Riforma processo civile: la Cassazione

Mauro Di Marzio
24 Novembre 2021

Il presente contributo esamina le proposte di intervento normativo inerenti al giudizio di cassazione contenute nel disegno di legge per la riforma del processo civile. Il disegno di legge è stato approvato con l. 206/2021, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 9 dicembre 2021.
La riforma del processo civile e la Cassazione

Torniamo a parlare del disegno di legge delega sulla riforma del processo civile attualmente all'esame della Camera dei deputati, già approvato dal Senato lo scorso 21 settembre: l'esigenza di soffermarsi sull'analisi del disegno di legge, e dunque di un testo che legge ancora non è, anche per questa rivista, essenzialmente diretta agli operatori pratici e non agli approfondimenti teorici, è evidente, ove si consideri, da un lato, che la riforma rientra nella complessiva attuazione del PNRR, sicché non è ragionevolmente pensabile che la Camera dei deputati modifichi il testo, dando corso al congegno della doppia lettura ed alla conseguente dilatazione dei tempi, e, dall'altro, che per l'attuazione della delega è previsto un termine breve, di un anno, sicché quella che allo stato è norma in fieri, diventerà con tutta probabilità nel volgere di un breve torno di tempo, norma vigente.

Ed è meglio prepararsi per tempo.

Ci soffermiamo, qui, sugli interventi dedicati al funzionamento del giudizio di cassazione, le cui criticità, sulle quali la riforma vorrebbe utilmente intervenire, non hanno neppur bisogno di essere sottolineate. L'ancora recente comunicato stampa della Commissione Europea di presentazione del rapporto CEPEJ (Commission européenne pour l'efficacité de la justice) del 2020, su dati del 2018, sull'efficienza della giustizia civile in Europa, mostra un certo tono trionfalistico; l'efficienza e l'accessibilità dei sistemi giudiziari dell'UE - si dice - migliorano costantemente: ma è da credere che l'autore del comunicato stampa non sia arrivato a leggere la pagina 134 del rapporto, che riguarda le corti supreme, dalla quale emerge che «In Italia, invece, il DT», e cioè il Disposition Time, in buona sostanza la durata del processo, «ha oscillato ma è rimasto molto alto - 1266 giorni sono registrati nel 2018». Viceversa, ad esempio, «il DT in Spagna è aumentato ogni anno, da 273 giorni nel 2010 a 608 giorni nel 2018»: insomma, la durata dei processi dinanzi al Tribunal Supremo di Spagna, che è la Cassazione spagnola, dopo essere andata di male in peggio per otto anni consecutivi, non è arrivata alla metà della durata del nostro giudizio di cassazione. Evviva.

Come ritiene il legislatore di porre rimedio a questa situazione? Non dico per attestarsi sulla media europea di durata del giudizio dinanzi alle rispettive corti supreme, durata che nel 2018 era di 207 giorni, ma almeno per battere la Spagna. Ecco i punti salienti.

Chiarezza e sinteticità

Una rivoluzionaria (si fa per dire) disposizione fa ingresso nell'art. 366 c.p.c., la norma che contempla, a pena di inammissibilità, i requisiti di contenuto-forma del ricorso per cassazione. Oggi la norma dice che il ricorso deve contenere «l'esposizione sommaria dei fatti della causa» (n. 3) e «i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano» (n. 4); la legge delega stabilisce invece che il ricorso dovrà contenere «la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione». Così congegnata, la norma vuol dir poco: forse che oggi il ricorso può contenere un'esposizione oscura e superflua? Motivi foschi e pletorici? Qui delle due l'una: o in sede di decreti delegati si riterrà di introdurre per la Cassazione la disposizione che si applica ai giudici di serie A, l'art. 7-bis d.l. 168/2016, convertito con modificazioni dalla l. 197/2016, che attribuisce al Consiglio di Stato il potere di fissare specifiche regole, ed in particolare specifici limiti dimensionali, per la redazione dei ricorsi e degli altri atti difensivi; o rispetto ad adesso non cambia niente. L'applicazione della stessa disposizione prevista per il Consiglio di Stato alla Corte di cassazione era senza dubbio il minimo sindacale che ci si poteva attendere. La mia impressione, però, è che la Corte di cassazione rimarrà in serie B, insieme, tanto per dire, a SPAL, Cittadella e Ternana: osservo che la Commissione Luiso, il cui lavoro sta alla base del disegno di legge, aveva previsto una norma secondo cui «le parti redigono il ricorso, il controricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del primo presidente della Corte di cassazione, sentiti il procuratore generale della Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l'avvocato generale dello Stato». Che cosa vorrà dire che il testo predisposto dalla commissione è stato annacquato del disegno di legge?

