Transazione fiscale: il fisco si pronuncia sull'omologazione forzosa, sul caso di condotte fraudolente e sulle imprese in liquidazione

05 Novembre 2021

Le azioni sono spesso più eloquenti delle parole. Lo confermano alcuni recenti atti con cui l'Agenzia delle Entrate, anche attraverso l'Avvocatura dello Stato nell'ambito di procedimenti giudiziari, ha espresso la propria posizione in merito a temi centrali della transazione fiscale, che non aveva trattato o aveva affrontato in modo meno puntuale ed esplicito, con le circolari dedicate alla disciplina di tale istituto.
L'Agenzia delle Entrate esclude l'omologazione forzosa in caso di rigetto espresso della proposta di transazione fiscale

Il primo tema, su cui l'amministrazione finanziaria non si era sinora pronunciata in alcun modo, riguarda l'omologazione forzosa introdotta dalla l. 27 novembre 2020, n. 159, che ha modificato gli artt. 180 e 182-bis l. fall. , attribuendo al tribunale il potere-dovere di omologare la proposta di transazione fiscale e contributiva, nel concordato preventivo, anche in “mancanza di voto” del fisco e degli enti previdenziali, se la proposta è conveniente per i creditori pubblici e tale voto è determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all'art. 177 l.fall., e, nell'ambito dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, anche in “mancanza di adesione” da parte dell'Agenzia delle Entrate e degli di previdenza, se la proposta è conveniente e l'adesione di tali creditori è decisiva ai fini del raggiungimento della soglia minima di adesioni richiesta dall'art. 182-bis l.fall..

Com'è ormai noto, in merito all'interpretazione di tali disposizioni sono stati prospettati tre indirizzi:

  1. il primo (restrittivo) attribuisce al giudice il potere-dovere di omologare “forzosamente” l'accordo solo quando non vi sia alcuna espressione di voto o di adesione da parte del fisco e degli enti previdenziali;
  2. in base al secondo (estensivo) invece tale potere/dovere ricorre anche a seguito del voto negativo o del rigetto dell'adesione da parte dell'amministrazione finanziaria e degli enti;
  3. il terzo (intermedio) attribuisce al tribunale il potere di omologa in caso sia di mancata pronuncia sia di rigetto nell'ambito dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, ma non anche nel concordato, nel cui contesto tale potere sussisterebbe solo in caso di mancata espressione del voto.

In prevalenza i tribunali (tra i quali quelli di Roma, Milano, Genova, Pisa e Teramo) hanno adottato la tesi estensiva, sulla base: (i) della ratio delle nuove norme, cui è stato affidato il compito di superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate della crisi registrate nella prassi; (ii) della necessità di coordinare sistematicamente le disposizioni di cui trattasi con la disciplina della crisi da sovraindebitamento; (iii) dell'identità degli effetti ai fini del calcolo delle maggioranze, che nel concordato preventivo hanno il voto contrario e la mancata espressione di voto; (iv) della necessità di consentire un sindacato dell'eventuale diniego del fisco sulla proposta di transazione, sindacato che non potrebbe, in concreto, essere esercitato laddove si negasse al tribunale la possibilità di intervenire sul rigetto della proposta da parte dell'agenzia delle Entrate e degli enti previdenziali; (v) dell'argomento letterale, poiché l'espressione “mancanza di adesione” può essere intesa, quanto meno nel contesto dell'accordo di ristrutturazione, non solo come assenza di risposta dell'Erario, ma anche come mancanza di adesione che deriva da una risposta negativa.

Secondo l'Agenzia delle Entrate tale equivalenza tra mancanza di adesione (o di voto) e diniego espresso (o voto contrario) è inammissibile, poiché la prima implicherebbe una posizione inerte della pubblica amministrazione e non potrebbe integrare il rigetto espresso: non solo per ragioni letterali, ma anche sistematiche, in quanto un accordo non potrebbe essere imposto a una delle parti che non lo voglia e, ove fosse possibile, non si tratterebbe più di un accordo. Inoltre, se la transazione gli potesse essere imposta, l'Erario verrebbe a essere trattato in senso deteriore rispetto a un creditore privato, venendo costretto a subire un'intesa contro la sua volontà. Nella sostanza le norme introdotte dalla l. n. 159/2020 avrebbero quindi semplicemente lo scopo di porre rimedio all'inerzia dell'amministrazione finanziaria che si traduca in una mancata pronuncia sulla proposta di transazione formulata dal contribuente.

