Locazioni ad uso commerciale e riduzione dei canoni durante la pandemia

30 Novembre 2021

Già nei primi mesi della Pandemia i Tribunali sono stati investiti dal contenzioso tra i locatori, che hanno immediatamente reagito al mancato pagamento dei canoni di locazione, e i conduttori, che invocavano il fatto notorio dei limiti governativi imposti alla libertà di circolazione per contrastare il diffondersi del contagio da COVID-19 per giustificare l'inadempimento...
L'eccessiva onerosità sopravvenuta quale strumento per conseguire la riduzione del canone di locazione durante l'emergenza pandemica: ostacoli concettuali e procedurali

Già nei primi mesi della Pandemia i Tribunali di merito sono stati investiti dal contenzioso che ha visto contrapporsi i locatori, che hanno immediatamente reagito al mancato pagamento dei canoni di locazione, ai conduttori, che invocavano il fatto notorio dei limiti governativi imposti alla libertà di circolazione per contrastare il diffondersi del contagio da COVID-19 per giustificare l'inadempimento e avanzare richieste di riduzione del corrispettivo per un godimento degli immobili, di fatto, limitato dalle misure restrittive. 

Il primo approccio della giurisprudenza di merito è stato vario in quanto gli elementi normativi a disposizione erano molteplici ma per lo più inadeguati con riferimento ai contratti di locazione. Infatti, per la maggior parte i rimedi civilistici sono rimedi caducatori, cioè il ricorso ad essi segna la fine del rapporto contrattuale e quindi dell'attività commerciale  (es. il recesso per gravi motivi ex art. 27 l. 392/78). 

L'istituto codicistico dell'eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.) è stato tra i più invocati pur rivelandosi il meno adatto per il conduttore che mirava alla conservazione del contratto e voleva raggiungere l'obiettivo di una pronuncia giudiziale di riduzione dei canoni locatizi. 

I presupposti dell'azione ex art. 1467 c.c. sono noti. Il contratto deve essere ad esecuzione continuata o periodica o ad esecuzione differita rispetto alla conclusione del contratto; la prestazione non deve essere esaurita; l'eccessiva onerosità deve dipendere dal verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili e si deve verificare prima che la prestazione risulti esaurita nel termine di adempimento previsto in contratto o nel diverso termine, successivo, tollerato dal creditore o giustificato ex lege.  

I maggiori dubbi sollevati dalla giurisprudenza sull'utilizzabilità del rimedio in ambito locatizio hanno riguardato proprio il presupposto dell'onerosità sopravvenuta individuata come inesistente nel caso di immobile, che pure destinato ad una delle attività commerciali colpite dalle misure restrittive, avrebbe «... conservato il proprio valore locativo» dovendo l'onerosità «attenere ad aspetti obiettivi e non alle condizioni soggettive (perdita di reddito , ad esempio) del conduttore»(così Trib. Pisa,  30 giugno 2020); inoltre,  l' eccessiva onerosità sopravvenuta evocherebbe il c.d. «rischio di impresa» che ricade sul contraente conduttore (ex multis Trib. Roma, sez. VI, sent., 7 aprile 2021, n. 6017, Liberati). 

Non minori, tuttavia, sono gli ostacoli processuali all'utilizzabilità dello strumento in esame.

Infatti, il rimedio di cui all'art. 1467 c.c. è di natura demolitoria, offerto alla parte conduttrice che, deducendo di avere patito senza sua colpa, a causa della pandemia da COVID -19, il venir meno dell'equilibrio tra le prestazioni contrattuali, ha diritto di agire per la risoluzione del contratto.

La facoltà di chiedere che il negozio venga ricondotto a condizioni di equità è riservata, invece, alla controparte, il locatore,per evitare la pronuncia risolutiva (cfr. ultimo comma dell'art.1467 c.c.): è evidente che nella pratica gli interessi sono invertiti perché in genere è il locatore a domandare la risoluzione a fronte dell'inadempimento del conduttore mentre quest'ultimo ha interesse ad una riduzione del canone proporzionale nei periodi di chiusura forzata.  

