Licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente alla cessazione di attività in periodo emergenziale

22 Ottobre 2021

Nell'ipotesi di licenziamento per cessazione dell'attività aziendale in periodo emergenziale, l'art. 14 d.l. 14 agosto 2020 va interpretato nel senso che il datore di lavoro non può limitarsi a fornire la prova di non svolgere alcuna attività, ma deve provare che l'attività di impresa è cessata in modo definitivo, in conseguenza della messa in liquidazione della società senza continuazione...
Massima

Nell'ipotesi di licenziamento per cessazione dell'attività aziendale in periodo emergenziale, l'art. 14 d.l. 14 agosto 2020 va interpretato nel senso che il datore di lavoro non può limitarsi a fornire la prova di non svolgere alcuna attività, ma deve provare che l'attività di impresa è cessata in modo definitivo, in conseguenza della messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività. A tal fine, non rileva la risoluzione con effetto immediato di un contratto di appalto di servizi in essere per causa di forza maggiore.

Il caso

La questione riguarda un lavoratore del settore della ristorazione, assunto quale vice capo cuoco, licenziato dalla società datrice con lettera del 7 settembre 2020, in vigenza del divieto di licenziamento introdotto dalla normativa emergenziale.

Nella lettera di licenziamento, la società comunicava al dipendente che, in ragione della crisi del settore e della conseguente drastica riduzione dei consumi, si vedeva costretta ad adottare il provvedimento di licenziamento a causa della cessazione dell'attività aziendale.

Il lavoratore impugnava il licenziamento, lamentandone la nullità per violazione dell'art. 14 d.l. 14 agosto 2020, n. 104, applicabile ratione temporis, e richiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna della società convenuta al pagamento in suo favore di un'indennità risarcitoria pari all'ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra, oltre accessori nelle misure di legge.

Le questioni

Come è noto, con l'irrompere della crisi pandemica è stato introdotto un divieto generale di licenziamento “economico”, sia individuale che collettivo, variamente modulato dalle disposizioni emergenziali succedutesi nel tempo.

I primi decreti intervenuti sul tema inibivano tout court il potere di recesso della parte datoriale per un determinato periodo di tempo, successivamente prorogato, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non contemplando alcuna eccezione con riferimento alle ipotesi di cessazione dell'attività (art. 46 d.l. 17 marzo 2020 n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge L. 24 aprile 2020, n. 27 e art. 80 del d.l. 19 maggio 2020 n. 34, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2020, n. 77).

Con il decreto legge 14 agosto n. 104 (art. 14), convertito, con modificazioni, dalla l. 13 ottobre 2020, n. 126, sono state per la prima volta introdotte eccezioni al divieto di licenziamento, tra le quali quella dei licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell'attività dell'impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività, nelle ipotesi in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa ai sensi dell'art. 2112 c.c.

La ratio della norma risiede evidentemente nel tutelare, in applicazione del principio costituzionale della libertà di impresa (art. 41 Cost) la scelta imprenditoriale di cessare l'attività in via definitiva; scelta che prevale sulle esigenze di mantenimento dei singoli rapporti di lavoro, anche ove gli stessi godano di una tutela rafforzata, come nell'ipotesi della lavoratrice madre, per la quale vige un generale divieto di licenziamento nel periodo che va dall'inizio della gestazione sino al compimento di un anno di età del bambino, derogabile solo nelle ipotesi di definitiva cessazione dell'attività dell'azienda cui la stessa è addetta (Cass., ord. 20 maggio 2021 n. 13861).

L'eccezione al divieto di licenziamento nelle ipotesi di cessazione di attività, nella originaria versione introdotta dal d.l. n. 104/2020, riguardava unicamente le attività svolte in forma societaria, con incomprensibile esclusione delle imprese individuali: nell'attuale versione, viceversa (art. 4 comma 5 d.l. 30 giugno 2021), oltre all'ipotesi già prevista, è stata inserita quella della cessazione dell'attività d'impresa in senso ampio, con conseguente inclusione delle imprese individuali: rimangono tuttavia esclusi, ancora inspiegabilmente, i datori di lavoro che svolgono la loro attività in maniera non imprenditoriale.

Affinché operi l'eccezione al generale divieto di licenziamento conseguente alla crisi pandemica, deve ovviamente trattarsi di una cessazione definitiva dell'attività d'impresa conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività, con eccezione delle ipotesi in cui, durante la liquidazione si profilino possibilità di cessione dell'azienda o di rami di essa ex art. 2112 c.c.

Lo schema procedimentale previsto dalla norma prevede quindi, in prima battuta, la messa in liquidazione della società, cui segue, secondo quanto disposto dall'art. 2487 c.c., la nomina dei liquidatori ed il conferimento dei relativi poteri; la decisione assembleare in ordine alla liquidazione della società assume particolare importanza ai fini della verifica dell'applicabilità del divieto di licenziamento, potendo operare l'eccezione a tale divieto solo nelle ipotesi in cui le attività aziendali non proseguano, neanche in via provvisoria. Nell'ipotesi in cui le attività proseguano, anche parzialmente, ovvero nelle ipotesi in cui si profili la possibilità di cessione dell'azienda o di ramo di essa ex art. 2112 c.c., il divieto di licenziamento introdotto dalla normativa emergenziale sarà applicabile ad ogni effetto.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento, per quanto consta, è stata la prima ad occuparsi di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo per cessazione di attività in periodo di emergenza epidemiologica in presenza di una norma che lo legittimasse. In precedenza, infatti la giurisprudenza di merito si è occupata di licenziamenti per cessazione di attività quando ancora non era vigente l'eccezione al divieto di licenziamento per cessazione di attività (Tribunale Mantova 1° novembre 2020, n. 112).

