Questioni sul termine fissato dalla contrattazione collettiva per l'intimazione del licenziamento
13 Dicembre 2021
Massima
In tema di licenziamento disciplinare, la disposizione di cui all'art. 41 del c.c.n.l. per il personale dipendente delle strutture associate all'AIOP, ARIS e FDG - secondo cui il provvedimento disciplinare non può essere "adottato dal datore di lavoro oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della deduzione da parte del lavoratore" - non pone alcuna decadenza per l'ipotesi di recesso comunicato all'interessato oltre il predetto termine, in quanto la disposizione in questione, interpretata sulla base del suo tenore letterale, attribuisce rilievo al momento in cui il provvedimento è deliberato dagli organi competenti e non a quello in cui viene portato a conoscenza del lavoratore. Il caso
Un lavoratore agisce in giudizio per la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli, poiché comunicato oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione delle deduzioni difensive - così come previsto dall'art. 41 del c.c.n.l. per il personale dipendente delle strutture associate all'AIOP, ARIS e FDG -, e per il conseguimento della tutela reintegratoria.
In primo grado la domanda viene accolta, mentre, in sede di reclamo, viene dichiarata l'inefficacia del licenziamento con condanna della società datrice alla corresponsione della sola indennità risarcitoria omnicomprensiva commisurata a sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; il giudice del gravame, accertata la sussistenza della condotta contestata e la proporzionalità della misura espulsiva adottata, esclude che la norma collettiva abbia inteso configurare il predetto termine come di natura decadenziale, non evincendosi, inoltre, una equiparazione di significato tra la locuzione “adozione”, contenuta nella norma in questione, e “comunicazione”, sicché, nella ritenuta ricorrenza di un mero difetto di tempestività del licenziamento, integrante un vizio di natura procedurale, applica la tutela indennitaria “debole” di cui all'art. 18, comma 6, st. lav.
Il lavoratore censura quindi la decisione nella parte in cui ha ritenuto preclusa la tutela reintegratoria, affermando la natura decadenziale del termine, da intendersi riferito alla comunicazione del licenziamento.
La Suprema Corte rigetta il ricorso, sulla base delle argomentazioni evincibili dalla massima sopra riportata. La questione
La articolata questione in esame è la seguente: qualora il contratto collettivo applicato al rapporto preveda che il licenziamento debba essere adottato entro un certo termine, occorre aver riguardo, per giudicare sulla tempestività del predetto licenziamento, alla semplice emissione dell'atto, pur ancora rientrante nella sfera giuridica del datore, oppure alla comunicazione dell'atto stesso al lavoratore? In ogni caso, quale è, ai fini della tutela applicabile, la natura del vizio del licenziamento irrogato oltre il termine? Le soluzioni giuridiche
La S.C. - premesso che, nel caso specifico, il licenziamento era stato dalla società datrice adottato, ossia deliberato dall'organo competente, entro il termine di trenta giorni decorrente dalla formulazione delle deduzioni da parte del lavoratore - ha ritenuto che, ai fini del giudizio circa la tempestività del predetto licenziamento, occorresse aver riguardo, sulla base di una interpretazione letterale della clausola contrattuale (ove è previsto: “Si conviene altresì che il provvedimento disciplinare non possa essere adottato dal datore di lavoro oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della deduzione da parte del lavoratore”), proprio al momento della adozione del provvedimento e non a quello della comunicazione.
Ed infatti, secondo la Corte, quando, nel medesimo contesto, le parti collettive hanno voluto attribuire rilievo al momento della comunicazione al lavoratore di un determinato atto, hanno utilizzato il verbo “inviare”, che compare, con riferimento alla contestazione disciplinare, nella stessa clausola contrattuale (ove si legge: “la contestazione disciplinare deve essere inviata al lavoratore non oltre il termine di 30 giorni dal momento in cui gli Organi direttivi sanitari e amministrativi delle Strutture … hanno avuto effettiva conoscenza della mancanza commessa”).
Ovviamente la questione non va confusa con quella, afferente al diverso profilo della effettiva portata del termine “comunicazione”, incentrata sulla rilevanza da accordarsi al momento di invio della lettera di licenziamento piuttosto che al momento di arrivo (su cui v., di recente, Cass. 13 settembre 2017, n. 21260, ove è statuito, tra l'altro, che il termine per la conclusione del procedimento è finalizzato a garantire la certezza delle situazioni giuridiche, conseguendone “che l'art. 227 del CCNL del 26 febbraio 2011 per i dipendenti delle aziende del commercio e del terziario va interpretato nel senso che è sufficiente che il datore abbia tempestivamente manifestato entro il termine ivi previsto la volontà di irrogare la sanzione, a nulla rilevando che quest'ultima sia portata a conoscenza del lavoratore successivamente alla scadenza del predetto termine”), riferendosi, invece, al caso in cui, appunto, la lettera di licenziamento non sia stata neppure inviata.
Peraltro, al descritto impianto argomentativo la Corte ne associa un altro, imperniato sulla valenza procedurale - e non sostanziale - di eventuali ritardi nella comunicazione del recesso. Osservazioni
Un primo aspetto da vagliare è quello concernente l'interpretazione della clausola negoziale, nell'ambito della quale, come visto, la Corte valorizza il dato letterale.