Fonte: ilprocessocivile.it

L'eccessiva onerosità sopravvenuta tra diritto di azione e di eccezione 

L'eccessiva onerosità non rappresenta, quindi, il presupposto di un'azione di riduzione del canone  né potrebbe basarsi su tale disciplina un diritto alla riduzione in via di azione (cfr. Trib. Roma, sez. VI, sent., 30 giugno 2021, n. 11336, giudice Febbraro). Né l'eccessiva onerosità sopravvenuta può fondare una mera eccezione per contrastare l'altrui richiesta di adempimento (v.  Cass. civ.,  sez. II, ord., 7 novembre 2017, n. 26363 con richiami a Cass. civ., sez. III, 26 ottobre 2004, n. 20744): infatti, quando la legge ha voluto sancire che l'inadempimento della parte è giustificato da quello di controparte ha codificato l'eccezione di inadempimento.  

L'effetto che l'ordinamento attribuisce al «fatto» - «eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione»  - è il potere di domandare in giudizio la risoluzione del contratto che obbliga a tale prestazione, anche in via riconvenzionale con la precisazione che la pronuncia della risoluzione ha carattere costitutivo, sicché essa non potrà neanche essere proposta per la prima volta nel giudizio di appello, ostandovi il divieto di cui all'art. 345 c.p.c. (Cass. civ., sez. III, 26 ottobre 2004, n. 20744; Cass. civ., sez. II, ord., 7 novembre 2017, n. 26363; Contra Cass. civ., 13 dicembre 1980, n. 6470, in Giur. It., 1981, I,1, 1620  e in Foro it., 1981, I, 713, con nota di Silvestrini, secondo cui in mancanza di un tassativo divieto di legge, il debitore può avvalersi di ogni eccezione che tenda e sia utile a liberarlo dalla domanda di adempimento contro di lui proposta, cosicché va escluso che sia necessario chiedere la risoluzione del contratto affinché la dedotta eccessiva onerosità possa spiegare i suoi effetti e deve ammettersi che sia invece possibile invocarla al solo scopo di ottenere il rigetto della domanda spiegata dal creditore).   

Dunque, la parte convenuta in giudizio per l'adempimento di un contratto a prestazioni corrispettive non può giustificare il proprio inadempimento deducendone l'eccessiva onerosità sopravvenuta (ed offrendo, ad esempio, una reductio ad aequitatemdello stesso come si legge in  Cass. civ., sez. II, 5 gennaio 2000, n. 46).  Essa, infatti, diversamente dall'impossibilità sopravvenuta, non è prevista dalla legge come causa di estinzione dell'obbligazione, né come causa di legittima sospensione, o di rifiuto, dell'adempimento, né, ancora, rende inesigibile l'adempimento. 

La parte che subisce l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione: 

- può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, c.c., purché non abbia già eseguito la propria prestazione (Cass. civ., 22 novembre 1985, n. 5785 e Cass. civ., 8 giugno 1957, n. 2123, in Giust. Civ., 1957, 1508). Infatti, non può diventare onerosa una prestazione già estinta (con l'adempimento); 

- non ha diritto di ottenere l'equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l'azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l'eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l'altro contraente accetti l'adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite (v. Cass. civ., sez. I, ord., 26 gennaio 2018, n. 2047; Cass. civ., sez. II, 25 marzo 2009, n. 7225; Cass. civ., sez. II, 5 gennaio 2000, n. 46).   

L'offerta di modifica del contratto: matrice sostanziale o processuale. Problematiche conseguenziali 

Ai sensi, quindi, del terzo comma dell'art. 1467 c.c., solo la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. Pertanto, l'offerta predetta non può provenire dalla parte che subisce l'eccessiva onerosità sopravvenuta e la riduzione ad equità è un diritto potestativo del convenuto, legittimato passivo nell'azione di risoluzione il quale valuta che l'utilità di conservare il contratto valga più del sovraprezzo che deve sborsare per ridurlo ad equità. 

