La natura della responsabilità di una struttura sanitaria: riflessi sulla transazione tra medico e danneggiato
29 Novembre 2021
Premessa
La Terza Sezione civile della Cassazione, con la sentenza n. 26118 del 27 settembre 2021, ha enunciato il principio così sintetizzato dall'Ufficio del Massimario: “In tema di responsabilità per danni da attività medico-chirurgica, anche quando la domanda risarcitoria si fonda sull'erroneo operato del medico, e non sui profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la transazione tra medico e danneggiato non impedisce l'esercizio dell'azione per l'accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera - che non ha natura di responsabilità per fatto altrui, bensì per fatto proprio e, pertanto, non viene meno in conseguenza della liberazione del medico dalla propria obbligazione risarcitoria -, ma comporta unicamente che, nel compiere detto accertamento, il giudice debba indagare incidenter tantum sulla esistenza di una eventuale condotta colposa del sanitario”. Il provvedimento in esame approfondisce tre tematiche strettamente connesse: a) l'incidenza di una transazione, perfezionata tra un medico e la vittima, sulla posizione dell'ospedale; b) la natura della responsabilità della struttura sanitaria; c) la ripartizione della responsabilità nei rapporti interni tra struttura sanitaria e medico. La fattispecie concreta
La fattispecie concreta nell'ambito della quale le questioni si erano poste era la seguente. Un paziente aveva convenuto in giudizio una clinica ed un medico, chiedendo la condanna solidale al risarcimento dei danni sofferti a séguito di un intervento di discectomia eseguito dal medico e presso la struttura. I giudici di merito avevano accolto la domanda, evidenziando, tra l'altro, che mancando la prova della predisposizione di un apparato organizzativo e funzionale idoneo, quanto meno a livello potenziale, ad evitare rischi di errori dei propri incaricati, non era stata vinta la presunzione di pari responsabilità nei rapporti interni tra condebitori solidali. Con uno dei due motivi del ricorso principale la casa di cura aveva denunciato l'omesso esame di un fatto decisivo e discusso, poiché la corte territoriale aveva, a suo dire, mancato di considerare che, nei rapporti interni tra struttura sanitaria e medico, non poteva operare una presunzione di pari responsabilità, a fronte dell'accertata responsabilità esclusiva, sul piano colposo ed eziologico, della condotta del medico. La Suprema Corte (Cass. 11/11/2019, n. 28987) rinnega una diffusa ricostruzione dell'istituto, oggi peraltro smentita testualmente dal disposto dell'art. 7, c. 1, della legge n. 24 del 2017, la quale sovrappone (recte, sovrapponeva), erroneamente, la fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio ex art. 1228 c.c. dell'ente impersonale (che si serve di ausiliari quale strumento di attuazione dell'obbligazione contrattuale verso il paziente), pur sempre fondata sull'elemento soggettivo dell'ausiliario (il che ne esclude la configurabilità in termini di responsabilità oggettiva, salva un'autonoma responsabilità "organizzativa" della struttura stessa), con la responsabilità indiretta per fatto altrui (concordemente ritenuta di tipo oggettivo) dell'imprenditore per i fatti dei propri dipendenti, disciplinata dall'art. 2049 c.c.
