Liquidazione del compenso dell'avvocato: competenza e connessione

Cesare Taraschi
31 Dicembre 2021

Il presente focus affronta le problematiche in materia di competenza e connessione che riguardano i procedimenti sulla liquidazione dei compensi degli avvocati.
Inquadramento

Analogamente a quanto già previsto dalla l. 794/1942, l'art. 14, comma 2, d.lgs. 150/2011, in materia di liquidazione del compenso di avvocato, contempla la competenza dell'ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l'avvocato ha prestato la propria opera.

E' pacifico che, ai sensi di tale disposizione, competente può essere, innanzitutto, il tribunale, nel qual caso la composizione è collegiale, analogamente a quanto statuito dalla giurisprudenza in relazione al procedimento camerale di cui agli artt. 28-30 l. 794/1942 (cfr. Cass. civ., sez. un., n. 12609/2012).

Peraltro, la competenza può spettare anche alla corte d'appello in unico grado, come si evince anche dall'art. 3, comma 3, d.lgs. 150/2011 (che contempla la competenza della corte d'appello in primo grado) e dall'art. 14, comma 4, d.lgs. 150/2011 (che prevede la non appellabilità dell'ordinanza che definisce il giudizio).

Del resto, sotto il vigore della previgente normativa di cui alla l. 794/1942, la Cassazione aveva avuto modo di affermare che «in tema di liquidazione del compenso per l'attività defensionale dell'avvocato, poiché l'art. 28 della l. 794/1942 prevede che lo speciale procedimento sia attivato ‘dopo la decisione della causa o l'estinzione della procura', è inammissibile la domanda di liquidazione relativa al giudizio di primo grado, allorché penda il giudizio d'appello e la procura non sia estinta, dovendosi intendere per ‘decisione della causa' il provvedimento conclusivo che definisce l'intero procedimento» (Cass. civ., n. 27137/2007).

Competenza del giudice di pace

Era dubbio in dottrina, all'indomani dell'entrata in vigore del d.lgs. 150/2011, se sussistesse una competenza funzionale anche del giudice di pace a trattare il giudizio ex art. 14, atteso che la norma sembra prevedere la composizione collegiale dell'organo giudicante. La tesi favorevole lo riteneva possibile sulla base della considerazione che tale previsione riguarderebbe il solo giudizio davanti al tribunale. In contrario si poteva però osservare che la competenza del giudice di pace avrebbe potuto risultare innovativa rispetto alla previgente disciplina, con il rischio di una violazione della legge delega che ha prescritto il rispetto dei criteri previgenti di competenza. Ed invero, prima della novella, non era contestabile che il giudizio ex artt. 28-30 l. 794/1942, avendo natura camerale, dovesse essere trattato e deciso dal tribunale ai sensi dell'art. 50-bis, ult. comma, c.p.c.

Inoltre, la prima soluzione comportava una deroga alla regola generale (art. 702-bis c.p.c.) secondo cui la disciplina del procedimento sommario ordinario può trovare applicazione solo nelle cause davanti al tribunale (Cass.civ., n. 23691/2011).

Tuttavia, la Cassazione, in una recente pronuncia, aveva già optato per la seconda tesi, in base al rilievo che l'art. 14 d.lgs. 150/2011 configura una vera e propria “competenza funzionale” dell'ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l'avvocato ha prestato la propria opera (Cass. civ., n. 548/2017).

Le Sezioni Unite, nel noto arresto n. 4485/18, hanno confermato la configurabilità della competenza del giudice di pace, ai sensi del comma 2 dell'art. 14 e del comma 2 dell'art. 637 c.p.c. (che fa riferimento all'ufficio giudiziario che ha deciso la causa alla quale il credito si riferisce), nonché quale giudice competente per valore ai sensi dei commi 1 e 3 del medesimo art. 637 c.p.c. (cfr., in ordine all'individuazione del giudice del luogo in cui ha sede il consiglio dell'ordine al cui albo l'avvocato è iscritto, Cass. civ., n. 17050/2010).

