L'assenza della preventiva informativa sui controlli a distanza ex art. 4 St. lav. preclude l'utilizzabilità ai fini disciplinari della chat aziendale

Paolo Patrizio
20 Dicembre 2021

La "chat" aziendale, destinata alle comunicazioni di servizio dei dipendenti, è qualificabile come strumento di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 2, st. lav. novellato, essendo funzionale alla prestazione lavorativa, con la conseguenza che le informazioni tratte dalla "chat" stessa, a seguito dei controlli effettuati dal datore di lavoro...
Massima

La "chat" aziendale, destinata alle comunicazioni di servizio dei dipendenti, è qualificabile come strumento di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 2, st. lav. novellato, essendo funzionale alla prestazione lavorativa, con la conseguenza che le informazioni tratte dalla "chat" stessa, a seguito dei controlli effettuati dal datore di lavoro, sono inutilizzabili in mancanza di adeguata informazione preventiva ex art. 4, comma 3, st. lav.

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva annullato il licenziamento comminato a una lavoratrice - per avere quest'ultima inviato ad una collega, su una "chat" aziendale, messaggi offensivi nei confronti, tra l'altro, di un superiore gerarchico -, sul presupposto che il datore fosse venuto a conoscenza dei messaggi stessi in occasione di un controllo tecnico del quale non era stata data alcuna preventiva comunicazione alla lavoratrice medesima.

Il caso

La fattispecie posta al vaglio della Suprema Corte trae origine dal licenziamento per giusta causa comminato da una società nei confronti della propria dipendente, in conseguenza del rinvenimento, nel corso di un controllo del personale IT, di una conversazione ritenuta denigratoria, intrattenuta dalla predetta lavoratrice con altra collega su di una chat aziendale.

La datrice di lavoro, considerata la condotta de qua come pesantemente offensiva nei confronti di una superiore gerarchica e contraria al minimo etico ed al buon vivere civile, aveva pertanto provveduto all'utilizzo a fini disciplinari dei dati raccolti, provvedendo a risolvere il rapporto di lavoro con la dipendente per giusta causa, sul presupposto del legittimo esercizio del potere di controllo di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori e della gravità delle condotte addebitate dalla dipendente, idonee, come tali, a giustificare la comminazione della massima sanzione espulsiva.

Avverso tale provvedimento disciplinare aveva, quindi, proposto ricorso la lavoratrice, sostenendo l'illegittimità del licenziamento a causa: a) dell'eccepita inutilizzabilità del materiale raccolto in violazione dell'art. 4, comma 3, dello Statuto dei lavoratori (nel testo modificato dall'art. 23, comma 1, d.lgs. n. 151 del 2015 e dall'art. 5 d.lgs. n. 185 del 2016, applicabile ratione temporis) in quanto la società aveva omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata informazione ai dipendenti; b) della natura di corrispondenza privata delle conversazioni litigiose, in quanto svolte in via riservata tra le colleghe e con accesso consentito solo con password, da cui l'invocazione della tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dell'art. 15 della Costituzione; c) dell'esclusione, in ogni caso, di qualsivoglia intento denigratorio della conversazione, essendo il contenuto dei messaggio privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata.

All'esito del procedimento ex L. n. 92/2012, il Tribunale prima e la Corte d'Appello poi avevano confermato l'illegittimità del licenziamento della dipendente, aderendo all'impostazione difensiva della lavoratrice.

La questione, dunque, veniva posta, su ricorso della società datrice di lavoro, all'attenzione della Suprema Corte di Cassazione in sede di legittimità.

La questione

La decisione in esame riguarda il tema dell'inutilizzabilità, ai fini disciplinari, delle risultanze emerse a seguito di un controllo effettuato in violazione delle previsioni dell'art. 4 della L. 300/1970 e, nello specifico, dell'impossibilità datoriale di licenziare la dipendente per il contenuto di una conversazione ritenuta denigratoria e posta in essere all'interno di una chat aziendale, in mancanza della preventiva informativa al dipendente circa la possibilità della verifica del pc aziendale, ai sensi dell'articolo 4, c. 3 L. n. 300/1970.

La soluzione

La Suprema Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso datoriale, prende le mosse dal richiamo ai principali passaggi motivazionali caratterizzanti la pronuncia della Corte d'appello di Milano.

In particolare, il Collegio territoriale aveva osservato come l'accesso alla chat effettuato dalla società, seppur consentito ai sensi del regolamento aziendale in occasione di interventi di manutenzione, aggiornamento o per ricavare dati utili per la programmazione dei costi, fosse stato nondimeno effettuato in violazione dell'art. 4 della legge n. 300 del 1970.

La società datrice di lavoro, infatti, avrebbe inviato ai dipendenti la comunicazione della interruzione del servizio di chat solo a conclusione dei controlli già eseguiti, omettendo qualsivoglia preventiva e necessaria informativa, in palese violazione del disposto del citato art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, che invece al comma 3 prescrive la necessità di informare i dipendenti sulle modalità d'uso e di controllo degli strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, affinché i dati raccolti siano utilizzati a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, anche disciplinari.