Si tratta di fattispecie astratte radicalmente differenti per morfologia ed effetti: nel primo caso (art. 1228 c.c.) l'attività dell'ausiliario è incardinata nel programma obbligatorio originario che è diretto a realizzare, e per la cui realizzazione il debitore contrattuale si è necessariamente avvalso dell'incaricato, essendogli preclusa, attesa la natura giuridica di ente, ogni possibilità di adempimento "diretto"; nel secondo caso (art. 2049 c.c.) la condotta pregiudizievole non si traduce propriamente nella mancata o inesatta esecuzione di un contenuto obbligatorio del committente verso un creditore, quanto piuttosto nello svolgimento di mansioni dannose per un terzo privo di una pregressa relazione qualificata con il debitore, ferma l'alterità dei soggetti imputabili dell'illecito (il preponente, il preposto); e proprio per ciò si richiede la preposizione e l'occasionalità necessaria (Cass., Sez. Un., 16 maggio 2019, n. 13246) per la configurazione di una responsabilità (concordemente ritenuta oggettiva) del dominus. E' noto, infatti, che, in tema di fatto illecito, la responsabilità dei padroni e committenti per il fatto del dipendente ex art. 2049 c.c. non richiede che tra le mansioni affidate all'autore dell'illecito e l'evento sussista un nesso di causalità, essendo sufficiente che ricorra un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che le incombenze assegnate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo. A dire il vero, non era mancato in passato un orientamento (che aveva visto i suoi albori con Sez. 3, Sentenza n. 6386 del 08/05/2001 ed una sua ripresa con Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006) che aveva tentato di assottigliare, almeno sul piano probatorio, le differenze tra i due inquadramenti, statuendo che il positivo accertamento della responsabilità dell'istituto postula (pur trattandosi di responsabilità contrattuale, con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di onere della prova, che grava, per l'effetto, sull'istituto stesso e non sul paziente) pur sempre la colpa del medico esecutore dell'attività che si assume illecita, non potendo detta responsabilità affermarsi in assenza di tale colpa (fatta salva l'operatività di presunzioni legali in ordine al suo concreto accertamento), poiché sia l'art. 1228 che il successivo art. 2049 c.c. presuppongono, comunque, un illecito colpevole dell'autore immediato del danno, cosicché, in assenza di tale colpa, non è ravvisabile alcuna responsabilità contrattuale del committente per il fatto illecito dei suoi preposti. Questo indirizzo si era posto in consapevole contrasto con un altro (Sez. 3, Sentenza n. 9100 del 29/08/1995; conf.Sez. 3, Sentenza n. 8381 del 20/06/2001), a tenore del quale la responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2049 c.c., essendo fondata sul presupposto della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l'autore dell'illecito e il proprio datore di lavoro e sul collegamento dell'illecito stesso con le mansioni svolte dal dipendente, prescinde del tutto da una culpa in eligendo o in vigilando del datore di lavoro ed è, quindi, insensibile all'eventuale dimostrazione dell'assenza di colpa.
La legge n. 24 del 2007 (che, quanto alla fattispecie esaminata dalla S.C., era sopravvenuta) costituisce, nella cornice della specialità della materia, indice ermeneutico d'indirizzo a supporto della ricostruzione appena esposta. Risulta, quindi, ormai definitivamente superato l'indirizzo (di cui l'ultima manifestazione ufficiale sembra essere Sez. 3, Sentenza n. 1620 del 03/02/2012) secondo cui l'ospedale risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente, per fatto proprio, ex art. 1218 c.c., ove tali danni siano dipesi dall'inadeguatezza della struttura, ovvero per fatto altrui, ex art. 1228 c.c., ove siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui l'ospedale si avvale. Gli obblighi a carico della struttura sanitaria
In proposito, va ricordato che il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizioni del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 c.c. (secondo cui il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si avvale dell'opera di terzi, ancorché non alle sue dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi), all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (cfr., in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 18610 del 22/09/2015).