Questi argomenti non appaiono convincenti e sono comunque insufficienti a superare quelli di natura opposta sopra richiamati, su cui si fonda la tesi “estensiva”. Le disposizioni introdotte dalla l. n. 159/2020, infatti, hanno lo scopo, non tanto d'indurre il creditore pubblico ad esprimersi, quanto di evitare immotivate “resistenze” alla soluzione conciliativa, ove la stessa sia più conveniente per l'Erario del fallimento, come emerge dalla relazione illustrativa al Codice della crisi ex d.lgs. n. 14/2019 (dal quale le norme di cui trattasi sono state tratte), ove, nel commento all'art. 48, è chiaramente esposto che il loro scopo è quello “di superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate, spesso registrate nella prassi, è previsto che il tribunale possa omologare gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza di adesione da parte dell'Amministrazione finanziaria quando l'adesione ….”.

Ciò posto, alla luce di detta ratio non vi è dubbio che tali resistenze possono concretizzarsi sia qualora l'ente creditore dilazioni oltre misura la risposta alla proposta di transazione, sia qualora rigetti espressamente una proposta di transazione per esso più conveniente dell'alternativa liquidazione. La funzione dell'omologazione forzosa è dunque quella di perseguire il preminente interesse erariale attraverso il superamento delle resistenze degli uffici alla proposta transattiva, che risultino immotivate in presenza di un'attestata convenienza della stessa rispetto al fallimento e si pongano pertanto in contrasto con il principio del buon andamento della Pubblica amministrazione stabilito dall'art. 97 Cost..

L'amministrazione finanziaria non è infatti un creditore come un altro, al contrario di quanto sostiene in alcuni suoi atti l'avvocatura dello Stato, e, proprio per questo motivo, nell'ambito della transazione fiscale essa non dispone di una libertà di decisione, ma di una “discrezionalità vincolata” al maggior soddisfacimento dei crediti fiscali, per effetto della quale non può rigettare una proposta che preveda il pagamento di quei crediti in misura migliore di quella che potrebbe derivare da soluzioni alternative. Il creditore privato è libero di non concludere l'accordo che gli viene proposto anche quando gli converrebbe farlo (per principio, per puntiglio, per dispetto o altre ragioni ancora), perché dispone come crede del proprio patrimonio (peraltro entro certi limiti e sempre che di tale condotta non facciano le spese i suoi creditori), ma la pubblica amministrazione non può comportarsi allo stesso modo, perché amministra risorse pubbliche e deve perseguire il recupero dei propri crediti secondo criteri di efficienza che le consentano di ottenere il miglior risultato possibile.

Non disponendo il fisco di una discrezionalità priva di limiti, all'impresa proponente deve essere necessariamente attribuita una tutela giurisdizionale, da invocare ogniqualvolta la pronuncia dell'amministrazione finanziaria superi quei limiti e non risulti conforme alle norme che disciplinano la transazione fiscale e al disposto del citato art. 97 Cost.; altrimenti sarebbe come dire che qualsiasi decisione dell'Agenzia delle Entrate è di per sé legittima, semplicemente in quanto adottata da un soggetto pubblico, il che ovviamente non può essere. Come ha ben precisato il Tribunale di Teramo, “la transazione fiscale rappresenta l'esigenza di bilanciare l'interesse fiscale con l'interesse concorsuale, sicché la discrezionalità riconosciuta all'amministrazione finanziaria nello stipulare accordi transattivi è bilanciata dal sindacato giudiziale sul diniego di accettazione della proposta di transazione, che risulta assegnato al giudice ordinario fallimentare” (proprio perché trattasi di discrezionalità “vincolata”). Ne discende che, al contrario di quanto afferma l'avvocatura dello Stato, ricorrendone i presupposti previsti dagli artt. 180 e 182-bis l.fall. (convenienza e decisività) un accordo può ben essere imposto all'Agenzia delle Entrate dal giudice, nell'interesse generale ma anche dello stesso Erario.