Il riconoscimento di detto potere della controparte (rispetto a quella che domanda la risoluzione) risponde al principio di conservazione del contratto, finalizzato ad alleviare l'altra dall'eccessivo aggravio della prestazione.  

L'offerta si configura come negozio unilaterale recettizio, per essere adeguata deve ricondurre il contratto ad equità ristabilendo l'equivalenza delle prestazioni sproporzionate, a seconda dei casi incrementando il valore dell'una o riducendo quella dell'altra. La parte lesa può aderirvi o rifiutarla o non rispondere.  

Sulla natura di tale offerta gli studiosi si sono divisi tra coloro che ne sostengono la matrice sostanziale e quelli che ne affermano quella processuale.  

Sembra prevalere l'opinione di chi la configura come una «dichiarazione di volontà di carattere negoziale»,  più precisamente una «dichiarazione di volontà unilaterale recettizia» Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1992, 976, e in giurisprudenza  Cass. civ., sez. II, 25 maggio 1991, n. 5922). 

Va precisato però che non può essere qualificata sic et simpliciter come una proposta contrattuale: anche ammettendo, infatti, la natura sostanziale, in particolare negoziale, dell'offerta, per essere operativa non necessita dell'accettazione della controparte, potendo il giudice ritenere comunque equa l'offerta ad evitare la risoluzione. 

Dalla natura sostanziale deriva che l'offerta di modificare il contratto per ricondurlo ad equità è sottratta alle preclusioni processuali stabilite dagli artt. 183, 184 e 345 c.p.c., ma essa trova un limite alla sua proponibilità nel passaggio in giudicato della sentenza (Cass. civ., sez. I, 16 aprile 1951, n. 931; cfr., nello stesso senso, sia pure con riferimento specifico ad analogo potere di reductio ad aequitatem previsto dall'art. 1450 c.c. in tema di rescissione del contratto, Cass. civ., sez. II, 31 agosto 2018, n. 21469; Cass. civ., sez. VI, 5 giugno 2014, n. 12665).   

Tale carattere negoziale dell'offerta, intesa a modificare il contratto per ricondurlo ad equità comporta, tuttavia, che la stessa offerta esuli, generalmente, dall'ambito dell'oggetto della procura alle liti (che abilita il difensore a compiere nell'interesse della parte gli atti del processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati) (Cass. civ., sez. II, 24 marzo 1954, n. 837).

Strettamente collegata alla natura giuridica dell'offerta è la questione dei tempi processuali, cioè del momento fino al quale è consentito proporla. 

Qualcuno ha rilevato (Gazzoni, op. cit., 947) che se la si considera una controdomanda sarebbe «proponibile anche con un giudizio separato e parallelo a quello di rescissione, sempre che non sia stata ancora pronunciata una sentenza definitiva». 

Contenuto dell'offerta e poteri del giudice 

L'aspetto più controverso dell'offerta di modificazione è costituito  dall'individuazione del suo contenuto. Ci si chiede se l'offerta debba essere puntuale  e, quindi, indicare in modo preciso le condizioni che si propongono per modificare il contratto, ovvero se sia sufficiente la semplice manifestazione della volontà di conservare il contratto, rimettendosi per la determinazione del quantum, in tutto o in parte, alla discrezionalità del giudice. 

La maggior parte della dottrina ravvisa la necessità che tale contenuto sia specifico, serio e congruo, spettando al giudice unicamente il potere di valutare l'idoneità dell'offerta a ricondurre  a equità il contratto.

