Somministrazione irregolare di manodopera: termini decadenziali e indici rilevatori

Enrico Zani
03 Gennaio 2022

Il dies a quo del termine decadenziale previsto e disciplinato dall'art. 32, comma 4, lett. d), L. n°183/2010 deve essere individuato nel momento finale del rapporto in essere con il datore di lavoro sostanziale, ossia nel momento in cui definitivamente cessa lo svolgimento della prestazione resa in favore di quest'ultimo, con conseguente estromissione del lavoratore dal contesto organizzativo cui pretende di imputare il rapporto.
Massime

Il dies a quo del termine decadenziale previsto e disciplinato dall'art. 32, comma 4, lett. d), L. n. 183/2010 deve essere individuato nel momento finale del rapporto in essere con il datore di lavoro sostanziale, ossia nel momento in cui definitivamente cessa lo svolgimento della prestazione resa in favore di quest'ultimo, con conseguente estromissione del lavoratore dal contesto organizzativo cui pretende di imputare il rapporto.

È onere del datore di lavoro, sia quello formale che sostanziale, dimostrare la sussistenza di una genuina intermediazione di manodopera (che consista in un contratto di appalto di servizi ovvero in un contratto di somministrazione). Presupposto imprescindibile affinché tale onere possa essere assolto è la dimostrazione della sussistenza tra tali soggetti di siffatti contratti, indispensabili al fine di acclarare a quale titolo e in base a quali previsioni negoziali un lavoratore, formalmente dipendente da un soggetto, abbia reso la propria opera all'interno del contesto organizzativo facente capo ad altro soggetto e nell'interesse di quest'ultimo, essendo, altresì, evidente che se non vi è prova di tali contratti e del loro oggetto neppure può esservi prova della riconducibilità delle attività concretamente espletate a previsioni contrattuali che legittimino la dissociazione tra formale datore di lavoro e sostanziale utilizzatore delle prestazioni lavorative.

Il caso

La sentenza in commento decideva sull'opposizione proposta ai sensi dell'art. 1, comma 51, L. 28 giugno 2012, n. 92 dal datore di lavoro dopo che il Tribunale, all'esito della fase sommaria del cd. rito Fornero, aveva accolto le domande di un lavoratore volte ad accertare la natura non genuina dell'appalto intercorso tra il proprio formale datore di lavoro e la stazione appaltante ed a dichiarare la sussistenza di rapporto lavorativo alle dipendenze del ridetto soggetto appaltante.

La questione

L'opposizione era affidata a numerose deduzioni, attinenti tanto al profilo processuale quanto al merito della vicenda.

Sul primo versante, riproponendo una difesa già svolta nella fase sommaria, si protestava la decadenza in cui sarebbe incappato il lavoratore, che aveva impugnato solamente l'ultimo di una lunga serie di contratti di appalto stipulati tra il datore di lavoro del ricorrente e la stazione appaltante. Per l'opponente, ciò avrebbe determinato il maturare della decadenza regolata dall'art. 32, comma 4, lett. d) della Legge 4 novembre 2010, n. 183, decorrente dalla cessazione di ciascun singolo appalto, con la conseguenza che l'accertamento giudiziale avrebbe dovuto essere limitato al solo lasso di tempo corrispondente alla vigenza dell'ultimo contratto d'appalto.

Ancora, l'opponente eccepiva, in subordine, la prescrizione decennale, protestando come alla vicenda non si potessero applicare – come invece aveva fatto il Giudice della fase sommaria – i principi interpretativi sanciti dalla Corte di Cassazione a proposito della ormai abrogata L. n. 1369 del 1960.

Quanto al profilo sostanziale della vicenda, l'opponente lamentava in primo luogo che non si fosse tenuto conto dei contenuti della clausola sociale contenuta nel contratto impugnato, i quali avevano condotto all'esclusione del lavoratore dal novero dei prestatori aventi diritto a passare alle dipendenze della società subentrata nella posizione di appaltatrice nei confronti della medesima stazione appaltante. Il ricorrente constatava altresì come non si fosse proceduto alla verifica della concreta possibilità del repechage del dipendente opposto.

Soprattutto, il ricorso in opposizione deduceva l'erronea valutazione delle risultanze istruttorie. Secondo l'opponente, infatti, le prove assunte avevano confermato la legittimità formale e sostanziale dei contratti di appalto succedutisi nel tempo con i quali la stazione appaltante aveva via via affidato a varie società la fornitura di servizi di facchinaggio e pulizie. Veniva posta in luce la caratterizzazione autenticamente imprenditoriale dei vari appaltatori, i quali, nel vigore dei contratti appena citati, avevano peraltro fatto ricorso all'aiuto di subfornitori, tra i quali quello alle cui dipendenze aveva lavorato l'opposto. Per l'opponente, dunque, ricorrevano nel caso di specie tutti gli elementi necessari perché i rapporti giuridici in contestazione potessero considerarsi leciti.