In secondo luogo, ed in ogni caso, il Giudice del grado d'Appello aveva evidenziato come l'inutilizzabilità del materiale raccolto dalla datrice di lavoro derivasse altresì dalla natura propria delle conversazioni litigiose, costituenti una forma di corrispondenza privata svolta in via riservata mediante l'utilizzo di password d'accesso, con conseguente operatività della tutela promanante dall'art. 15 della Costituzione in merito alla libertà e segretezza delle comunicazioni private.

La Corte territoriale, infine, aveva escluso altresì un intento denigratorio, ritenendo che, anche nell'ipotesi di utilizzabilità delle informazioni raccolte, il contenuto dei messaggi costituisse uno sfogo della mittente, destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata.

La Suprema Corte di Cassazione, dunque, nel confermare la correttezza decisionale della pronuncia della Corte milanese, osserva, in particolare, con riferimento all'applicazione dell'art. 4, comma 3 L. 300/1970, come la chat aziendale oggetto di controlli fosse certamente da qualificare come strumento di lavoro ai sensi del comma 2 del citato articolo 4.

Ciò imponeva l'esigenza di preventiva informazione dei dipendenti in merito alla modalità di verifica dello stesso strumento, con conseguente inutilizzabilità dei dati raccolti in violazione di tale procedura, a nulla rilevando che il controllo effettuato dalla società non sia stato fatto al fine di verificare l'attività l'lavorativa della dipendente né che la condotta contestata non esulasse dalla prestazione lavorativa.

Per la Corte di Cassazione, dunque, il rigetto della critica relativa all'applicazione dell'art. 4 St. lav. da parte della sentenza impugnata esime il Giudice di legittimità dall'esame delle residue doglianze contenute nel motivo in esame, doglianze inerenti alla questione della dedotta inapplicabilità dell'art. 15 della Costituzione e della tutela della riservatezza della corrispondenza, nonché a quella questioni da ritenere assorbite, essendo la statuizione della sentenza impugnata relativa all'inutilizzabilità dei dati raccolti per violazione dell'art. 4 St. lav., idonea a sorreggere la decisione.

Osservazioni

La pronuncia in commento investe la tematica dei controlli a distanza del datore di lavoro e, in particolare, il profilo dell'utilizzabilità o meno, ai fini disciplinari, delle risultanze emerse a seguito di un controllo effettuato in violazione delle previsioni dell'art. 4 della L. 300/1970.

Come è noto, l'originaria versione dell'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori disponeva testualmente: "1. È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. 2. Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti. 3. Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondano alle caratteristiche di cui al comma 2, del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l'Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall'entrata in vigore della presente legge, dettando all'occorrenza le prescrizioni per l'adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti. 4. Contro i provvedimenti dell'Ispettorato del lavoro, di cui ai precedenti secondo e comma 3, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo articolo 19, possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale".

Tale disposizione, dunque, introduceva nell'ordinamento un sistema di bilanciamento degli interessi in gioco, garantendo sì l'esercizio del potere di vigilanza datoriale ma con la previsione di due livelli di protezione della sfera privata del lavoratore.

L'obiettivo dichiarato era, infatti, quello di preservare la dignità e la riservatezza del lavoratore, vietando, in sostanza, l'utilizzo di quelle forme di controllo assiduo e continuo possibile grazie all'avvento delle nuove tecnologie, che avrebbe finito con l'elidere ogni spazio di riservatezza, autonomia e libertà del dipendente in occasione dello svolgimento della propria prestazione lavorativa.

La norma disponeva, dunque, in prima battuta un divieto assoluto della possibilità di esercizio del c.d. controllo fine a sé stesso, ovvero quello esercitato dal datore attraverso l'utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di disamina a distanza dell'attività dei lavoratori, qualora tale controllo non risultasse giustificato e fondato su profonde ragioni inerenti all'attività di impresa.

In seconda battuta ed a corollario mitigante della perentorietà del divieto sancito dal primo comma, veniva immediatamente dopo introdotta la possibilità del controllo a distanza dei lavoratori per esigenze oggettive dell'impresa, ma con l'imprescindibile esigenza dell'osservanza di specifiche procedure di garanzia di conio legislativo.

Senonché, a tale bipartizione operativa promanante dal chiaro dettato normativo della prima formulazione dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, la giurisprudenza affiancò, sin da subito, la figura dei c.d. controlli difensivi, ricomprendendovi tutte quelle verifiche datoriali condotte per consentire la tutela patrimonio aziendale in ipotesi di comportamenti illeciti del personale e, come tali, sottratte ai tempi ed alle rigide modalità della negoziazione sindacale ovvero dell'autorizzazione ministeriale, in nome del rispetto delle esigenze di maggior speditezza di tutela dei beni del datore di lavoro.