Le ragioni addotte a sostegno di questa tesi sono diverse. In particolare, si è osservato che se si consentisse al giudice di determinare discrezionalmente il contenuto dell'offerta si darebbe luogo all'ingresso del potere discrezionale del giudice (sia pure formalmente voluto dal soggetto interessato e non esercitato ex officio) che, per altro verso è invece escluso. Al giudice, quindi, sarebbe riservata l'alternativa tra accettare e respingere la domanda, con una sentenza meramente dichiarativa.

Non va trascurato poi che un'offerta generica impedirebbe alla controparte di valutare l'opportunità di accettarla o meno, costringendo sempre alla prosecuzione del giudizio. 

Inizialmente anche la giurisprudenza, di legittimità e di merito, ha ritenuto che l'offerta di riduzione dovesse «essere formulata in modo concreto e preciso», e che la sua determinazione non potesse essere affidata «all'avversario, al giudice o ad un consulente tecnico» (App. Ancona, 20 settembre 1955, Cass. civ., 27 gennaio 1959, n. 224). 

Successivamente si è ritenuta ammissibile un'offerta generica rimettendo al giudice la determinazione della modifica necessaria per riportare in equilibrio le prestazioni originariamente pattuite (cfr. da ultimo Cass. civ., 25 maggio 1991, n. 5922). 

In effetti sarebbe in contrasto con l'interesse di entrambe le parti vincolare il convenuto ad una specifica modificazione ed imporre al giudice il rigetto di un'offerta inadeguata, anche quando il giudice stesso contemperando equamente gli interessi delle parti fosse in grado di offrire una soluzione accettabile da entrambe. 

Tale enunciato ha sollevato qualche perplessità in dottrina giacché una tale duplice facoltà non è prevista, né comunque desumibile dal testo normativo, né tanto meno ricavabile da più generali principi, dacché ai giudici, neanche su richiesta, è dato di procedere a modificazioni, se anche rispondenti ad equità, dei termini del contratto. 

Com'è noto, le pronunce determinativo-costitutive dei giudici rispondono a requisiti di rigorosa tipicità (arg. exart. 2908 c.c.) e ciò in armonia con il principio che incidere, con effetti innovativi, sui privati rapporti non rientra nei compiti generali della giurisdizione, ove appunto si eccettuino pronunce che annullano o risolvono contratti o costituiscono rapporti ma sempre in aderenza a termini e/o elementi già precostituiti in fonti precedenti (v. caso del contratto preliminare).  

Quanto al richiamo a norme più generali, ad es. all'integrazione del contratto facendo ricorso all'equità (art. 1374), è noto che, secondo l'interpretazione prevalente, trattasi di equità integrativo-operativa ove sussistano lacune lasciate dalla volontà delle parti o dalla legge. 

Anche il testo della norma non sembrerebbe consentire dubbi, sul fatto che è il convenuto nel giudizio di risoluzione ad «offrire» (e non a domandare) la reductio ad aequitatem, il che ha indotto la dottrina a definire sostanziale tale offerta, a carattere recettizio, diretta principalmente alla parte e, in subordine, al giudice che ne dovrà valutare la sufficienza al fine di rigettare la domanda di risoluzione. 

Meno problemi sorgono allorquando - come avviene frequentemente - la parte non formuli un'unica offerta ma un'offerta diversificata di somme o anche faccia riferimento, con clausola di stile, a quella «maggiore o minore somma» che il giudice dovesse ritenere equa. 

Non sono mancate pronunce che hanno ritenuto sussistente, in tal caso, una domanda subordinata di determinazione giudiziale di equo prezzo. In questo caso, - si legge in Cass. civ., 18 luglio 1989, n. 3347 - il giudice sarebbe investito del potere-dovere di integrazione dell'offerta sulla base degli elementi già acquisiti (in senso analogo Cass. civ., 24 aprile 1976, n. 1067 e 12 marzo 1965, n. 407 e  Cass. civ., sez. un., 7 giugno 1957, n. 2109). 

