In una s.a.s. non è una liberalità cedere al figlio una partecipazione uguale all'incremento dell'azienda familiare, riferibile all'attività del familiare

12 Novembre 2021

La quota di incremento di valore dell'azienda, riferibile all'attività del familiare, costituisce un credito del familiare verso il titolare dell'impresa; è inevitabile concludere che l'operazione, nei termini assunti nella sentenza impugnata, non ha fatto altro che neutralizzare le partite di segno opposto...
Massima

La quota di incremento di valore dell'azienda, riferibile all'attività del familiare, costituisce un credito del familiare verso il titolare dell'impresa; è inevitabile concludere che l'operazione, nei termini assunti nella sentenza impugnata, non ha fatto altro che neutralizzare le partite di segno opposto: passiva per la titolare, debitrice del figlio, e attiva per il figlio, creditore della madre.

Il caso

In seguito alla successione della madre, il coerede Tizio conveniva innanzi al Tribunale di Firenze gli altri coeredi e la società Alfa S.a.s, deducendo di essere stato leso nei propri diritti di legittimario dalle disposizioni testamentarie e donazioni della propria madre.

L'attore sosteneva che, in occasione della costituzione della società in accomandita semplice anzidetta, avvenuta nel 1992 mediante conferimento della farmacia di proprietà della de cuius, quest'ultima aveva posto in essere una liberalità in favore dei figlio, che fu reso, con tale operazione, compartecipe della società in misura del 49%; di contro la madre, a fronte del conferimento dell'intera azienda, acquistò la partecipazione del 51%.

Tanto il Tribunale di Firenze, quanto la Corte d'Appello di Firenze avevano escluso che, in concomitanza della costituzione della società, la de cuius avesse realizzato una liberalità in favore del figlio, il quale aveva acquisito una partecipazione sociale corrispondente all'incremento di valore dell'azienda derivante dal suo apporto nell'impresa familiare, secondo la valutazione del consulente tecnico.

Avverso la decisione di secondo grado, il figlio Tizio proponeva Ricorso per Cassazione, affidandolo ad un unico motivo, con il quale, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si doleva del criterio di calcolo fatto proprio dai giudici di merito, i quali avrebbero portato a una duplicazione di poste in favore di alcuni coeredi.

Tale impugnazione non era condivisa dalla Suprema Corte.

La Corte di Cassazione rilevava, in primo luogo, che la censura non teneva in alcun conto che nell'atto di costituzione della società era ben specificato che la madre conferiva nella società l'azienda commerciale ogni credito e debito relativo alla gestione della stessa farmacia maturato alla data odierna.

Ciò posto era inevitabile concludere che l'operazione, nei termini assunti nella sentenza impugnata, non aveva fatto altro che neutralizzare le partite di segno opposto: passiva per la titolare, debitrice del figlio, e attiva per il figlio, creditore della madre.

La titolare, invece di pagare in moneta, ha soddisfatto il credito del figlio, rendendolo compartecipe dell'azienda per importo corrispondente: il suo patrimonio non ha subito nella vicenda altra diminuzione se non quella dipendente dalla liquidazione del credito; analogamente non ha subito alcun incremento la sfera del creditore, il quale ha realizzato il credito non per equivalente, ma in natura, acquisendo una partecipazione di pari valore nella società di nuova costituzione.

Non c'è stato, in altri termini, né impoverimento, né arricchimento, essendo quindi assenti i requisiti oggettivi della donazione (v. Cass. 818/2012 e Cass. 6994/2000).

La questione

La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire se in concomitanza della costituzione di una società in accomandita semplice, se il valore della partecipazione sociale attribuita al figlio sia corrispondente all'incremento di valore dell'azienda derivante dal suo apporto nell'impresa familiare, si realizzi o meno una liberalità.

Le soluzioni giuridiche

Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituiti coinvolti nel caso in disamina.

In ordine alle società di persone, a mente dell'art. 2253 c.c., il socio è obbligato a eseguire i conferimenti determinati nel contratto sociale.

Quanto alla tipologia dei beni conferibili, la disciplina delle società personali non contiene le limitazioni previste a tutela dei creditori dalle disposizioni in tema di società di capitali.