Si era costituito in giudizio altresì il lavoratore opposto, naturalmente sostenendo l'infondatezza in fatto ed in diritto dell'opposizione.

Le soluzioni giuridiche

L'opposizione viene rigettata dal Giudice del Lavoro, che conferma e condivide le osservazioni dell'ordinanza della fase sommaria.

La prima questione affrontata dalla sentenza in esame attiene alle eccezioni di decadenza e prescrizione, delle quali viene rilevata l'infondatezza.

Il ragionamento della decisione romana prende le mosse dall'esame del contenuto letterale della missiva del lavoratore, inviata dopo il recesso che lo aveva coinvolto sia al formale datore di lavoro sia alla stazione appaltante. In essa, il prestatore indicava nell'appaltante il proprio autentico ed effettivo datore di lavoro ed impugnava il licenziamento, notando come esso pervenisse da soggetto non titolato ad assumere detta decisione, chiedendo conseguentemente la revoca del recesso e l'inquadramento alle dipendenze della reale controparte datoriale. In particolare, nota il Tribunale, la lettera in questione era stata inoltrata cinquantacinque giorni dopo la ricezione della lettera di licenziamento.

Il Tribunale ritiene che alla fattispecie vada applicato il termine decadenziale di cui all'art. 32, comma 4, lett. d) della L. n. 183 del 2010 e che il dies a quo di decorrenza del medesimo vada individuato nel giorno della cessazione del rapporto con l'effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa. La previsione del cd. Collegato lavoro, infatti, è qualificabile come norma di chiusura, riferibile a tutte le fattispecie nelle quali il lavoratore, superando l'apparenza formale, intenda azionare il diritto all'imputazione del rapporto di lavoro in capo al datore sostanziale. Ben è vero che la ridetta disposizione non indica il giorno da cui inizia a decorrere il termine stesso, ma, per la decisione in commento, esso deve coincidere con il momento in cui cessa lo svolgimento della prestazione resa in favore del datore di lavoro “reale” e ciò a prescindere dalla ragione che abbia determinato la fine del rapporto lavorativo.

Per il Giudice del lavoro romano, la soluzione appena esposta garantirebbe le esigenze di certezza dei rapporti giuridici che già suggerirono al Legislatore del Collegato lavoro di estendere, con l'art. 32 sopra citato, il regime decadenziale dei licenziamenti; essa poi garantirebbe il lavoratore, permettendo a quest'ultimo di esercitare i propri diritti nel momento in cui viene meno il timore di subire eventuali ritorsioni datoriali e in cui – soprattutto – è per il medesimo più agevole percepire la situazione di fatto che lo coinvolge, spesso nella pratica caratterizzata dall'assenza di atti formali di costituzione e termine del rapporto lavorativo. Sarebbe così garantita la conformità al principio secondo cui la disposizione che fissa un termine di decadenza va interpretata, quanto al momento di inizio del termine, nel senso che il fatto generativo della decorrenza del termine deve essere conoscibile dalla parte onerata.

In proposito la pronunzia rileva altresì che la soluzione prospettata presenta anche il pregio di adattarsi alla peculiare natura dell'ipotesi di decadenza in questione, ove oggetto della decadenza è l'accertamento o la costituzione del rapporto di lavoro, ossia profili rispetto ai quali è indifferente “come” sia cessato il rapporto, evitando di pervenire ad interpretazioni di fatto abrogative della norma, come accadrebbe ove si volesse limitare l'applicazione della decadenza alle sole fattispecie interpositorie in cui la fine del rapporto sia stata formalizzata.

Il Tribunale chiosa sul punto ribadendo che le anzidette modalità di individuazione del dies a quo si pongono in conformità alle indicazioni fornite dall'art. 39, comma 1, del D.L.vo 15 giugno 2015, n. 81, e dall'art. 80 bis della L. 17 giugno 2020, n. 77. Viene infatti precisato che l'oggetto dell'impugnazione del lavoratore è la richiesta di costituzione del rapporto lavorativo alle dipendenze dell'effettivo utilizzatore delle prestazioni, non già il licenziamento che, proprio in quanto irrogato da un datore di lavoro fittizio, va considerato tanquam non esset.