La soluzione risulta condivisibile, in quanto l'art. 14, comma 2, prevede la competenza collegiale del solo tribunale, statuendo, come criterio generale, la competenza dell'ufficio dinanzi al quale è stata espletata l'attività professionale, che dunque ben può essere il giudice di pace, pur dovendosi considerare che la competenza di quest'ultimo potrebbe risultare innovativa rispetto alla previgente disciplina, con il rischio di una violazione della legge delega, che, come si è detto, ha prescritto il rispetto dei criteri previgenti di competenza. Quale logica conseguenza di tale tesi, l'opposizione al decreto ingiuntivo emesso dal giudice di pace su richiesta dell'avvocato nei confronti del proprio cliente va ugualmente proposta avanti all'ufficio del giudice di pace, ma secondo il rito sommario di cognizione ex art. 14 d.lgs. 150/2011, trattandosi di una deroga, prevista da norma speciale, alla limitazione di cui all'art. 702-bis c.p.c. che, in relazione al rito sommario di cognizione ordinario, esclude l'applicabilità dello stesso nelle cause di competenza del giudice di pace. La competenza del giudice di pace in relazione al procedimento ex art. 14 in esame è stata poi ribadita da Cass. civ., sez. un., n. 4247/2020 (cfr. pag. 17 della relativa motivazione, in cui si afferma che «Tale competenza, infatti, si deve considerare pacificamente esistente - in analogia con quanto accadeva prima con il Pretore e il Conciliatore - anche in assenza della collegialità, potendosi desumere dalla…sentenza n. 65/2014 della Corte costituzionale - e, quindi, con un'interpretazione conforme alla Costituzione - che, nel caso del Giudice di pace, non è la "riserva di collegialità" lo strumento previsto per compensare la riduzione dei rimedi e delle garanzie propria del procedimento speciale de quo, perché in questo caso tale obiettivo viene perseguito attraverso la presumibile snellezza della procedura e la semplicità della controversia, caratteristiche che peraltro, per la Corte costituzionale, sono "identificative" del procedimento speciale»).

Esclusione della competenza della Corte di cassazione

Deve, invece, escludersi, in ragione del riferimento del citato art. 14, comma 2, all'«ufficio giudiziario di merito», la possibilità di utilizzare il procedimento speciale in esame dinanzi alla Corte di cassazione, visto che esso può richiedere l'espletamento di attività istruttoria (in tal senso, Cass. civ., sez. un., n. 4247/2020, pag. 18). E ciò nemmeno nel caso in cui gli onorari di cui si chiede il pagamento siano dovuti per il patrocinio dinanzi alla Corte stessa, con la conseguente necessità, a pena di inammissibilità, della proposizione del ricorso ex art. 14 d.lgs. 150/2011, per l'attività svolta dall'avvocato dinanzi alla Corte di cassazione: a) in caso di cassazione senza rinvio o di mancata riassunzione del giudizio di rinvio, dinanzi al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; b) nel caso di cassazione con rinvio seguita da riassunzione del giudizio, dinanzi al giudice di rinvio (in tal senso anche Cass. civ., n. 20930/2008).

Competenza per territorio e foro del consumatore

Dalla già citata pronuncia delle S.U. n. 4485/2018 si ricava, altresì, la conferma del principio secondo cui, nel rapporto tra avvocato e cliente, premesso che il primo riveste la qualità di professionista, qualora il cliente assuma la veste di consumatore (ossia qualora si tratti di persona fisica che abbia richiesto all'avvocato la sua prestazione professionale per una questione estranea alla propria attività imprenditoriale, professionale o commerciale eventualmente esercitata), trova applicazione il foro del consumatore (ossia quello speciale ed esclusivo della residenza o del domicilio di costui di cui all'art. 33, comma 2, lett. u, d.lgs. 206/2005), che prevale sia su quello di cui all'art. 637, comma 3, c.p.c., che su quello di cui all'art. 14, comma 2, d.lgs. 150/2011 (Cass. civ., n. 21647/2021, secondo cui, peraltro, il cliente convenuto dinanzi al foro del consumatore non può, rinunciando a tale foro, eccepire l'incompetenza del giudice adito; Cass. civ., n. 8598/2018; Cass. civ., n. 21187/2017; Cass. civ., n. 780/2016; Cass. civ., n. 5703/2014; Cass. civ., n. 2270/2012; Cass. civ., n. 12685/2011). Trattasi, peraltro, di foro inderogabile (Cass. civ., n. 31733/2021) ovvero, per meglio dire, derogabile pattiziamente purché la presunzione di vessatorietà della clausola relativa sia vinta dal professionista con la dimostrazione che essa è stata oggetto di specifica trattativa individuale (Cass. civ., n. 1951/2018; Cass. civ., n. 17083/2013; Cass. civ., n. 27911/2008; Cass. civ., n. 18743/2007; nonché Cass. civ., n. 19061/2016 per una fattispecie peculiare, in cui sia il consumatore, convenuto dinanzi al foro a lui riferibile, ad invocare la validità di una clausola derogatoria del foro del consumatore in quanto non vessatoria).