Ne consegue che, nelle società personali, qualunque entità utile allo svolgimento dell'attività sociale e suscettibile di valutazione economica può, in linea di principio, essere oggetto di conferimenti.

È, dunque, ben possibile desumere il lecito conferimento nelle società di persone di danaro, beni in natura, crediti, opere, servizi e di ogni entità - quindi anche ogni diritto su beni - che sia suscettibile di valutazione economica e, comunque, idonea al soddisfacimento dell'interesse della società.

Sotto questo profilo, è ammesso il conferimento dell'azienda (v. Cass. 1915/2013 e Cass. 2165/1987), di garanzie reali e personali specifiche, del marchio e delle invenzioni, anche se non brevettate - purché brevettabili o da sfruttare in regime di esclusiva, del know-how inteso in senso stretto, nonché della posizione contrattuale che un soggetto ha nell'ambito di un contratto a prestazioni corrispettive, con conseguente applicazione degli artt. 1406 ss. codice civile.

Il socio che si impegna a conferire la propria attività lavorativa a favore della società non assume lo status di lavoratore subordinato con i relativi diritti salariali e previdenziali, pur non potendosi escludere che egli sia, anche, legato da un rapporto di lavoro subordinato con la società per altre prestazioni.

Il socio d'opera partecipa al rischio d'impresa e, dunque, la sua prestazione viene compensata attraverso la partecipazione ai guadagni della società nella misura determinata dal contratto sociale o, in mancanza di determinazione convenzionale, nella misura fissata dal giudice secondo equità.

Possono costituire oggetto di conferimento anche risorse diverse dai beni, crediti o servizi, purché ad esse sia attribuibile un valore economico.

A titolo puramente descrittivo, laddove il socio sia un soggetto particolarmente affidabile negli affari, potrebbe conferire nella società il proprio nome, dando il consenso al suo inserimento nella ragione sociale; in tal caso il nome equivarrebbe al conferimento di un credito aggiuntivo presso potenziali controparti o creditori.

Parimenti un soggetto particolarmente facoltoso, capace di rafforzare la società agli occhi dei creditori potrebbe conferire la responsabilità illimitata, capace di rafforzare la società agli occhi di eventuali creditori.

In quest'ultime due ipotesi, laddove il socio divenisse insolvente, potrebbe essere escluso dalla società.

Ha natura di conferimento l'apporto del socio consistente nel mettere in rapporto la società con un importante canale di distribuzione, al fine di consentire alla società la possibilità di sfruttare lo stock di produzione in altra società (v. Corte di Appello Milano 14.1.1992).

Al fine di accertare se il versamento del socio alla società possa ritenersi effettuato a titolo di conferimento o ad altro titolo che ne giustifichi la restituzione al di fuori dell'ipotesi di liquidazione, occorre accertare in concreto quale sia stata la reale intenzione dei soggetti (socio e società) secondo le comuni regole interpretative della volontà negoziale (v. Cass. 9471/2000 e Trib. Napoli 12.11.2002).

Ulteriore istituto coinvolto nel caso in disamina, è l'impresa familiare, ex art. 230-bis del codice civile, ossia quell'impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado dell'imprenditore.

Il lavoro prestato dal familiare deve essere continuativo il che esclude che si possa parlare di impresa familiare nel caso in cui il familiare presti la propria attività di lavoro in modo occasionale nell'impresa o nella famiglia.

Per quanto concerne il concetto di familiare con questa espressione si intendono il coniuge, i parenti entro il terzo grado (ad esempio: figli, genitori, fratelli, nonni, ecc..) e gli affini entro il secondo grado (ad esempio: suoceri, nuore, generi, cognati).

Il familiare che partecipa all'impresa familiare gode di diritti sia di natura economica, sia natura non economica.

I diritti di natura economica riconosciuti al familiare sono il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, nonché il diritto a partecipare agli utili dell'impresa familiare, ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento.

In tali circostanze i diritti sono riconosciuti in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.

Gli altri diritti, diversi da quelli di natura economica, riconosciuti al familiare sono il diritto di intervenire nelle decisioni relative l'impiego degli utili e degli incrementi del patrimonio aziendale, il diritto di partecipare alle decisioni relative alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa, il diritto di essere preferiti a terzi in caso di cessione dell'azienda e il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria.