Unificazione dei riti camerali

Sparisce la sesta sezione: una sezione che per la verità non esiste, sicché non c'è nulla che si possa far sparire. E cioè, la sesta sezione è composta dagli stessi consiglieri delle cinque sezioni della Corte di cassazione (prima, seconda, terza, tributaria e lavoro), che sono addetti alla «apposita sezione» che applica il procedimento camerale dell'art. 380-bis c.p.c., il procedimento che ha lo scopo, diciamo così, di definire sollecitamente quei ricorsi che proprio non stanno in piedi, o che sono così chiaramente fondati da non meritare di attendere i tempi ordinari: sesta sezione alla quale dobbiamo la durata media di 1266 giorni, che altrimenti sarebbe assai maggiore.

Il rito camerale «di sesta» (art. 380-bis) cede a beneficio di quello applicato dinanzi alle sezioni semplici (art. 380 bis 1), che subisce modificazioni: a conclusione della camera di consiglio, l'ordinanza, «succintamente motivata», può essere immediatamente depositata in cancelleria, sul modello, tanto per capirci, dell'art. 281-sexies c.p.c., nella chiara prospettiva che un acuto mio collega ha definito di «tribunalizzazione della Corte di cassazione». Ma si potrà anche riservare il deposito entro sessanta giorni dalla camera di consiglio.

Fin qui non c'è granché di nuovo, ed anzi sembra, come mi è capitato di osservare più volte, di essere dinanzi ad un ordine all'insegna del «facite ammuina», «tutti chilli che stanno a prora vann 'a poppa e chilli che stann 'a poppa vann'a prora, chilli che stann'a ddritta vann'a sinistra e chilli che stann'a sinistra vann'a dritta», eccetera.

Il procedimento accelerato

Quanto a riti camerali, si potrebbe dire: beh, l'unificazione dinanzi alla sezione semplice è pur sempre un contributo alla semplificazione, e la semplificazione, in materia processuale, è cosa buona. Ma non è così. Morto un rito se ne fa un altro. Diremmo, un rito-Bianconiglio, visto che lo scopo e quello di fare presto, il che richiama l'ossessione del tempo - «Oh dear! Oh dear! I shall be too late!» - del White Rabbit di Lewis Carrol.

È difatti previsto un nuovo procedimento accelerato (comma 9, lett. e, del d.d.l.). Si tratta di un rito applicabile soltanto in sede camerale per la definizione di ricorsi inammissibili, improcedibili, manifestamente infondati (e già piace poco che non ci sia un rito accelerato per i ricorsi manifestamente fondati, il che vuol dire che chi ha ragione può attendere). In tali ipotesi, «il giudice della Corte» - espressione curiosa, in cui se non vado errato ci imbattiamo per la prima volta, che parrebbe da riferire al singolo consigliere - formula una proposta di definizione del ricorso indicando le ragioni, appunto, di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza ravvisata. La proposta è comunicata agli avvocati delle parti. Se nessuna delle parti, atterrita, annichilita, sbigottita, scombussolata dalla proposta, o anche appagata, perché no, guardando con l'occhio del controricorrente, chiede la fissazione della camera di consiglio entro il termine di venti giorni dalla detta comunicazione, il ricorso si intende rinunciato. E quindi «il giudice» pronuncia il decreto di estinzione, liquidando le spese di lite. Perché mai, dunque, visto che le spese si pagano comunque, il ricorrente dovrebbe rinunciare a chiedere la camera di consiglio, confidando nella possibilità, che è in effetti una possibilità vera e reale, che il collegio la pensi diversamente dal «giudice della Corte» che ha fatto la proposta? Perché risparmia il raddoppio del contributo unificato: questo è quanto prevede, piuttosto ottimisticamente, il disegno di legge. Se il processo si estingue non si paga il raddoppio del contributo unificato.

Ancora una piccola osservazione: se ho compreso bene cosa intende dire la norma, il «giudice della Corte» è il medesimo consigliere che fa sia la proposta, sia l'eventuale dichiarazione di estinzione: se le cose stanno così, è per la prima volta previsto che un provvedimento terminativo del giudizio di cassazione viene adottato dal singolo consigliere. A quando altri provvedimenti terminativi monocratici? A quando il giudice unico di Cassazione?

Il rinvio pregiudiziale

È previsto alla lettera g) del comma 9. Si tratta probabilmente della novità di maggior rilievo sistematico, per quanto riguarda la Corte di cassazione.