Dunque, tali forme di controllo difensivo, esulando dall'ambito di applicazione dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, non richiederebbero l'osservanza delle procedure e delle garanzie previste dalla norma, se disposte dopo l'attuazione della condotta illecita da parte del personale e se dirette ad accertare comportamenti lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull'esecuzione della prestazione lavorativa.

Tuttavia, negli anni, la modernizzazione imperante delle tecniche di lavoro e l'avvento di sempre più nuove tecnologie ha progressivamente disvelato l'esigenza di intervenire nuovamente sulla veste e sulla portata normativa dell'art. 4 della L. 300/70 ed è così che, nel 2015, all'interno della complessiva riforma del mondo del lavoro contenuta nel c.d. Jobs Act, è stata esitata la revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro.

Il novellato testo dell'art. 4 L. 300/70 così dispone: "Art. 4 (Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo). - 1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo gli impianti e gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. 2. La disposizione di cui al comma 1, non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. 3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2, sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal Decreto Legislativo 30 giugno 2003 n. 196.

A distanza di un anno, il quadro è completato dalla parziale rettifica disposta con il Decreto Legislativo 24 settembre 2016, n. 185, che all'articolo 5, comma 2, ha evidenziato come “... Alla L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 4, comma 1, il terzo periodo è sostituito dai seguenti: In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle (recte: della) sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell'Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi".

La disciplina complessiva viene, dunque, ricomposta mediante la previsione di due ipotesi ben distinte, almeno nelle intenzioni del legislatore:

a) la prima, riguardante gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, la cui installazione resta vietata (così come nella previgente formulazione) salvo che l'installazione degli stessi venga consentita per accordo sindacale o, in mancanza, per autorizzazione amministrativa ed attenga, in ogni caso, a strumenti impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale;

b) la seconda, riguardante il vero “cuore” dell'intervento riformatorio, che sancisce la non applicazione dei limiti e delle procedure di garanzia di cui al primo comma per quegli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (ovvero tablet, cellulari, personal computer, ecc.) e per la registrazione degli accessi e delle presenze, i quali, pertanto, non esigono la verifica di precise ragioni giustificative per la loro adozione in azienda, né il preventivo accordo sindacale o l'autorizzazione ministeriale, tanto da instillare, in molti commentatori, il dubbio di una avvenuta e piena liberalizzazione del controllo a distanza mediante i dispositivi tecnologici a disposizione del lavoratore nell'esercizio della prestazione lavorativa.

Ma, a ben vedere, il corollario dell'intero sistema di controlli e tutele viene espresso nel terzo comma del nuovo art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, che prevede l'utilizzabilità delle informazioni raccolte ai sensi dei commi precedenti (e dunque sia attraverso l'uso di impianti autorizzati sia attraverso l'uso di strumenti aziendali per i quali non occorre l'autorizzazione) per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, ma a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

Ecco che, dunque, l'effettiva verifica della legittimità della vigilanza datoriale si completa nell'indagine finale, volta a determinare l'utilizzabilità o meno delle risultanze del controllo a distanza, sancendone il divieto per tutti i fini, ivi compreso quello disciplinare, ogni qual volta il lavoratore non sia stato adeguatamente informato delle modalità di utilizzo degli impianti o degli strumenti di lavoro e dei dati ivi contenuti.

È allora in tale cornice operativa che si colloca, a buon diritto, l'odierna pronuncia in commento, con la quale la Suprema Corte conferma l'indispensabilità del rispetto del chiaro dettato dell'art. 4, comma 3 dello Statuto dei lavoratori, evidenziando come l'assenza della preventiva informativa sui controlli a distanza precluda l'utilizzabilità, ai fini disciplinari, delle risultanze della chat aziendale, anche qualora fosse di contenuto denigratorio.

Tale strumento di lavoro, infatti, siccome rientrante nell'alveo del comma 2 del citato articolo 4, imponeva l'esigenza di preventiva informazione dei dipendenti in merito alla modalità di verifica, a nulla rilevando che il controllo effettuato dalla società non sia stato eseguito al fine di verificare l'attività lavorativa della dipendente né che la condotta contestata non esulasse dalla prestazione lavorativa.

La mancanza della necessaria informativa, dunque, comportando la relativa inutilizzabilità dei dati raccolti per violazione dell'art. 4 St. lav., risulta assorbente e dirimente, con conseguente esenzione dall'esame di qualsivoglia residua doglianza e pubblicazione della seguente massima La "chat" aziendale, destinata alle comunicazioni di servizio dei dipendenti, è qualificabile come strumento di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 2, St. lav. novellato, essendo funzionale alla prestazione lavorativa, con la conseguenza che le informazioni tratte dalla "chat" stessa, a seguito dei controlli effettuati dal datore di lavoro, sono inutilizzabili in mancanza di adeguata informazione preventiva ex art. 4, comma 3, St. lav.”.