In questa cornice, va rimarcato come il medico operi pur sempre nel contesto dei servizi resi dalla struttura presso cui svolge l'attività (che sia stabile o saltuaria), per cui la sua condotta negligente non può essere "isolata" dal più ampio complesso delle scelte organizzative dei propri servizi operate dalla struttura, di cui il medico stesso è parte integrante, mentre il citato art. 1228 c.c. fonda, a sua volta, l'imputazione al debitore (id est, alla struttura sanitaria) degli illeciti commessi dai suoi ausiliari sulla libertà del titolare dell'obbligazione di decidere come provvedere all'adempimento, accettando il rischio connesso alle modalità prescelte, secondo la struttura di responsabilità da rischio d'impresa ("cuiuscommoda eius et incommoda") ovvero secondo la responsabilità organizzativa nell'esecuzione di prestazioni complesse; ne consegue che, se la struttura si avvale della "collaborazione" dei sanitari persone fisiche (utilità), si trova del pari a dover rispondere dei pregiudizi da costoro eventualmente cagionati (danno): la responsabilità di chi si avvale dell'esplicazione dell'attività del terzo per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale trova radice non tanto in una colpa in eligendo degli ausiliari o in vigilando circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato all'utilizzazione dei terzi nell'adempimento, realizzandosi, e non potendo obliterarsi, l'avvalimento dell'attività altrui per l'adempimento della propria obbligazione, comportante l'assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino. Gli effetti della transazione raggiunta tra il danneggiato ed il medico
Ancora più chiara è, quanto alla natura della responsabilità della struttura, Cass. sent. n. 26118/2021, secondo la quale la responsabilità della struttura sanitaria per il fatto degli ausiliari, di cui all'art. 1228 c.c., è una responsabilità per fatto proprio, non per fatto altrui (come già stabilito, con ampia motivazione, da Sez. 3, Sentenza n. 28987 del 11/11/2019). Chi assume l'obbligazione di prestare al paziente assistenza e cura è l'ospedale, e l'eventuale errore commesso dal medico che di quell'ospedale sia ausiliario costituisce ipso facto inadempimento delle proprie obbligazioni da parte dell'ospedale. L'errore del medico-persona fisica costituisce, dunque, un mero presupposto di fatto per il sorgere della responsabilità dell'ospedale: e, come tutti i presupposti di fatto, potrà essere accertato dal giudice incidenter tantum, senza efficacia di giudicato nei confronti del medico, e senza necessità che questo ultimo partecipi al giudizio. Quale che sia il modo in cui si volesse ricostruire il rapporto tra ospedale e medico, è certo che tutti e due rispondano in solido nei confronti del paziente. Ed al creditore d'una obbligazione solidale è sempre consentito transigere la lite con uno dei coobbligati, sciogliendo il vincolo solidale rispetto al transigente e riservando i propri diritti nei confronti degli altri (Sez. Un, Sentenza n. 30174/2011).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, la circostanza che il medico abbia transatto la lite col paziente, venendo liberato dalla propria obbligazione, non impedisce al paziente né di introdurre, né di coltivare la domanda di risarcimento nei confronti dell'ospedale, ed ha per unica conseguenza la riduzione del quantum debeatur, che andrà determinato coi criteri stabiliti da Sez. U, Sentenza n. 30174/2011.La liberazione d'uno dei coobbligati, pertanto, non impedisce affatto di accertare la responsabilità di quest'ultimo nel diverso rapporto tra il danneggiato e i restanti coobbligati, a meno che la transazione stipulata dal paziente col medico abbia ad oggetto non la sola quota virile dell'obbligazione gravante su quest'ultimo, ma l'intero debito. In proposito, va ricordato che, ove la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l'ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all'importo pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideate di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l'accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto (cfr. altresì Sez. 1, Sentenza n. 24362 del 29/10/2013, Sez. 3, Sentenza n. 22231 del 20/10/2014 e Sez., Ordinanza n. 25980 del 24/09/2021). Infatti, la norma di cui all'art. 1304, primo comma, c.c. (a mente della quale “La transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare”) si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l'intero debito, e non la sola quota del debitore con cui è stipulata (spettando al giudice del merito verificare quale sia l'effettiva portata contenutistica del contratto), giacché è la comunanza dell'oggetto della transazione stessa a far sì che possa avvalersene il condebitore solidale pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e, quindi, in deroga al principio per cui il contratto produce effetti soltanto tra le parti (sul punto si segnalano Sez. 1, Sentenza n. 20107 del 07/10/2015 e Sez. 1, Ordinanza n. 16087 del 18/06/2018).