Questo indirizzo ha del resto trovato l'avallo della Corte di Cassazione, la quale, a sezioni unite, con l'ordinanza n. 8504/2021, dopo aver stabilito che “le controversie relative al mancato assenso dell'agenzia fiscale alle proposte di trattamento dei crediti tributari regolate dall'art. 182-ter della l.fall. spettano, anche con riguardo al periodo anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. n. 14 del 2019, alla giurisdizione ordinaria del tribunale fallimentare, considerata l'obbligatorietà di tali proposte nell'ambito delle procedure nelle quali sono consentite ed in ragione, altresì, del disposto degli artt. 180, 182-bis e 182-ter l.fall., nel testo modificato dal citato d.lgs. n. 14 del 2019 e dal d.l. n. 125 del 2020”, ha affermato ”la prevalenza, con riferimento all'istituto in esame, dell'interesse concorsuale su quello tributario, senza che assuma rilievo, invece, la natura giuridica delle obbligazioni oggetto dei menzionati crediti".

Secondo le Sezioni Unite la ratio della nuova transazione va infatti ricercata non solo nell'interesse fiscale bensì nell'interesse concorsuale, che rappresenta la ragione fondativa delle procedure concorsuali, sempre più finalizzate alla conservazione dei valori aziendali. Pertanto, nella prospettiva di equilibrare i due interessi, la discrezionalità riconosciuta all'amministrazione finanziaria è bilanciata dal potere di riformare il rigetto della proposta transattiva assegnato al Giudice ordinario fallimentare. In tal modo le SS.UU. sembrano persino ampliare quella che, a modesto avviso di chi scrive, costituisce la ratio principale della transazione fiscale, ma, anche in assenza di tale estensione, pare davvero difficile escludere sia che in tale ratio rientri l'interesse fiscale, sia che l'operato dell'Amministrazione finanziaria debba essere sottoposto a un effettivo (e non solo teorico) sindacato del Giudice.

Un contributo al superamento di questa querelle in senso favorevole alla tesi estensiva è stato fornito infine dall'art. 20 d.l. 24 agosto 2021, n. 118, il quale, con riguardo al concordato preventivo, ha adeguato il disposto dell'art. 180, comma 4, l.fall. a quello dell'art. 63, comma 2, del Codice della crisi, modificando l'espressione “in mancanza di voto” in quella di “mancanza di adesione”. L'indicazione è chiara, come si desume anche dalla relazione accompagnatoria del decreto-legge n. 118/2021, secondo cui “la norma è inserita a completamento delle disposizioni introdotte dall'art. 3, comma 1-bis, d.l. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 novembre 2020, n. 159”: poiché per “mancanza di adesione” deve intendersi, nel concordato preventivo, anche la mancanza di adesione dovuta all'espressione di un voto negativo, il tribunale può omologare forzosamente la transazione fiscale e contributiva anche a seguito del rigetto della relativa proposta manifestato attraverso il voto contrario. Questa modifica legislativa è utile anche con riferimento all'accordo di ristrutturazione dei debiti, poiché conferma, indirettamente, che la medesima regola trova applicazione, a maggior ragione, in tale contesto; infatti, posto che, per precisare la possibilità dell'omologazione forzosa nel concordato, la lettera del comma 4 dell'art. 180 l.fall. è stata adeguata a quella dell'art. 182-bis l.fall., comma 4, ne discende che quest'ultima norma, che già prevedeva l'espressione “mancanza di adesione”, ricomprende di per sé anche il diniego espresso e non solo la mancata pronuncia.

Fonte: [IlFallimentarista.it]

La transazione fiscale in presenza di precedenti condotte fraudolente dell'impresa proponente

Secondo l'Agenzia delle Entrate le condotte fraudolente eventualmente poste in essere, anche diversi anni prima, dall'impresa proponente (ad esempio l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti) sono idonee a inficiare l'attendibilità della proposta di transazione fiscale, in quanto denotano l'assenza, da parte dell'impresa stessa, di collaborazione e trasparenza nei confronti dell'amministrazione finanziaria.