Ne consegue che la regola di competenza del comma 2 dell'art. 14 d.lgs. 150/2011 (ufficio dinanzi al quale sono state svolte le prestazioni professionali) può essere utilizzata dall'avvocato soltanto nei casi in cui il foro del consumatore coincida con tale foro speciale oppure nei confronti di cliente che non sia consumatore.

Al di fuori di queste ipotesi, il Giudice del foro davanti al quale l'avvocato ha prestato la propria opera, adito con il procedimento di cui all'art. 14 d.lgs. 150/2011, dovrà rilevare d'ufficio la propria incompetenza per territorio. È opportuno evidenziare come il potere del giudice di rilevare d'ufficio il difetto di competenza sotto tale profilo può essere esercitato, nel giudizio ordinario, entro la prima udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., secondo quanto prevede l'art. 38 c.p.c. (Cass. civ., n. 11128/2014) e, nel procedimento sommario, entro la fine della prima udienza di comparizione delle parti (così Trib. Verona 26 aprile 2013, in www.altalex.com).

Il foro individuato dall'art. 14 non prevale nemmeno su quello individuato dal diritto comunitario: pertanto, il cliente straniero (persona fisica, il quale agisca per un fine estraneo alla propria attività professionale)può essere convenuto in Italia, ai sensi dell'art. 16, par. 2, del Regolamento CE 44/2001, soltanto se sia domiciliato in tale Stato membro, a nulla rilevando la circostanza che si sia svolto in Italia il procedimento per cui le competenze sono dovute (Trib. Ancona 21 novembre 2014, in Foro it. 2015, 4, I, 1410).

In dottrina (Vaccari) si è rilevato che l'estensione del giudizio sommario speciale alle controversie in cui sia parte un consumatore produce due effetti che paiono confliggere drasticamente con la ratio della norma. Essa, infatti, consente che un soggetto, per definizione debole, si difenda da solo nei confronti di un professionista anche quando la controversia, investendo l'an della pretesa, perda quei caratteri di semplificazione che giustificano la trattazione con il rito sommario speciale. Inoltre, fa sì che la causa sia trattata con le peculiari forme di cui all'art. 14 d.lgs. 150/2011 davanti ad un ufficio giudiziario diverso da quello presso il quale l'avvocato ha prestato la propria attività e, quindi, in mancanza del presupposto specifico individuato dalla norma stessa.

In ogni caso, ferma restando, secondo la giurisprudenza, la prevalenza del foro del consumatore su ogni altro foro, le Sezioni Unite (sent. n. 4485/2018) assumono che il criterio di competenza di cui al comma 2 dell'art. 14 concorre con i criteri di cui all'art. 637 c.p.c., e ciò anche nel caso in cui l'avvocato non formuli domanda monitoria, ma azioni il proprio credito con ricorso ex art. 14, atteso che il criterio di competenza di cui al citato comma 2 dell'art. 14 risulterebbe derogabile (in tal senso anche Cass. civ., n. 31733/2021, secondo cui, quindi, è inammissibile il regolamento di competenza d'ufficio di cui all'art. 45 c.p.c., il quale è consentito soltanto per ragioni di competenza per materia o per territorio nei casi previsti dall'art. 28 c.p.c., ovvero quando la competenza per territorio è inderogabile, mentre in caso di questione di competenza per valore o territoriale derogabile il predetto regolamento è proponibile esclusivamente dalle parti).