I rilievi che precedono non sono superati dal precedente della Suprema Corte, secondo cui "quando la domanda risarcitoria attinge solo l'operato del medico e non anche i profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la transazione tra medico e danneggiato, con conseguente declaratoria di cessata materia del contendere, impedisce la prosecuzione dell'azione nei confronti della struttura sanitaria, perché questa è convenuta in giudizio solo in ragione del rapporto di lavoro subordinato col professionista, e dunque per fatto altrui, sicché la transazione raggiunta tra il medico e il danneggiato, escludendo la possibilità di accertare e dichiarare la colpa del primo, fa venir meno la responsabilità della struttura, senza che sia neppure possibile invocare l'art. 1304 c.c." (Sez. 3, Sentenza n. 15860 del 28/07/2015). È opportuno, ai nostri fini, riportare il principale passaggio logico della menzionata sentenza, per ben comprendere che lo stesso, in un medio tempore modificato tessuto normativo e giurisprudenziale, si rivelerebbe ormai anacronistico: "Il perfezionamento del predetto negozio transattivo ha escluso la possibilità di accertare e dichiarare la colpa del medico e l'eventuale concorso della struttura ospedaliera nella causazione del danno. Correttamente l'impugnata sentenza ha quindi dichiarato cessata la materia del contendere nei confronti del dott. M. per la sua responsabilità professionale. L'impossibilità di dichiarare la responsabilità del medico, a seguito della transazione, ha fatto venir meno la responsabilità della struttura in quanto il risarcimento richiesto è conseguenza dell'operato del medico e non di un titolo autonomo. In altri termini, la transazione ha chiuso la controversia, per cui il Tribunale prima e la Corte d'appello poi non potevano dichiarare la responsabilità del medico".
In definitiva, è possibile enunciare i seguenti due principi fondamentali: 1) la responsabilità dell'ospedale scaturente da un errore del medico non è una responsabilità per fatto altrui, ma è una responsabilità per fatto proprio, la quale pertanto non viene meno per la circostanza che il creditore abbia liberato il medico dalla propria obbligazione; 2) in ogni caso, la transazione stipulata tra il paziente e il medico non impedisce affatto l'accertamento della responsabilità della struttura, ma comporta unicamente che, nel compiere tale accertamento, il giudice indagherà incidenter tantum sulla esistenza o meno di una condotta colposa da parte del medico. Come ulteriore corollario del secondo principio, la transazione stipulata dal danneggiato con l'autore materiale del fatto non impedisce al primo di ottenere il danno differenziale da quegli che debba rispondere dell'operato dell'autore materiale, quando il creditore ne abbia fatto espressa riserva. Residua il problema di stabilire in che termine, in sede di azione di regresso, si ripartisce il debito nei rapporti interni tra il medico e la struttura sanitaria presso la quale egli ha operato. Orbene, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest'ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all'utilizzazione di terzi per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un'eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile (e oggettivamente improbabile) devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell'obbligazione (cfr., in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 28987 del 11/11/2019).
A differenti conclusioni si perverrebbe qualora si inquadrasse la fattispecie nell'ambito dell'art. 2049 c.c. In siffatta evenienza, infatti, i due soggetti, il padrone ed il commesso, rispondono per titoli distinti, ma uno solo di essi è l'autore del danno, non si verifica l'ipotesi del concorso nella produzione del fatto dannoso e la conseguente ripartizione dell'onere risarcitorio secondo i criteri fissati dall'art. 2055 c.c.: ferma la corresponsabilità solidale nei confronti del danneggiato, il preponente responsabile - in estensione della tutela del terzo- per il fatto altrui può agire in regresso contro l'effettivo autore del fatto per l'intero, e non pro quota.
Quanto sopra spiega perché in questa ipotesi vi sia regresso per l'intero, e la necessità di differenziare la fattispecie di cui all'art. 1228 c.c.; ciò proprio perché, in questo secondo e differente caso, la responsabilità di chi ha volontariamente incaricato l'ausiliario, e organizzato attraverso questo incarico l'esecuzione della propria obbligazione per i fini negoziali perseguiti, è, come si è visto, per fatto proprio, e non altrui. In questa evenienza, premesso che la relazione che si instaura tra dominus e danneggiato preesiste alla condotta dannosa di inadempimento e che il coinvolgimento dell'ausiliario è strutturalmente funzionale all'adempimento di quella previa obbligazione, i criteri generali della relativa quantificazione non possono che essere ricondotti, sia pure in modo complessivamente analogico, al portato degli artt. 1298 e 2055 c.c., a mente dei quali il condebitore in solido che adempia all'intera obbligazione vanta il diritto di rivalersi, con lo strumento del regresso, sugli altri corresponsabili, secondo la misura della rispettiva responsabilità; in linea di principio, la misura del regresso in parola varia a seconda della gravità della rispettiva colpa e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate; il terzo comma dell'art. 2055 c.c. detta una presunzione iuris tantum di pari contribuzione al danno da parte dei condebitori solidali, che impone al solvensdi provare la diversa misura delle colpe e della derivazione causale del sinistro; dal suo canto, l'art. 1298 c.c. detta la regola secondo la quale l'obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori in parti che si presumono eguali, «se non risulti diversamente».