Tuttavia a tale impostazione potrebbe muoversi l'obiezione che la semplice deliberazione del licenziamento ad opera del competente organo societario non sembra poter assumere rilievo giuridico nell'ambito del procedimento disciplinare; la scansione procedimentale è infatti il derivato di atti del datore e del lavoratore aventi necessariamente rilevanza esterna.
Del resto, non è dato cogliere la “ratio” dell'incidenza di un atto meramente interno sulla tempistica prevista dalla contrattazione collettiva per l'irrogazione della sanzione disciplinare; la previsione di un termine assicura la certezza delle situazioni giuridiche, che si consegue solo allorquando entrambe le parti del rapporto siano edotte delle reciproche iniziative.
Pare difficile, peraltro, immaginare una mera “adozione” del licenziamento ad opera del datore individuale, la cui deliberazione non necessita di essere consacrata in un atto formale dotato di rilievo aggiuntivo rispetto alla mera volizione interna.
D'altra parte, una volta comunque ritenuto che la semplice adozione del licenziamento sia rispettosa, nel caso, della previsione contrattuale, il profilo della immediatezza andrebbe valutato sulla base dei tempi della irrogazione dell'atto, che presuppone l'emissione all'esterno dello stesso. Sicché, nel caso di specie, essendo stata la comunicazione del licenziamento effettuata a pochissimi giorni dalla formulazione della contestazione disciplinare, si sarebbe potuta in ipotesi affermare la legittimità, da un punto di vista procedurale, del licenziamento stesso (in quanto tempestivo), nel caso tuttavia non dichiarabile in quanto il profilo non pare sia stato fatto oggetto di impugnazione ad opera del datore.
L'aspetto più delicato riguarda tuttavia il tema della decadenza.
Come è noto, prima della riforma della materia dei licenziamenti si riteneva (cfr., tra le altre, Cass. 3 novembre 2008, n. 26390) che l'atto espulsivo intimato dopo lo spirare del termine perentorio inequivocabilmente stabilito dalla contrattazione collettiva fosse affetto da illegittimità sanzionabile, nelle grandi aziende, con la ordinaria tutela reintegratoria.
Nel nuovo panorama normativo, in cui ogni vizio ha, in base alla sua rilevanza, una sua pertinente disciplina ai fini della tutela applicabile, è dubbio che il tradizionale orientamento possa mantenersi inalterato.
Si tratta ora di ragionare, alternativamente, su due categorie, ossia quella della “carenza di potere” e quella del “vizio procedurale”.
Potrebbe ritenersi, valorizzando la prima, che il licenziamento intimato oltre il termine (perentorio, quindi di decadenza) contrattuale sia “tamquam non esset” e, pertanto, esso non possa dar rilievo ad alcun fatto giuridicamente rilevante, conseguendone la tutela reintegratoria “attenuata” (secondo l'orientamento formatosi in tema di “ne bis in idem”, su cui v., tra le più recenti, Cass. 30 ottobre 2018, n. 27657: “Ove il datore di lavoro contesti un fatto non sanzionabile, per essere già stato esercitato in relazione ad esso il potere punitivo mediante l'irrogazione di una sanzione conservativa, quel fatto deve ritenersi privo del carattere dell'antigiuridicità, per cui va riconosciuta al lavoratore la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, come riformulato dalla l. n. 92 del 2012”; in senso analogo v. Cass. 18 luglio 2018, n. 19089).
Ma potrebbe anche ipotizzarsi che, invece, il licenziamento, nella descritta ipotesi, sia viziato solo sul versante procedurale, conseguendone, mediante applicazione estensiva dell'art. 18, comma 6, st.lav. (che si riferisce, rinviando all'art. 7 st.lav., solo alla violazione procedurale concernente la contestazione disciplinare) la tutela indennitaria “debole”, ove il licenziamento sia, ovviamente, sostanzialmente legittimo.
In realtà, ogni ricostruzione sembra, in astratto, plausibilmente sostenibile.
Sennonché, la tutela reintegratoria potrebbe determinare uno sbilanciamento di sistema, in quanto essa sarebbe prevista per una violazione certamente meno rilevante (e meno pregiudizievole per il lavoratore) di quella che si avrebbe - nell'ipotesi in cui non sia stabilito alcun termine - in presenza di licenziamento “non tempestivo” in quanto intimato a lunga distanza dalla contestazione disciplinare; in tale ultimo caso, infatti, benché la S.C. non si sia ancora pronunciata al riguardo, è lecito ipotizzare che debba applicarsi la tutela indennitaria forte, in analogia a quanto si verifica nell'ipotesi di tardività della contestazione (ove ad esser violate sono – secondo Cass., SU, 27 dicembre 2017, n. 30985 - le disposizioni che prescrivono l'impiego della buona fede nell'esecuzione del contratto), venendo in rilievo gli stessi pregiudizi.