Si prevede che «il giudice di merito», al di fuori dei casi di giudizio di rinvio o di revocazione, «può disporre con ordinanza il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte per la risoluzione di una questione di diritto necessaria per la definizione anche parziale della controversia». Chi è il giudice di merito? È decisamente da credere si tratti del solo giudice ordinario, il che vuol però dire anche il giudice di pace: sicché potremmo avere cause di competenza del giudice di pace, che valgono magari quattro soldi, e che l'interessato non avrebbe mai portato in Cassazione, attesa la modesta posta in gioco, che ci arriveranno per iniziativa giudiziale. Mi pare utile inoltre chiarire che la norma contenuta nella delega non fissa un termine per il rinvio alla Cassazione: e dunque si darà il caso delle parti che, dopo avere, speranzose, depositato gli scritti conclusionali, si vedranno la causa rimessa sul ruolo per il supplementare giro di giostra in Cassazione.

Il giudice, previamente sottoposta la questione al contraddittorio delle parti, dispone il rinvio pregiudiziale se la questione è: a) esclusivamente di diritto; b) nuova, non essendo stata ancora affrontata dalla Corte di cassazione; c) di particolare importanza; d) con gravi difficoltà interpretative; e) tale da riproporsi in numerose controversie. L'ordinanza è trasmessa alla Corte di cassazione, il cui Primo Presidente dichiara inammissibile la richiesta in assenza dei presupposti indicati e, altrimenti, assegna la questione alle Sezioni Unite o alla sezione semplice tabellarmente competente. In tal caso la Corte, ricevuta la requisitoria scritta del pubblico ministero e le eventuali memorie delle parti, enuncia il principio di diritto, all'esito di pubblica udienza. Il rinvio pregiudiziale in cassazione sospende il giudizio di merito. Il provvedimento della Corte di cassazione è vincolante nel procedimento a quo.

Non è facile esprimere in proposito un giudizio ultimativo: vi sono pro e contro. Sorprende, per la verità, che la Nota illustrativa ne discorra come di una novità assoluta; è vero che lo strumento differisce, ma in effetti non differisce nemmeno tanto da quello previsto dall'art. 420-bis c.p.c., in tema di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi: il fine è sempre quello di anticipare l'intervento della Corte di cassazione al fine di evitare l'insorgere di contrasti di giurisprudenza. L'intento è dunque di potenziare la funzione nomofilattica (questo sarebbe il pro).

La citata Nota illustrativa contiene qui un inconsapevole autogoal: viene sbandierata l'utilità che un simile strumento avrebbe avuto nel risolvere il notissimo contrasto sull'identificazione del soggetto onerato di promuovere istanza di mediazione obbligatoria nell'opposizione a decreto ingiuntivo; ma l'esempio proprio non calza, perché in quel caso la Corte di cassazione è intervenuta abbastanza celermente, ed è intervenuta dando alla questione il responso sbagliato, tanto che successivamente si sono dovute pronunciare sul punto le Sezioni Unite, con la decisione, di segno diametralmente opposto, che tutti i lettori conoscono. Un'obiezione è proprio questa: in un sistema come il nostro, in cui si va in Cassazione per anzianità (tacendo d'altro) e non per concorso, non è agevolmente sostenibile che la Corte di cassazione, intervenendo in prima battuta, possa offrire soluzioni più affidabili di quelle del giudice di merito perché i giudici di cassazione sono più bravi. La verità è che la Cassazione esercita al meglio la funzione nomofilattica che l'art. 64 dell'ordinamento giudiziario le attribuisce - quando la esercita - perché parla per ultima, parla a distanza di tempo dal momento in cui il contrasto interpretativo è insorto, parla dopo che si sono pronunciati molti giudici di merito esaminando la questione da un verso e dall'altro, parla dopo che si è pronunciata la dottrina, mettendo in evidenza i pregi ed i difetti dell'uno e dell'altro orientamento. Perché dovremmo aspettarci che si esprima al meglio se si esprime per prima? Credo sia utile guardare ad una vicenda precedente. La novella del 2006 dell'art. 374, terzo comma, c.p.c., secondo cui, se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, deve appunto nuovamente interpellare le Sezioni Unite, ha prodotto una tendenza delle sezioni semplici a rivolgersi alle Sezioni Unite secondo un modello che, tennisticamente, potremmo dire del serve and volley: un collegio afferma un principio, un altro collegio non lo condivide e, lungi dal contrastarlo in modo da sviscerare a fondo il problema, rimette immediatamente la questione alle Sezioni Unite; il risultato è, talora, di sentenze pronunciate dalla Corte nella sua più alta formazione che non tengono la botta per più di qualche tempo, e che richiedono ulteriore affinamento a seguito di ulteriore intervento delle stesse Sezioni Unite. Sicché, tornando a noi, non è agevole pronosticare che un anticipato intervento della Cassazione potrà effettivamente distillare diritto in modo così limpido e chiaro da disinnescare o almeno stemperare ogni successivo contrasto.