La preoccupazione della S.C. in tali pronunce era chiaramente quella di non onerare la parte convenuta dal formulare un'offerta del tutto concreta e minuziosa nei suoi elementi, con il rischio di un suo rigetto per insufficienza, laddove ben potrebbe il convenuto/offerente rinviare per relationem a quanto, in punto di onerosità (eccessiva), risulterà in corso di causa, anche all'esito dell'istruttoria con la conseguenza che ben la proposta potrà essere determinato per relationem, allo stato degli atti. 

La soluzione più idonea è sembrata, quindi, quella di consentire al convenuto una scelta.  

E', quindi, valida una proposta formulata in modo specifico, che non lasci al giudice che l'alternativa tra accettare o respingere la domanda, com'è ugualmente ammesso che il convenuto faccia un'offerta di contenuto in tutto o in parte indeterminato purché determinabile dal giudice, il quale svolgerà la funzione di «arbitrator».

Tuttavia, nel caso di specifica proposta di modifica formulata dalla parte, se il giudice non la ritenga equa, dovrà pronunciare la risoluzione del contratto, limitandosi a respingere la proposta, non potendo integrare la proposta o disattenderla (Cass. civ., sez. II, 11 gennaio 1992, n. 247, in Giur. It., 1993, I,1, 2018, con nota di MAGNI; Corriere Giur., 1992, 662, con nota di Di Majo; Vita Notar., 1992, 548). 

Infatti, nel caso in cui il convenuto nell'esercizio della facoltà di disporre liberamente dei propri interessi, anziché chiedere di rimettere al giudice la determinazione del contenuto delle modifiche da apportare al contratto per ricondurlo ad equità, propone egli stesso il contenuto di dette modifiche, tale proposta, ove non accettata dalla controparte, perde il carattere di proposta negoziale rivolta a quest'ultima ed assume il connotato di una specifica domanda processuale con la conseguenza, in tal caso, che il giudice ex art. 112 c.p.c. può soltanto pronunciarsi sull'efficacia di questa ad impedire l'accoglimento della contrapposta domanda di risoluzione, non anche ridurre la somma offerta dal convenuto ritenendola eccessiva, perché così facendo deciderebbe ultra petita invadendo la sfera dispositiva delle parti).  

La mancata accettazione dell'offerta, comunque, non potrà incidere sul merito della decisione sulle contrapposte domande delle parti (risoluzione/manutenzione del contratto) ma soltanto - eventualmente - sulla pronuncia in ordine alle spese processuali (Cass. civ., sez. II, 11 gennaio 1992, n. 24759).  

L'art. 1467 c.c., poi non attribuisce al giudicante alcun tipo di discrezionalità, ma si riferisce all'equità come ad un criterio tecnico nel senso di «equilibrio delle prestazioni».  

Costante, inoltre, in giurisprudenza, è il principio secondo cui l'equa modificazione debba essere valutata, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1467 c.c., con riferimento alla situazione esistente non al momento della conclusione del contratto o della domanda di risoluzione bensì al momento della pronuncia giudiziale (Cass. civ., sez. II, 28 luglio 1990, n. 7626; sez. II, 18 luglio 1989, n. 3347).  

La reductio ad aequitatem non è poi consentita in ipotesi di negozio nullo (Cass. civ., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242). 

 L'impossibilità sopravvenuta (parziale) della prestazione quale presupposto della domanda giudiziale  di riduzione dei canoni locatizi 

Anche l'istituto dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1464 c.c.) è stato utilizzato per contrastare le domande di adempimento avanzate dai locatori. 

Tuttavia, anche in questo caso non sono mancati contrasti di opinione sull'ammissibilità del rimedio prescelto sia in punto di diritto sostanziale che di rito. 