Il principio affermato dalle Sezioni Unite in ordine alla concorrenza tra il criterio di competenza di cui all'art. 14, comma 2, e quelli di cui all'art. 637 c.p.c. nasce dall'esigenza pratica di evitare che, qualora l'avvocato che agisca in sede monitoria si avvalga della competenza di cui all'art. 637, comma 1 o comma 3, c.p.c., venga fuori una sorta di monstrum in cui il decreto ingiuntivo verrebbe emesso da un ufficio giudiziario (es., il giudice di pace competente per valore) e l'opposizione si svolgerebbe dinanzi ad un altro ufficio (tribunale dinanzi al quale l'avvocato ha espletato la propria attività professionale), visto che il comma 2 dell'art. 14 individua come competente l'ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l'avvocato ha prestato la propria opera (tale diversificazione non ci sarebbe ovviamente nel caso in cui l'avvocato ricorrente si avvalesse della competenza alternativa di cui all'art. 637, comma 2, c.p.c., sostanzialmente coincidente con quella dell'art. 14, comma 2). In tale ipotesi non sembra concepibile che, in deroga al meccanismo di opposizione al decreto ingiuntivo, l'opposizione debba essere proposta dinanzi ad un ufficio diverso da quello che ha emesso il decreto. Com'è noto, infatti, la competenza del giudice dell'opposizione non è distinta da quella del giudice del procedimento monitorio in senso stretto e costituisce una competenza funzionale ed inderogabile (Cass. civ., sez. un., n. 1835/1996; Cass. civ., sez. un., n. 10985/1992; Cass. civ., sez. un., n. 10984/1992).

Si è poi ritenuto che il criterio speciale di competenza stabilito dall'art. 637, comma 3, c.p.c. non è stato abrogato dall'art. 14 d.lgs. 150/2011, sicché l'avvocato può ancora adire il giudice del luogo in cui ha sede il consiglio dell'ordine nel cui albo egli è iscritto al momento della proposizione del ricorso, nel qual caso tale giudice è anche competente a decidere sull'opposizione, ai sensi dell'art. 645 c.p.c. (Cass. civ., n. 5810/2015).

Ai fini dell'individuazione del giudice competente per territorio rispetto ad un giudizio proposto nei confronti di un soggetto privo della predetta qualità di consumatore, sono sicuramente utilizzabili i criteri facoltativi ed alternativi di cui all'art. 20 c.p.c. che, in relazione al luogo di esecuzione dell'obbligazione, richiama implicitamente il disposto dell'art. 1182 c.c.

Orbene, la giurisprudenza ha sempre fornito un'interpretazione restrittiva del comma 3 di quest'ultima norma, avendo ripetutamente affermato che il criterio da esso menzionato può trovare piena applicazione soltanto nel caso in cui oggetto dell'obbligazione sia ab origine un credito liquido, ossia qualora l'obbligazione tragga origine da un titolo, negoziale o giudiziale, che stabilisca la misura del credito (Cass. civ., n. 7722/2019; Cass. civ., sez. un., n. 17989/2016; Cass. civ., sez. un., n. 5899/1997), ovvero qualora quest'ultimo, benché illiquido, risulti tuttavia di agevole liquidazione mediante semplici operazioni di calcolo, senza necessità di ulteriori accertamenti (ex plurimis, Cass. civ., n. 26790/2009).

Altrettanto consolidato è il principio secondo cui il compenso per prestazioni professionali, che non sia convenzionalmente stabilito, è un debito pecuniario illiquido, da determinare secondo la tariffa professionale, con la conseguenza che il luogo dove deve eseguirsi l'obbligazione va individuato, ai sensi dell'art. 1182, ult. comma, c.c., nel domicilio del debitore (cfr. Cass. civ., n. 30287/2017 e Cass. civ., n. 118/2017, proprio in relazione al compenso dell'avvocato; Cass. civ., n. 6096/2013; Cass. civ., n. 21000/2011).

Va, da ultimo, rammentato il principio recentemente espresso da Cass. civ., sez. un., n. 19427/21, secondo cui l'abrogazione del sistema delle tariffe professionali disposta dal d.l. 1/2012, conv. dalla l. 27/2012, non ha determinato l'abrogazione dell'art. 636 c.p.c., sicché l'avvocato che intenda agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali può continuare ad avvalersi - anche nel vigore della nuova disciplina - del procedimento per ingiunzione di cui agli artt. 633 e 636 c.p.c., ponendo a base del ricorso la parcella delle spese e prestazioni, sottoscritta e corredata del parere della competente associazione professionale, rilasciato sulla base dei parametri per i compensi professionali di cui alla l. 247/2012 e relativi decreti ministeriali attuativi.