Ecco perché, per individuare il credito da regresso, si deve tenere conto del contributo personale all'illecito dell'ausiliario, e della riconduzione del danno all'inadempimento di un'obbligazione che resta nella titolarità del debitore, e quindi pertiene alla sua area di controllo e di rischio; ne consegue, anche in questa chiave, l'impredicabilità di un diritto di rivalsa integrale della struttura nei confronti del medico, in quanto, diversamente opinando, l'assunzione del rischio d'impresa per la struttura si sostanzierebbe, in definitiva, nel solo rischio d'insolvibilità del medico così convenuto dalla stessa. La soluzione in precedenza esposta deve incontrare un limite laddove si manifesti un evidente iato tra (grave e straordinaria) malpractice e (fisiologica) attività economica dell'impresa, che si risolva in vera e propria interruzione del nesso causale tra condotta del debitore e danno lamentato dal paziente.
Va, peraltro, precisato che, per ritenere superato l'assetto anche interno così ricostruito, non basta ritenere che l'inadempimento fosse ascrivibile alla condotta del medico, ma occorre considerare il composito e duplice titolo in ragione del quale la struttura risponde solidalmente del proprio operato, sicché sarà onere del solvens: a) dimostrare - per escludere del tutto una quota di rivalsa - non soltanto la colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno, ma la derivazione causale di quell'evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un'ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni; b) dimostrare - per superare la presunzione di parità delle quote, ferma l'impossibilità di comprimere del tutto quella della struttura, eccettuata l'ipotesi sub a) - che alla descritta colpa del medico si affianchi l'evidenza di un difetto di correlate trascuratezze nell'adempimento del contratto di spedalità da parte della struttura, comprensive di controlli atti ad evitare rischi dei propri incaricati, “da valutare in fatto, da parte del giudice di merito, in un'ottica di duttile apprezzamento della fattispecie concreta”. Osservazioni conclusive
L'approccio adottato dalla Cassazione è condivisibile nelle ipotesi in cui la responsabilità in capo alla struttura ospedaliera derivi da una culpa in vigilando o da una culpa in eligendo (presupponendo, in siffatta evenienza, l'accertamento in via incidentale del responsabile in prima battuta), laddove, nel caso in cui gli addebiti mossi alla stessa concernano profili lato sensu organizzativi, l'accertamento della conseguente responsabilità dovrebbe prescindere da quella avente ad oggetto la condotta (commissiva o omissiva) del sanitario. Inoltre, per quanto l'inquadramento nell'ambito dell'art. 1228 c.c. sia ormai diffuso, è innegabile che la responsabilità fondata sul principio cuius commoda eius et incommoda sia nata nel contesto dell'art. 2049 c.c. Invero, il soggetto che, nell'espletamento della propria attività, si avvale dell'opera di terzi, ancorché non alle proprie dipendenze, assume il rischio connaturato alla loro utilizzazione nell'attuazione della propria obbligazione e, pertanto, risponde direttamente di tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose, che a costoro, sulla base di un nesso di occasionalità necessaria, siano state rese possibili in virtù della posizione conferita nell'adempimento dell'obbligazione medesima rispetto al danneggiato e che integrano il "rischio specifico" assunto dal debitore (si pensi, di recente, a Sez. 3, Sentenza n. 4298/2019 e, sia pure in un differente contesto, Sez. 3, Ordinanza n. 8811/2020).