Nonostante il legislatore abbia previsto la possibilità dei familiari di intervenire su alcune decisioni relative alla vita dell'impresa, l'impresa familiare non è un'azienda gestita da più persone.

Essa, infatti, è sempre un'impresa individuale, nella quale le decisioni sono prese dall'imprenditore che rimane, anche, l'unico che assume il rischio derivante dall'esercizio dell'impresa.

Infatti, in caso di insolvenza dell'impresa l'unico soggetto passibile di fallimento rimane l'imprenditore. Ciò emerge dal fatto che la disposizione di legge prevede una partecipazione agli utili dei familiari, ma non una partecipazione alle perdite.

Ciò significa che nei confronti dei terzi, l'impresa familiare rimane un'impresa individuale e la sua disciplina ha soprattutto come finalità quella di garantire ai familiari, che prestano il loro lavoro nell'impresa o nella famiglia, la possibilità di intervenire nelle scelte aziendali in caso di situazioni di straordinaria amministrazione, legate a momenti particolari della vita dell'impresa che si ripercuotono spesso anche sulla vita della famiglia.

Dal punto di vista fiscale, l'articolo 5 comma 4 e 5 del Testo Unico sull'Imposta dei Redditi prevede che il reddito conseguito venga imputato nel limite minimo del 51 %, al titolare dell'impresa.

Mentre il residuo 49%, ai familiari collaboratori, proporzionalmente alla loro quota di partecipazione agli utili, purché prestino in modo continuativo e prevalente la propria attività di lavoro nell'impresa.

Le quote di utili eventualmente conseguite andranno imputate ai collaboratori secondo il principio di trasparenza, indipendentemente quindi, dall'effettiva percezione.

Esse non costituiscono componenti di costo nella determinazione del reddito dell'impresa, bensì una ripartizione dell'utile complessivo.

Il reddito realizzato dall'impresa, pertanto, non verrà tassato per intero in capo all'imprenditore, consentendo una riduzione della progressività dell'IRPEF.

Parimenti per ciò che attiene le perdite, esse non potranno essere imputate ai collaboratori, ma rimarranno in capo al titolare.

Ciò detto e tornando al caso in premessa, un coerede conveniva gli altri coeredi e la società Alfa S.a.s, deducendo di essere stato leso nei propri diritti di legittimario dalle disposizioni testamentarie e donazioni della propria madre.

L'attore sosteneva che, in occasione della costituzione della società in accomandita semplice anzidetta, mediante conferimento della farmacia di proprietà della de cuius, quest'ultima aveva posto in essere una liberalità in favore dei figlio, che fu reso, con tale operazione, compartecipe della società in misura del 49%; di contro la madre, a fronte del conferimento dell'intera azienda, acquistò la partecipazione del 51%.

In entrambi i gradi di merito l'attore era dichiarato soccombente.

Pertanto l'attore proponeva Ricorso per Cassazione con il quale si doleva del criterio di calcolo fatto proprio dai giudici di merito, il quale avrebbe portato a una duplicazione di poste in favore di alcuni coeredi.

Tale impugnazione non era condivisa dalla Suprema Corte.

Conclusioni

La Corte di Cassazione con l'ordinanza in commento ribadiva che la quota di incremento di valore dell'azienda, riferibile all'attività del familiare, costituisce un credito del familiare verso il titolare dell'impresa.

Per ciò che attiene la fattispecie in disamina, il Giudice di Legittimità affermava che l'operazione commerciale su descritta, era del tutto neutra e non aveva fatto altro che neutralizzare le partite di segno opposto: passiva per la titolare, debitrice del figlio, e attiva per il figlio, creditore della madre.

La titolare, invece di pagare in moneta, aveva soddisfatto il credito del figlio, rendendolo compartecipe dell'azienda per importo corrispondente: il suo patrimonio non aveva subito nella vicenda altra diminuzione se non quella dipendente dalla liquidazione del credito.

Analogamente non aveva subito alcun incremento la sfera del creditore, il quale aveva realizzato il credito non per equivalente, ma in natura, acquisendo una partecipazione di pari valore nella società di nuova costituzione.

Non vi era stato, in altri termini, né impoverimento, né arricchimento, essendo quindi assenti i requisiti oggettivi della donazione (v., anche, Cass. 818/2012 e Cass. 6994/2000).

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