Pertanto, in tal caso la proposta non potrebbe essere valutata sulla base della sua convenienza per l'Erario, obliterando il presupposto secondo cui il fisco deve rispettare il principio di legalità e non può esercitare la propria funzione con una logica meramente imprenditoriale: conseguentemente, anche se la proposta risulta conveniente, dovrebbe prevalere la considerazione della gravità dei comportamenti del contribuente volti alla frode, anche perché la stipula di un accordo in presenza delle suddette condotte darebbe origine a un'inammissibile sorta di condono a favore dell'impresa debitrice.

Anche questo indirizzo appare non conforme al disposto dell'art. 182-ter l.fall., perché è di per sé priva di fondamento l'equazione secondo cui al compimento di atti di frode, e a maggior ragione se questi risalgono a molti anni prima della presentazione della proposta di transazione, deve conseguire, solo per tale motivo, il rigetto di tale proposta. Lo ha del resto escluso la stessa Divisione Contribuenti dell'Agenzia delle Entrate con la circolare n. 34 del 29 dicembre 2020, laddove ha precisato che la presenza delle condotte di cui trattasi rende necessario, in sede di valutazione della proposta, l'ampliamento dell'ambito oggettivo delle attività da svolgere, poiché tali circostanze devono “portare a ritenere le esigenze di tutela dell'interesse erariale prevalenti rispetto alla speditezza della procedura”. Una cosa, infatti, è che la sussistenza di precedenti atti fraudolenti induca l'amministrazione finanziaria a eseguire analisi più ampie e approfondite di quelle ordinarie, per verificare se tali atti incidono sulla valutazione della convenienza della proposta che detta amministrazione è chiamata a compiere, rafforzando così la tutela dell'interessa erariale; un'altra cosa è che la mera presenza di tali atti costituisca di per sé un ostacolo all'approvazione della proposta, anche ove questi non si siano tradotti nell'occultamento di patrimonio.

Non vi è infatti dubbio che, se mediante condotte fraudolente l'impresa debitrice ha costituito risorse all'estero (ovviamente non dichiarate), occorre tenerne conto ai fini della valutazione della convenienza della proposta di transazione, che dovrà in tal caso essere determinata calcolando anche dette risorse; così come nell'esecuzione di tale valutazione bisogna considerare i possibili incrementi di patrimonio derivanti da eventuali azioni di responsabilità e da azioni revocatorie esercitabili nell'ipotesi del fallimento dell'impresa proponente (in presenza, ad esempio, di vendite simulate, liberalità, spin off distrattivi, pagamenti preferenziali, ecc.).

Non tutti gli illeciti si traducono del resto nella costituzione di patrimoni occulti: l'utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, ad esempio, non consente la distrazione di attivo né, in assenza del pagamento di “commissioni” per la loro emissione, concorre di per sé a causare il dissesto dell'impresa debitrice, al contrario dell'utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti ovvero dello scorporo dell'attivo in una nuova società (good company) a fronte del quale la maggior parte del passivo rimanga nella vecchia società (bad company), e sempre che tale scorporo non sia strumentale alla proficua prosecuzione dell'attività prevista nel complessivo piano di risanamento. Anche quando le condotte fraudolente poste in essere abbiano consentito nel corso degli anni la costituzione di un patrimonio occulto, occorre inoltre verificare se tale patrimonio continua a esistere al momento della ristrutturazione dei debiti, che è quello con riguardo al quale l'accertamento delle attività e delle passività dell'impresa proponente deve essere eseguito ai fini della valutazione della convenienza della proposta di transazione.

In ogni caso, tali condotte rilevano, tuttavia, anche in questo caso, non in quanto giustifichino una punizione del debitore da esercitare mediante il rigetto (un po' “tafazziano”) di una transazione fiscale, ma ove l'esistenza di un maggior patrimonio renda più conveniente per il fisco la liquidazione fallimentare rispetto alla transazione. È dunque anche in questa ipotesi al criterio della convenienza che la valutazione deve essere informata e non a quello della punizione, da cui finirebbe poi per essere penalizzato soprattutto l'Erario.