Precisamente, nei rapporti locativi «in periodo di epidemia» l'impossibilità sopravvenuta della prestazione non è quella (pecuniaria) del conduttore che, traducendosi nella prestazione di una somma di denaro, per definizione non diventa mai impossibile (Cass. civ., n. 2555/1968 (genus numquam perit), ma quella del locatore di mantenere il bene locato nel pacifico godimento del conduttore (Impossibilità sopravvenuta, parziale e temporanea della prestazione del locatore: vedasi a tal proposito Cass. civ., n. 18047/2018 e Cass. civ., n. 20811/2014; Cass. civ., n. 16315/2007 e le recentissime pronunce in ambito locatizio rese dal Trib. Venezia, sez. I, ord., 28 luglio 2020 e Trib. Venezia, sez. I, 30 settembre 2020 e Trib. Milano, 21 ottobre 2020; Trib. Milano, sez. XIII, 18 maggio 2021 n. 4355, giudice Chiarentin).  

In questa prospettiva alcuni Tribunali hanno sostenuto il diritto del conduttore alla riduzione del canone  (art. 1464 c.c.) secondo percentuali diverse a seconda dei limiti legali all'esercizio dell'impresa tempo per tempo vigenti.

Altra parte della giurisprudenza ha ritenuto, invece, non applicabile l'istituto della parziale impossibilità sopravvenuta (cfr. al riguardo anche Trib. Roma, sez. VI, sentt. nn. 3109 e 3114  del 19 febbraio 2021 dott. Corrias, sentenze n. 5224 del 25 marzo 2021 e n. 8005 del 7 maggio 2021 dott. Nardone; Trib. Roma, sez. VI, sent., 7 aprile 2021, n. 6017, Liberati) valutando come ostativo all'utilizzabilità da parte del conduttore del rimedio di cui all'art. 1464 c.c.  la circostanza che la norma richiede che la sopravvenienza deve avere carattere di assolutezza e oggettività cui si aggiunge la difficoltà concettuale di «piegare» la causa della locazione che, per le locazioni commerciali, non si estende mai alla garanzia della produttività dell'attività imprenditoriale che il conduttore si accinge a svolgere nei locali concessi (salvo specifica pattuizione al riguardo :Cass. civ., sez. III, sent., n. 14731/2018, parte motiva).  

Peraltro, nessuna norma connessa all'emergenza conseguente alla Pandemia COVID-19 ha precisato che il conduttore di un immobile locato possa sospendere o rifiutare il pagamento del canone nell'ipotesi in cui l'attività esercitata sia risultata interdetta dai provvedimenti emergenziali (cfr. in proposito Trib. Pordenone, 8 luglio 2020; Trib. Pordenone, 3 luglio 2020 e Trib. Roma, sez.VI, ord., 13 novembre 2020 in RG. 27757/2020 Pres. Balduini. 

In punto di rito, va rilevato che,  anche volendo ammettere l'utilizzabilità dello strumento di cui all'art. 1464 c.c. la norma prevede un'ipotesi di (parziale) estinzione dell'obbligazione (diversa dall'adempimento) e la pronuncia che si chiede al giudice non potrà che essere una pronuncia di «accertamento» sia dell'intervenuta parziale estinzione dell'obbligazione del locatore di fornire un immobile utilizzabile pienamente e sia del conseguenziale diritto del conduttore a versare, per il periodo interessato dall'evento, un corrispettivo proporzionalmente ridotto. 

Proprio la natura di accertamento della pronuncia giudiziale esclude che possano essere richieste ed emesse sentenze pro-futuro che sanciscano, cioè, la sostituzione del canone pattuito tra le parti con quello stabilito dal giudice per un periodo «a venire»: la pronuncia giudiziale avrebbe natura diversa, non già di accertamento ma  costitutiva. 

Tuttavia, come rilevato, né l'art. 1374 c.c. né il dovere di solidarietà sociale di cui al precetto costituzionale consentono di ritenere esistente nel nostro ordinamento un obbligo delle parti di rinegoziare i contratti divenuti svantaggiosi per una di esse, o un potere del giudice di modificare i regolamenti negoziali liberamente concordati dai paciscenti nell'esercizio della loro autonomia contrattuale, al di fuori delle specifiche ipotesi espressamente previste dalla legge. 