Infine, avuto riguardo al pur condiviso approccio rispetto alla rottura del nesso eziologico, il controllo demandato al giudice, in tema di responsabilità professionale del medico (soprattutto se chirurgo), mi sembra più complesso. Invero, ai fini di una accurata ricognizione del complesso rapporto intercorrente tra la fattispecie del nesso causale e quella della colpa, con specifico riferimento ai rispettivi, peculiari profili probatori, occorre tener presente i seguenti principi (sul punto non può non richiamarsi l'esaustiva Sez. 3, Sentenza n. 7997/2005): 1) il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che corre - su di un piano strettamente oggettivo e secondo una ricostruzione logica di tipo sillogistico - tra un comportamento (dell'autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora utilmente qualificabile in termini di damnum iniuria datum) e l'evento; 2) nell'individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento, si prescinde, in prima istanza, da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto "oggettivata", da parte dell'autore del fatto, essendo il concetto logico di "previsione" insito nella categoria giuridica della colpa (elemento qualificativo dell'aspetto soggettivo del torto, la cui analisi si colloca in una dimensione temporale successiva in seno alla ricostruzione della complessa fattispecie dell'illecito); 3) il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche solo contribuito a generare, tale obbiettiva relazione col fatto deve considerarsi "causa" dell'evento stesso; 4) il nesso di causalità giuridica è, per converso, relazione eziologica per cui i fatti sopravvenuti, di per sè soli idonei a determinare l'evento, interrompono il nesso con il fatto di tutti gli antecedenti causali precedenti; 5) la valutazione del nesso di causalità giuridica, tanto sotto il profilo della dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali, quanto sotto l'aspetto della individuazione del novus actus interveniens", va compiuta secondo criteri a) di probabilità scientifica, ove questi risultino esaustivi; b) di logica, se appare non praticabile (o insufficientemente praticabile) il ricorso a leggi scientifiche di copertura; con l'ulteriore precisazione che, nell'illecito omissivo, l'analisi morfologica della fattispecie segue un percorso affatto speculare - quanto al profilo probabilistico - rispetto a quello commissivo, dovendosi, in altri termini, accertare il collegamento evento/comportamento omissivo in termini di probabilità inversa, onde inferire che l'incidenza del comportamento omesso si pone in relazione non/probabilistica con l'evento (che, dunque, si sarebbe probabilmente avverato anche se il comportamento fosse stato posto in essere), a prescindere, ancora, dall'esame di ogni profilo di colpa intesa nel senso di mancata previsione dell'evento e di inosservanza di precauzioni doverose da parte dell'agente.
La ricostruzione riportata può dirsi tuttora attuale, se si fa eccezione per il riferimento alla causalità giuridica, alla luce dell'ormai prevalente orientamento secondo cui l'accertamento del nesso di causalità materiale tra il danno evento e il fatto-reato non si estende anche a quello del danno conseguenza, per il quale si rende necessaria un'ulteriore indagine, in sede civile, sul nesso di causalità giuridica fra l'evento di danno e le sue conseguenze pregiudizievoli (cfr., in tal senso, di recente, Sez. 3, Ordinanza n. 8477/2020 e Sez. 3, Sentenza n. 28986/2019).
Solo il positivo accertamento del nesso di causalità, che deve formare oggetto di prova da parte del danneggiato, consente il passaggio, logicamente e cronologicamente conseguente, alla valutazione dell'elemento soggettivo dell'illecito, e cioè della sussistenza, o meno, della colpa dell'agente, che, pur in presenza di un comprovato nesso causale, potrebbe essere autonomamente esclusa secondo criteri (storicamente elastici) di prevedibilità ed evitabilità, tenendo presente che i criteri funzionali all'accertamento della colpa medica - la prova della cui assenza grava, nelle fattispecie di responsabilità contrattuale, sul professionista/debitore - risultano quelli a) della natura, facile o non facile, dell'intervento del medico; b) del peggioramento o meno delle condizioni del paziente; c) della valutazione del grado di colpa di volta in volta richiesto (lieve, nonché presunta, in presenza di operazione "routinarie"; grave, se relativa ad interventi che trascendono la preparazione media ovvero non risultino sufficientemente studiati o sperimentati, con l'ulteriore limite della particolare diligenza e dell'elevato tasso di specializzazione richiesti in tal caso); d) del corretto adempimento dell'onere di informazione e dell'esistenza del conseguente consenso del paziente.
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