Non v'è chi non veda come tale esclusivo criterio di valutazione possa condurre all'approvazione di transazioni fiscali cui corrispondano bancarotte perpetrate in danno dell'Erario, ma il compito di punire spetta ad altri. Lo conferma lo stesso d.l. n. 118/2021, che ha esteso l'applicazione dei reati fallimentari all'accordo di ristrutturazione con omologazione forzosa, proprio per evitare che chi si è reso responsabile delle suddette condotte rimanga impunito, beneficiando, grazie all'accordo, del mancato assoggettamento dell'impresa al fallimento e al concordato, nel cui ambito prima di tale estensione i reati fallimentari erano confinati. Si tratta – come è stato recentemente notato (R. Fontana, in Sole 24 Ore, 27 settembre 2021) – di un contrappeso senza il quale sarebbe sufficiente, per neutralizzare la sanzione penale prevista per le condotte fraudolente, proporre “all'Agenzia delle Entrate o all'ente previdenziale il pagamento di una frazione minima del debito, dovendo in ogni caso il tribunale, secondo la giurisprudenza allo stato prevalente, procedere all'omologazione anche a fronte del rigetto da parte dell'ente della domanda di adesione”. È tuttavia chiara la separazione voluta dal legislatore tra il profilo sostanziale dell'istituto della transazione fiscale, volto al più conveniente recupero del credito erariale, e il profilo delle responsabilità, che devono essere accertate con strumenti diversi e in altre sedi.

La preclusione della transazione fiscale nei confronti dell'impresa in liquidazione

Secondo l'Agenzia delle Entrate gli accordi di ristrutturazione dei debiti hanno lo scopo di consentire la soluzione di crisi che siano reversibili e strumentali al mantenimento dell'impresa debitrice sul mercato, posto che traggono dalla conservazione dei posti di lavoro e della continuazione dell'attività imprenditoriale la loro ragion d'essere.

Sarebbero pertanto da considerare inammissibili le proposte di transazione fiscale che hanno intento meramente liquidatorio e prevedano quindi la cessazione dell'attività d'impresa o siano formulate da soggetti che sono in liquidazione da più anni e hanno conseguentemente cessato la loro attività corrente già da tempo.

Questo indirizzo, a dire il vero, non è nuovo, poiché già con una direttiva del 2012 volta a fornire istruzioni alle proprie direzioni provinciali e regionali, l'Agenzia delle Entrate aveva espresso il convincimento che la transazione fiscale dovrebbe essere preferibilmente invocata, quanto meno nell'ambito dell'accordo di cui all'art. 182-bis, solo in presenza di uno stato di crisi reversibile e della dimostrata capacità dell'impresa di riacquistare redditività attraverso la pianificazione di interventi di natura economica e finanziaria.

Vi è tuttavia da considerare che successivamente al momento in cui detta direttiva è stata emanata la disciplina della transazione fiscale ha subito modifiche rilevanti, che incidono anche sul profilo di cui trattasi, rendendo tale orientamento non conforme al dettato legislativo vigente: non tanto perché l'accordo di ristrutturazione che preveda l'estinzione di tutti i debiti, seppur mediante la remissione di una parte (anche rilevante) degli stessi (che costituisce del resto l'effetto tipico della transazione fiscale), è di per sé atto a consentire il superamento della situazione di crisi originata dalla sproporzione dell'esposizione debitoria preesistente all'accordo rispetto all'attivo, ma per motivi che derivano sia dalla lettera sia dalla ratio del più volte citato art. 182-ter.

Innanzitutto, perché il campo di applicazione della transazione fiscale coincide con quello del concordato preventivo e dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, come si evince agevolmente dall'incipit del comma 1 dell'art. 182-ter (“Con il piano di cui all'art. 160 il debitore …. può proporre il pagamento parziale o anche dilazionato dei tributi …”) e del comma 5 del medesimo articolo (“Il debitore può effettuare la proposta di cui al comma 1 anche nell'ambito delle trattative che precedono la stipulazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all'art. 182-bis”); conseguentemente, se sussistono i presupposti oggettivi dell'accordo di ristrutturazione, sussistono anche quelli della transazione fiscale.