Tale parere non è però necessario se l'avvocato agisce, anziché con ricorso monitorio, con ricorso ex art. 14 d.lgs. 150/2011 (cfr. Cass. civ., sez. un., n. 4247/2020, pagg. 14 e 15).

Attività difensiva in più gradi dello stesso giudizio

Nel caso in cui l'avvocato avesse prestato la propria attività difensiva in più gradi dello stesso giudizio (ad esempio, davanti al tribunale ed alla corte d'appello), era controverso se la domanda dovesse essere rivolta al giudice di merito del grado superiore che aveva definito il giudizio, ossia se quest'ultimo fosse competente anche per la liquidazione del grado precedente.

Nel sistema normativo previgente, secondo l'indirizzo prevalente della Cassazione, il carattere funzionale ed inderogabile della competenza ex art. 28 l. 794/1942, pur comportando la necessità di proporre la domanda al capo dell'ufficio giudiziario adito per il processo, non impediva al difensore che avesse svolto il patrocinio in più gradi di instaurare un unico giudizio per ottenere l'intero corrispettivo, nel qual caso il ricorso doveva essere indirizzato all'ufficio che per ultimo avesse trattato il processo, sull'assunto che solo quest'ultimo fosse in condizione di valutare l'opera svolta nella sua globalità e liquidare il compenso in misura adeguata (Cass. civ., n. 13586/1991; Cass. civ., n. 6033/1987; Cass. n. 4215/1983; Cass. civ., n. 3256/1953).

Per le prestazioni rese in primo ed in secondo grado, la competenza restava, quindi, radicata dinanzi al giudice d'appello (Cass. civ., n. 4704/1989).

Secondo la tesi minoritaria, invece, andava esclusa la possibilità di cumulare in un unico giudizio la richiesta del corrispettivo per l'attività svolta in più gradi, ritenendosi insuperabile l'ostacolo derivante dall'impossibilità di sottrarre le singole domande alla competenza inderogabile del capo dell'ufficio adito per il processo in mancanza di una disposizione espressa (Cass. civ., n. 21/1973 e Cass. civ., n. 6493/1997). L'unitarietà dell'incarico svolto poteva aver rilievo per la liquidazione degli onorari a carico della parte soccombente, ma non per quelli dovuti dal cliente al proprio difensore (Cass. civ., n. 6493/1997).

Attualmente l'art. 14 d.lgs. 150/2011, al comma 2, come già detto, prevede la competenza dell'ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l'avvocato ha prestato la propria opera.

Dal complesso delle argomentazioni contenute in Cass. civ., sez. un., n. 4485/2018 emerge - anzitutto - che la competenza del giudice adito per il processo è di natura derogabile, in quanto non diversamente qualificata dal legislatore, non potendosi considerare inderogabile neppure per ragioni di carattere funzionale (cfr. sentenza paragrafo 16, pag. 19), e, pertanto, subisce gli effetti della connessione.

Inoltre, con specifico riguardo alla proposizione - nello stesso processo - della domanda di compenso per attività svolte dinanzi a più uffici giudiziari (giudice di pace, tribunale e corte d'appello), le Sezioni unite hanno puntualizzato che il difensore può:

a) proporre le domande in cumulo con il rito monitorio ai sensi dell'art. 637, comma 1, c.p.c. e, dunque, davanti al tribunale competente in via ordinaria;

b) proporle separatamente davanti all'ufficio di espletamento delle prestazioni, ai sensi del secondo comma della suddetta norma;

c) proporle cumulativamente davanti al tribunale del luogo indicato dal terzo comma dell'art. 637 c.p.c., ferma, in tutti i casi, la prevalenza del foro del consumatore.

Pertanto, secondo Cass. civ., n. 16212/2019, sembrerebbe ammissibile proporre esclusivamente dinanzi al tribunale la domanda volta ad ottenere i compensi per l'attività svolta in più gradi, nonostante il disposto dell'art. 14, comma 2, d.lgs. 150/2011, “poiché il cumulo di domande può essere introdotto presso il Tribunale anche con il rito monitorio in presenza di un criterio di radicamento ai sensi del primo o del terzo comma dell''art. 637 c.p.c.”; il fatto che “il ricorrente non abbia utilizzato la forma monitoria e, dunque, uno dei due riti introduttivi possibili, non incide sulla possibilità che il detto tribunale possa essere competente, atteso che, se il legale rinuncia ad avvalersi del procedimento monitorio ed introduce la controversia ex art. 28 direttamente con il rito sommario, sebbene non davanti all'ufficio presso il quale le prestazioni sono state espletate, non si può ritenere che il giudice adito non sia competente, qualora la sua competenza fosse sussistita se fosse stato adito con il rito monitorio”(cfr. sentenza Cass. civ., sez. un., n. 4485/18 pag. 44).