Il Tribunale di Roma, con la sentenza in commento, ha ritenuto nullo il licenziamento intimato al lavoratore, ritenendo insussistente la cessazione dell'attività aziendale; in particolare, secondo il Giudice capitolino, dalla visura camerale in atti la società, pur figurando inattiva, non risultava posta in liquidazione, né cancellata ovvero estinta. Correttamente, il Giudice ha quindi ritenuto non provata la definitiva cessazione dell'attività, evidenziando come nessun rilievo potesse assumere, a tal fine, la risoluzione di un contratto di appalto, risultando tale elemento inidoneo a dimostrare l'avvenuta e definitiva cessazione dell'attività.

Non sussistendo i presupposti per la deroga al generale divieto di licenziamento, il tribunale ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato al lavoratore, con conseguente condanna della società alla reintegrazione del dipendente nel suo posto di lavoro, nonché al pagamento in suo favore di un'indennità pari all'ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegra, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2 comma 2 d.lgs. n. 23/2015.

Osservazioni

Il dibattito sorto in relazione al divieto di licenziamento “economico”, sia individuale che collettivo, introdotto all'esito della crisi pandemica quale misura straordinaria di ordine pubblico giustificata dall'eccezionalità del momento e adeguatamente bilanciata tra diritto al lavoro (2, 4 e 35 co. 1, Cost.) e libertà di impresa (41, co. 2, Cost.), ha riguardato essenzialmente la durata del divieto, posto che l'allungamento dello stesso nel tempo, come di fatto avvenuto, finisce per privare la misura protettiva della sua eccezionalità, minandone in radice la ragionevolezza e di conseguenza la sua tenuta costituzionale.

L'esigenza di mantenimento dei posti di lavoro in periodo pandemico trova evidentemente un limite nelle ipotesi in cui la parte datoriale abbia deciso di cessare in via definitiva l'attività, rientrando tale decisione nella libertà di iniziativa economica, costituzionalmente tutelata.

Correttamente, quindi, il legislatore dell'emergenza, dopo aver introdotto un divieto di licenziamento “senza eccezioni” subito dopo l'insorgere della crisi pandemica, ha previsto l'inapplicabilità del divieto di licenziamento nelle ipotesi di cessazione dell'attività.

E' facile prevedere, tuttavia, che le principali questioni interpretative riguardanti le disposizioni emergenziali in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dovuti a cessazione di attività, tuttora riproposte nel loro contenuto originario (art. 4 decreto legge 30 giugno 2021 n. 99) riguarderanno la verifica della effettiva cessazione dell'attività aziendale, necessariamente da coniugare con i tempi della gestione liquidatoria.

Ciò in quanto la cessazione dell'attività non costituisce un fenomeno “immediato”, viceversa abbisognando di una serie di attività tipiche della fase liquidatoria (pagamento creditori, gestione eventuale contenzioso pendente, liquidazione dell'eventuale saldo attivo tra i soci), oltre che della conclusione dei procedimenti amministrativi presso il registro delle imprese.

Sotto tale profilo, la Suprema Corte, con riferimento a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo determinati dalla cessazione di attività nel periodo antecedente a quello emergenziale, ha correttamente ritenuto irrilevante, nel valutare l'effettiva cessazione dell'attività, che l'impresa, dopo l'intimazione o nelle more del preavviso di licenziamento, prosegua le mere attività liquidatorie: in particolare, si è affermato che la legittimità di un licenziamento per cessazione di attività non è esclusa dal fatto che uno o pochi altri dipendenti siano stati mantenuti in servizio per il compimento delle pratiche relative alla cessazione, né dal fatto che lo stabilimento sede dell'impresa non sia stato immediatamente alienato o altrimenti dismesso, rimanendo però nella disponibilità dell'imprenditore come mera entità non funzionante, sull'evidente presupposto che lo svolgimento di dette attività non sia confliggente con la decisione dell'imprenditore di cessare in via definitiva la propria attività e che anzi le stesse costituiscano attività necessarie al completamento della liquidazione (Cass. 14 aprile 2021, n. 9820).

Premessa infatti l'insindacabilità della scelta dell'imprenditore di cessare l'attività, quale esercizio della libertà d'iniziativa economica riconosciuta dall'art. 41 Cost., la valutazione in ordine alla effettiva cessazione dell'attività aziendale va effettuata con riferimento alle attività proprie della società e non già con riferimento alle attività di gestione della liquidazione, prodromiche alla definitiva cessazione dell'attività (Cass. 24 settembre 2010 n. 20232).

In ogni caso, ed al netto delle mere attività liquidatorie, la cessazione dell'attività deve essere definitiva e non parziale, non rientrando nelle eccezioni al divieto sospensioni dell'attività o periodi anche lunghi di inattività aziendale, ovvero chiusure parziali di unità produttive.

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