Allorché la Corte di cassazione richiama l'art. 1374 c.c. (secondo cui «il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi o l'equità»), o i principi di buona fede, correttezza e solidarietà sociale, ne esplicita il significato nel senso di imporre a ciascuna parte del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, ma precisa anche che ciò deve avvenire «nei limiti dell'interesse proprio» (Cass. civ., n. 23069/2018) ovvero «nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio di altri valori» (Cass. civ., n. 17642/2012) ovvero «nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio» (Cass. civ., n. 10182/2009; Cass. civ., n. 15669/2007; Cass. civ., n. 264/2006; Cass. civ., n. 2503/1991) ovvero sempre che «non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse» (Cass. civ., n. 5240/2004).  

Inoltre la stessa Corte di cassazione pur riconoscendo che l'art.1374 c.c. consente di ritenere i principi di buona fede e correttezza fonti di integrazione della regolamentazione contrattuale, ne circoscrive tuttavia la portata alle clausole contrattuali ambigue (Cass. civ., n. 6747/2014; Cass. civ., n. 8577/2002), ai testi contrattuali lacunosi (Cass. civ., n. 1884/1983) ovvero ai casi non disciplinati dalle parti al momento della stipula del contratto, da regolarsi ricercando quella che  sarebbe stata la  volontà delle predette qualora si fossero prospettate la situazione venutasi a creare (cfr. Trib. Roma, sez. VI, sentt. nn. 3109 e 3114 del 19 febbraio 2021, giudice Corrias).

Costituisce principio ricorrente che «la conservazione del contratto non può mai comportare un'interpretazione sostitutiva della volontà delle parti» (Cass. civ., n. 19493/2018) (sul punto vedi amplius, Trib. Roma, sez. VI, sent., 6 maggio 2021, n. 5730, giudice Nardone; Trib. Roma, sez. VI,  sent., 30 giugno 2021, n. 11336, giudice Febbraro).

In conclusione

Solo in alcune ipotesi specifiche il legislatore emergenziale ha previsto la possibilità/obbligo di rinegoziazione e proprio le misure COVID-19 evidenziano che il legislatore ha già adottato dei meccanismi compensatori idonei a ripristinare un equilibrio sinallagmatico, o a ridurne lo squilibrio, sicché non sembra fondata la possibilità di operare ulteriori interventi d'imperio ed extra legem (cfr. anche Trib. Roma, sez.VI, sent., 25 marzo 2021, n. 5224; 17 marzo 2021, n. 8005, giudice Nardone) esclusi anche dalle norme che hanno introdotto un «percorso condiviso per la ricontrattazione delle locazioni commerciali» (l. 69/2021 di conversione del d.l. 41/2021 (c.d. Decreto Rilancio) e l. 106/2021 di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 73/2021, recante misure urgenti connesse all'emergenza da COVID-19, per le imprese, il lavoro, i giovani, la salute e i servizi territoriali (G.U. Serie Generale n. 176 del 24 luglio 2021 - Suppl. Ordinario n. 25) - entrata in vigore in data  25 luglio 2021.

Riferimenti

Pesce E., Dinamiche processuali dell'eccessiva onerosità sopravvenuta, in  La Nuova giurisprudenza civile commentata, anno 2018, fasc. 5, 631; 

C.M. Bianca, L'eccessiva onerosità sopravvenuta, in Diritto Civile, La responsabilità, V, Giuffrè, 1997, 392. 

Briguglio A., Tre stili di esercizio della giurisdizione civile di fronte alla pandemia (con postilla sulla determinazione cautelare del canone di locazione), in Giustiziacivile.com, approfondimento del 17 febbraio 2021; 

Briguglio A., Novità sostanziali nel diritto emergenziale anti Covid. Contro il paternalismo giudiziario a spese dell'autonomia dei privati, in Giustiziacivile.com., editoriale del 7 ottobre 2020;  

Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1992, 964.  

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