta senza i limiti dell'art. 257-bis, c.p.c., in Giur. mer., 2013, 1304 ss.;
  • Ricci, Le prove atipiche, Milano, 1999;
  • Ricci, Le prove nel processo civile, Atti del XXV Convegno Nazionale, Cagliari 7-8 ottobre 2005, Milano, 173-201;
  • Ricci, Principi di diritto processuale generale, Torino, 1998, 364 ss.;
  • Ronco, Riflessioni sulla disciplina processuale e sull'efficacia probatoria delle scritture provenienti da terzi, in Riv. dir. civ., 1986, II, 545 ss.;
  • Viazzi, Poteri del Giudice e prassi giurisprudenziali nell'istruzione probatoria: una serie di questioni aperte, in Quaderni del CSM, 1999, n. 108, 433.
Sommario