Alla luce di tali considerazioni, Cass. civ., n. 16212/2019, ritenendo trattarsi di questione di massima di particolare importanza, ha rimesso gli atti al primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, perché queste fossero chiamate a pronunciarsi sui seguenti interrogativi:

a) se, nell'attuale quadro normativo, esclusa la possibilità di proporre la domanda in via ordinaria o ai sensi degli artt. 702-bis e ss. c.p.c., resti tuttora impregiudicata la possibilità di chiedere i compensi per attività svolte in più gradi in un unico processo dinanzi al giudice che abbia conosciuto per ultimo della controversia, dando continuità all'orientamento maggioritario formatosi nel vigore dell'art. 28 l. 794/1942, anche tenendo conto dell'affermata natura non inderogabile della competenza del giudice adito per il processo;

b) se, invece, i criteri di competenza per dette controversie vadano ricercati esclusivamente sulla base del coordinamento tra il comma 2 dell'art. 14 d.lgs. 150/2011 e l'art. 637 c.p.c., lasciando al ricorrente la sola alternativa di proporre più domande autonome (per i compensi relativi a ciascun grado di causa) dinanzi ai singoli giudici aditi per il processo o di cumularle dinanzi al tribunale competente ex art. 637 c.p.c. (con salvezza del cd. foro del consumatore), restando in ogni caso esclusa la competenza del giudice che abbia conosciuto per ultimo del processo.

La questione è stata risolta da Cass. civ., sez. un., 19 febbraio 2020, n. 4247, secondo cui, nel caso in cui un avvocato abbia scelto di agire ex art. 28 l. 794/1942, come modificato dall'art. 34 d.lgs. 150/2011, nei confronti del proprio cliente, proponendo l'azione prevista dall'art. 14 del medesimo d.lgs. 150/2011 e chiedendo la condanna del cliente al pagamento dei compensi per l'opera prestata in più gradi e/o fasi del giudizio, la competenza è dell'ufficio giudiziario di merito che ha deciso per ultimo la causa, posto che, peraltro, il giudice che decide la causa nel grado superiore ha una migliore visione d'insieme dell'opera prestata dall'avvocato.

In motivazione è stato precisato, inoltre, che, in base a tale principio, alla possibilità, nell'anzidetta ipotesi, di rivolgersi con un'unica domanda cumulativa al giudice del merito che abbia conosciuto per ultimo della controversia - originariamente configurata come ampiamente facoltativa - deve essere oggi attribuita una configurazione adeguata ai principi del giusto processo, la cui applicazione comporta che, per assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., in coerenza con l'art. 6 della CEDU, devono essere evitati i frazionamenti di tutela processuale per la medesima vicenda e comunque si deve dare una risposta, possibilmente celere, alla domanda di giustizia proposta, con una decisione di merito che sia esauriente. In questo quadro, nell'indicata fattispecie, la proposizione da parte dell'avvocato di distinte domande davanti a ciascuno degli uffici di espletamento delle prestazioni professionali, senza far luogo al cumulo, è da considerare meramente residuale ed è una strada percorribile soltanto se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata del credito.

Secondo alcuni autori, il principio affermato da Cass. civ., sez. un., n. 4247/2020 non sarebbe, però, estensibile alla diversa ipotesi in cui nello stesso giudizio venissero cumulate domande di liquidazione dei compensi per prestazioni giudiziali civili, non inerenti però alla medesima controversia, rese davanti a organi giurisdizionali di grado diverso. In tal caso, infatti, il giudice dovrebbe procedere a separare ciascuna domanda e a trattenere solo la domanda rispetto alla quale sia funzionalmente compente, dichiarandosi incompetente sulle altre.