Potrebbe quindi ritenersi che la violazione, benché non attenga tecnicamente alla procedura di cui all'art. 7 st. lav. e non trovi quindi una correlazione con una violazione legale, determini, tuttavia, rispetto alla legge, un miglioramento della posizione del lavoratore ed un contestuale aggravamento della posizione del datore (giacché un licenziamento intimato, ad esempio, dopo trenta giorni dalla contestazione non sarebbe, in difetto di un termine, tardivo, e, pertanto, non presenterebbe alcun vizio), con la conseguenza che la tutela debba essere modulata sulla base dell'interesse che la previsione convenzionale ha inteso proteggere. E non pare dubbio che l'interesse in questione, qui, sia quello del lavoratore alla mera certezza di una situazione giuridica che lo riguarda, ossia lo stesso interesse che nel sistema è protetto con l'applicazione della tutela indennitaria “debole” in caso di sua lesione (ed infatti anche la tutela indennitaria “forte” potrebbe rilevarsi attualmente eccessiva a fronte di un licenziamento intimato, ad esempio, dopo due giorni dalla scadenza del termine stabilito dalla contrattazione collettiva per la sua irrogazione).
La problematica è oltremodo complessa ove si sia in presenza di clausole contrattuali le quali dispongano che, spirato il termine contrattuale, le giustificazioni del lavoratore si intendono accolte; potrebbe qui infatti ravvisarsi - sulla base della già vista categoria della “carenza di potere” - una sorta di archiviazione del procedimento disciplinare fondato sulla consumazione del potere stesso (a salvaguardia dell'affidamento del lavoratore nella “non applicazione” della sanzione a fronte di un fatto che il datore stesso ha ritenuto non possedere elevata valenza disciplinare), con la conseguenza che l'addebito non potrebbe più essere posto a supporto del licenziamento, il quale, non potendo dare rilievo ad un fatto disciplinarmente rilevante, sarebbe affetto da illegittimità cui si riconnette la tutela reintegratoria “attenuata”.
In tale prospettiva è stato ad esempio affermato che “la violazione del termine di cui all'art. 21, n. 2, comma 3, del c.c.n.l. gas e acqua del 2011, secondo cui, se il provvedimento disciplinare non viene emanato nei dieci giorni lavorativi successivi al quinto giorno dal ricevimento della contestazione, le giustificazioni si riterranno accolte, non integra una mera violazione di natura procedimentale ma comporta la totale mancanza della giusta causa per effetto dell'ammissione del datore di lavoro dell'insussistenza della condotta illecita sanzionata; ne deriva che, in tale ipotesi, la tutela applicabile è quella di cui all'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970 e non quella di cui al comma 6 della predetta norma” (così Cass. 3 settembre 2018, n. 21569).
Ma, in vicenda simile (ossia concernente clausola contrattuale di analogo tenore), è stato ritenuto che “La violazione del termine per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare, stabilito dalla contrattazione collettiva (nella specie, dall'art. 8, comma 4, del c.c.n.l. Metalmeccanici), è idonea a integrare una violazione della procedura di cui all'art. 7 st. lav., tale da rendere operativa la tutela prevista dall'art. 18, comma 6, dello stesso Statuto, come modificato dalla l. n. 92 del 2012” (così Cass. 16 agosto 2016, n. 17113).
Il tema, come è agevole notare, è controverso e forse meritevole di qualche aggiuntiva riflessione.
Basti rilevare che mentre una rinuncia al potere di licenziare è certamente ravvisabile nell'ipotesi in cui il datore, dopo la formulazione della contestazione, rimanga inerte per un consistente lasso di tempo, ciò non pare così scontato ove l'arco temporale intercorso tra contestazione e licenziamento sia invece di pochi giorni; qui la rinuncia è solo l'effetto di una “fictio” creata dalla contrattazione collettiva, che tuttavia può determinare conseguenze assai rilevanti sul piano della tutela applicabile, anche ove il datore licenzi, ad esempio, il lavoratore dopo un sol giorno dalla scadenza del termine, con pregiudizio davvero inesistente a carico del lavoratore medesimo (il cui affidamento nella “non irrogazione” del licenziamento non sembra plausibilmente suscettibile di concretizzarsi in maniera effettiva, sì da richiedere una particolare protezione).
In buona sostanza, l'ipotesi della tutela reintegratoria poteva dirsi coerente con l'impostazione del vecchio sistema, che, come sopra anticipato, correlava la predetta tutela, nelle grandi aziende, a qualsiasi vizio del licenziamento, anche di portata minima.
Mentre potrebbe essere forse più in sintonia con l'attuale panorama normativo ammettere che le clausole in questione possano essere interpretate nel senso che esse non determinano una consumazione del potere di licenziare in capo al datore, oppure, in alternativa, che vengano reputate illegittime ove non contenenti termini più congrui (ossia due o tre mesi) alla scadenza dei quali le giustificazioni del lavoratore possano ritenersi accolte.
Per riferimenti sul tema, v. L. Di Paola, L'illegittimità del licenziamento individuale per vizi formali e procedurali, ne “Il licenziamento” (L. Di Paola, a cura di), Giuffré, 2019, 318 ss. |