Molti altri interrogativi meriterebbero di essere prospettati: si può esaminare una questione di diritto senza che si sia previamente accertato il fatto? Ancor meglio: esistono questioni di diritto che non siano al tempo stesso anche questione di fatto? Tanto per buttarla sul piano del paradosso: giunge in Cassazione il quesito in ordine ai casi in cui è legittimo tagliare un bambino in due a colpi di spada, remittente un giudice di merito, tale Salomone Re: come si fa a rispondere al quesito se non si sa che c'erano due madri che si contendevano il bambino? E poi: il giudice di primo grado interpella la Corte di cassazione; la Corte dà la propria interpretazione della norma; il giudice di merito vi si attiene e pronuncia sentenza; la sentenza è impugnata in appello; il giudice di appello è anche lui obbligato ad attenersi? E ancora: il giudice di merito effettua il rinvio; il Primo Presidente della Corte di cassazione lo dichiara inammissibile perché non sussistono gravi difficoltà interpretative, dal momento che il significato della norma è chiaro in un determinato senso; dopodiché 100 giudici di merito seguono la soluzione del Primo Presidente, 100 quella opposta: nulla di grave, il sistema torna alla fisiologia del contrasto, ma certo si espone il Primo Presidente all'eventualità di non fare una bellissima figura. E si potrebbe andare avanti ancora a lungo con gli interrogativi.

Detto questo, un fatto è certo: il rinvio pregiudiziale aumenta il carico della Corte di cassazione, senz'altro non lo diminuisce. E dunque nell'ottica della soluzione dei problemi della Cassazione, che sono problemi di carico ipertrofico, il rinvio pregiudiziale, così com'è concepito, rema contro. Si può obiettare che nell'ordinamento dal quale abbiamo mutuato la novità, quello francese, che prevede la saisine pour avis (alla lettera rinvio per parere), i rinvii sono in realtà in numero irrilevante. Ma non sono del tutto convinto che questo sia tranquillizzante: in una situazione come la nostra, in cui i giudici di merito hanno a loro volta carichi di lavoro esorbitanti, il pericolo che a qualcuno possa pungere vaghezza di disfarsi almeno temporaneamente di un fascicolo rimettendolo alla Cassazione per una sorta di consulenza legale gratuita non mi pare del tutto inesistente.

Quisquilie

Ancora poche notazioni su aspetti che paiono tutto sommato di contorno.

Sopraggiunge un chiarimento concernente la pubblica udienza (comma 9, lett. f), che è riservata ai casi in cui «la questione di diritto è di particolare rilevanza». La formula è la medesima impiegata dall'attuale art. 375, ultimo comma, c.p.c. Dunque si tratta di una messa a punto non risolutiva, tanto più che resta da chiarire quando una questione di diritto sia di particolare rilevanza: una questione di diritto è di particolare rilevanza se involge l'applicazione ad un numero vastissimo di casi? Se concerne vicende magari peculiari, ma che invocano situazioni particolarmente sensibili? Se è particolarmente complicata dal punto di vista della fattispecie? Forse avrebbe potuto essere l'occasione opportuna per un chiarimento. Ma forse va bene che le cose rimangano così come sono, nella nube dell'indeterminatezza, e che la fissazione dell'udienza pubblica sia in definitiva rimessa alla discrezionale valutazione della Cassazione.

È modificato l'art. 377, comma 2, c.p.c., attraverso l'aumento da venti a quaranta giorni del termine tra la comunicazione ai difensori delle parti e al pubblico ministero della data dell'udienza e l'udienza medesima. Magari a qualcuno poteva venire in mente di allungare il termine per il deposito delle memorie illustrative previste dall'art. 378 c.p.c., che è di soli cinque giorni: oggi non è raro portare in adunanza 6-7-8 ricorsi, il che può voler dire 16 memorie illustrative, e cioè, data la stazza che generalmente hanno tali atti, peraltro non propriamente risolutivi, non meno di 3-400 pagine, se va bene. La sorte del giudizio di legittimità non sarebbe cambiata, ma si sarebbe data una piccola facilitazione al lavoro dei consiglieri, senza peraltro aggravare gli avvocati, per i quali ovviamente una scadenza vale l'altra. La cosa è tanto più strana se si considera il diverso termine di dieci giorni previsto dal rito camerale per le sezioni semplici dall'art. 380bis 1 c.p.c.

Il giudizio complessivo sulla riforma della Cassazione non può essere di condivisione, se non altro piena. E sembra che il legislatore non abbia consapevolezza del fatto che se non funziona la Corte di cassazione, e ciò vuol dire se non cala drasticamente il numero dei ricorsi, il sistema della giustizia civile non può funzionare.

Dicevo in apertura: battere la Spagna. Forse sarebbe stato meglio interpellare Donnarumma.

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