Pluralità di domande assoggettate a riti diversi

Quid iuris nel caso di richiesta cumulativa di pagamento, con un'unica domanda o con domande riunite, per prestazioni professionali in parte rientranti nel rito speciale ex art. 14 d.lgs. 150/2011 (prestazioni giudiziali civili) ed in parte da questo esulanti (es., prestazioni giudiziali penali)?

Quale rito trova applicazione nel caso di specie, il rito sommario speciale di cui al predetto art. 14 o il rito ordinario di cognizione (ovvero quello sommario monocratico ordinario ex art. 702-bis c.p.c.)?

Ebbene, tale questione non risulta esaminata dalla più volte citata pronuncia delle Sezioni Unite n. 4485/2018.

Secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi in base alla disciplina previgente di cui agli artt. 28-30 l. 794/1942, il rito ordinario di cognizione prevale, per ragioni di connessione, su quello speciale, ed il procedimento va definito con sentenza, soggetta all'appello e non al ricorso straordinario per cassazione (Cass. civ., n. 19025/2016, n. 876/2012, n. 3772/1996, n. 1525/1977, n. 3671/1968, n. 2914/1967). E ciò anche nel caso di opposizione al decreto ingiuntivo, giudizio al quale sarebbe applicabile, in siffatta ipotesi, la disciplina del procedimento ordinario (Cass. civ., n. 1957/1994).

A siffatta soluzione la giurisprudenza è pervenuta nel caso di domanda congiunta di pagamento:

- per prestazioni giudiziali civili e penali (Cass. civ., n. 19025/2016, n. 2894/1984);

- per prestazioni giudiziali civili ed amministrative (Cass. civ., n. 876/2012);

- per prestazioni giudiziali civili e prestazioni stragiudiziali del tutto indipendenti dall'attività propriamente processuale, es. per competenze inerenti alla redazione di un contratto preliminare di compravendita (Cass. civ., n. 5700/2001; Cass. civ., n. 3709/1995; Cass. civ., n. 1957/1994).

Il medesimo orientamento è stato di recente espressamente confermato anche in relazione al procedimento sommario di cui all'art. 14 d.lgs. 150/2011 (Cass. n. 6817/2021).

Tuttavia, la tesi in esame suscita qualche perplessità, perché non appare conforme al disposto dell'art. 40 c.p.c., il cui terzo comma prevede che la prevalenza del rito ordinario sul rito speciale (salvo che quest'ultimo attenga a controversie di lavoro o previdenziali ex artt. 409 e 442 c.p.c.) operi solo nel caso di connessione tra cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, nei casi di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c., ossia di connessione cd. per subordinazione o forte (Cass. n. 18870/2014).

Nessuna di tali ipotesi ricorre, però, nel caso in cui l'avvocato agisca nei confronti del proprio cliente chiedendo il pagamento del compenso per prestazioni in parte rientranti ed in parte esulanti dal disposto dell'art. 14 d.lgs. 150/2011, vertendosi, in tal caso, in una fattispecie di connessione meramente soggettiva ex art. 104 c.p.c., che non giustificherebbe la deroga al rito speciale ex art. 14 e la possibilità del cumulo oggettivo di domande (cfr. Cass. civ., n. 4367/2003; Cass. n. 14386/2012). La soluzione alternativa sarebbe, quindi, quella della separazione delle domande.

Il problema si pone, in particolare, nella individuazione del rito applicabile al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo - ossia se lo stesso sia da introdurre con citazione (secondo il rito ordinario) o con ricorso ex artt. 702-bis c.p.c. e 14 d.lgs. 150/2011 (secondo il rito sommario speciale) - qualora con il ricorso monitorio l'avvocato abbia domandato la condanna del cliente al pagamento del compenso, ad es., per prestazioni giudiziali civili e penali. In siffatta ipotesi, l'introduzione dell'opposizione con il rito ordinario, e dunque con citazione, non arrecherebbe comunque alcun pregiudizio all'opponente, in quanto, se anche il giudice ritenesse di dover trattare l'intera causa con il rito sommario speciale ex art. 14 (discostandosi, però, dal citato orientamento della giurisprudenza di legittimità), non si andrebbe incontro ad una declaratoria di inammissibilità dell'opposizione, bensì ad una statuizione di mutamento del rito ex art. 4, comma 1, d.lgs. 150/2011, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda di opposizione, ai sensi del comma 5 del medesimo art. 4.

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