Il presupposto oggettivo dell'accordo di cui all'art. 182-bis è infatti lo stato di crisi, comprensivo di quello costituito da una situazione d'insolvenza, e ai fini dell'attuazione di tali accordi – come è stato rilevato in dottrina (M. Fabiani, Il diritto della crisi e dell'insolvenza, Zanichelli, 4444) – “non è essenziale che l'esito sia quello della conservazione dell'impresa e dunque la situazione di crisi può anche essere così grave da condurre alla dissoluzione dell'impresa”.

Ne discende che, essendo il campo di applicazione dell'accordo coincidente con quello della transazione fiscale, quest'ultima trova fisiologicamente spazio anche in presenza di uno stato d'insolvenza, di un piano liquidatorio e della conseguente estinzione dell'impresa debitrice.

Occorre inoltre considerare che, se il superamento di una crisi reversibile è strumentale alla continuazione dell'attività, l'istituto assolve certamente al meglio la propria funzione, che è quella di consentire il più efficace recupero del credito erariale, e permette al tempo stesso anche di preservare l'attività del debitore, con tutti i vantaggi che ne derivano in termini generali; tuttavia, la sua utilizzabilità non è impedita dalla sussistenza di uno stato d'insolvenza irreversibile, posto che anche in presenza di tale situazione il recupero dei crediti tributari deve comunque avere luogo ed è necessario che sia effettuato nel modo più conveniente per il Fisco.

Si intende dire che, anche quando la proposta di transazione si colloca in un contesto esclusivamente liquidatorio e dissolutivo dell'impresa debitrice - al di là del fatto che anche in tale contesto l'attività esercitata dal debitore insolvente può proseguire, seppure in forma indiretta, attraverso il trasferimento dell'azienda a un altro operatore - detta proposta può comunque permettere un soddisfacimento dei crediti tributari più elevato di quello discendente dalla liquidazione dell'impresa debitrice e risultare quindi conveniente per l'Erario. E, come si è già osservato, è proprio quello della convenienza, giusta il disposto del comma 1 dell'art. 182-ter, e non quello della prosecuzione dell'attività dell'impresa, il criterio da utilizzare per la valutazione della proposta di transazione, cioè il fattore che segna il discrimine tra le proposte che devono essere approvate e quelle che devono essere rigettate.

Non vi è dubbio che, se alla convenienza dettata dal pagamento dei crediti tributari in misura superiore a quella che il Fisco potrebbe alternativamente realizzare mediante la liquidazione si aggiunge la convenienza derivante dalla prosecuzione dell'attività - rappresentata dalla raccolta, in futuro, di imposte dovute dall'impresa stessa, dai suoi dipendenti e dai suoi fornitori, nonché dal mancato sostenimento di oneri sociali in virtù del mantenimento dei livelli occupazionali - la convenienza dell'Erario è maggiore; tuttavia, ai fini dell'approvazione della proposta di transazione la norma di legge richiede semplicemente che questa sia conveniente rispetto alla liquidazione (ad esempio, grazie all'apporto di un terzo che provvede a pagare direttamente l'Erario) e non che sia, per così dire, “doppiamente conveniente”, grazie al tempo stesso all'apporto del terzo e alla prosecuzione dell'attività. La convenienza per l'Erario sussiste infatti, indipendentemente dalla liquidazione dell'impresa, ogni qual volta – mediante la transazione fiscale – un terzo destini al pagamento dei debiti tributari dell'impresa una somma di denaro che, in assenza della transazione, il Fisco non riceverebbe affatto o recupererebbe in misura minore. In altri termini, la prosecuzione dell'attività può essere un mezzo utilizzabile per rendere possibile un maggior soddisfacimento dei crediti tributari (il che accade quando ne discendono risultati positivi), ma non un fine e certamente non un fine necessario.

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