La motivazione si concentra poi sull'eccezione di prescrizione, rilevando come anch'essa sia infondata. L'impugnativa effettuata tempestivamente, riconnessa ad un'azione costitutiva con effetti ex tunc, va infatti considerata idonea a impedire il maturare della prescrizione. La decorrenza del termine prescrizionale, in altre parole, è, nel caso concreto, destinata a principiare dalla data dell'atto impeditivo della decadenza; il Giudice altresì evidenzia che l'accertamento di elementi di fatto, quale l'inizio del rapporto di lavoro, non è soggetto ad alcun decorso di termine prescrizionale e quindi non è precluso ove non siano prescritti i diritti che da tale accertamento derivano.

La sentenza impiega poi alcune righe nel considerare come appaiano prive di pregio le doglianze espresse dall'opponente a proposito dell'asserita sussistenza di ragioni tecnico-organizzative tali da giustificare il licenziamento irrogato dal formale datore di lavoro. A tal proposito, viene rilevato che detti rilievi sono inconferenti, dovendosi ribadire che l'azione ex art. 29, comma 3 bis, del D.L.vo n. 276 del 2003 non attenga all'impugnativa di un licenziamento del quale piuttosto si postula l'inesistenza in quanto adottato da soggetto diverso dal “reale” datore di lavoro.

Il Giudice del lavoro scende quindi all'esame del merito della vicenda. Questa parte dell'apparato motivazionale esordisce con la considerazione per cui la dissociazione fra titolare e utilizzatore del rapporto lavorativo si configura come eccezione, regolata nel contesto di determinati istituti dei quali non è possibile un'applicazione estensiva, sì che perché si possa considerare conforme a diritto la dissociazione in parola dev'essere riconducibile alle fattispecie normativamente tipizzate.

Spetta dunque al datore di lavoro – formale o sostanziale – dar prova della genuinità dell'intermediazione di manodopera, un compito che può essere assolto in primo luogo dimostrando l'avvenuta conclusione tra le parti coinvolte dei negozi che, secondo la legge, consentono la dissociazione tra datore di lavoro formale e utilizzatore effettivo delle prestazioni di lavoro. Solo in una seconda fase, infatti, si porrà la questione della verifica, in concreto, della riconducibilità dell'attività lavorativa allo schema legale tipico.

Orbene, nel caso di specie il Tribunale di Roma constatava che il lavoratore opposto aveva lavorato per una serie di formali datori di lavoro che, salvo per il periodo appena precedente alla formalizzazione del licenziamento, non avevano stretto contratti di appalto con la stazione appaltante: soggetto quest'ultimo presso il quale il medesimo prestatore di lavoro aveva nondimeno sempre operato, svolgendo anche mansioni estranee rispetto ai capitolati prodotti in causa. Ancora, non erano stati prodotti contratti di appalto tra le appaltatrici, controparti della stazione appaltante, e le formali datrici di lavoro dell'opposto. Le testimonianze assunte, poi, confermavano la sottoposizione del lavoratore al potere direttivo dell'appaltante, che si estrinsecava in quotidiane e specifiche direttive sui compiti da eseguire.

Nota il Giudice del lavoro che le funzioni esercitate dalla stazione appaltante andavano a interessare i contenuti intrinseci delle prestazioni lavorative, così esondando dalle legittime istruzioni e direttive che il committente di un appalto può impartire per l'esecuzione della prestazione dedotta in appalto; emergeva, del resto, che presso la sede di lavoro non erano presenti i referenti dei soggetti appaltatori o sub-appaltatori.

Sulla base di tali rilievi, il Tribunale giunge a condividere le conclusioni raggiunte nel corso della fase sommaria, nel corso della quale era stata affermata la sussistenza di un appalto illecito, per avere i soggetti appaltatori messo a disposizione dell'appaltante mere prestazioni lavorative, non organizzate né finalizzate ad un risultato produttivo autonomo. La sentenza esaminata rigetta perciò l'opposizione, confermando la costituzione in capo alla committenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Osservazioni

La pronunzia del Tribunale di Roma decide su una fattispecie di dissociazione tra titolare e utilizzatore del rapporto di lavoro caratterizzata da due peculiarità. La prima è costituita dal passaggio del lavoratore coinvolto nella citata ipotesi di dissociazione da un (formale) datore di lavoro all'altro nel corso del tempo, senza che nel medesimo periodo fosse mai mutata la figura dell'utilizzatore della prestazione lavorativa. La seconda risiede nella mancanza di qualsiasi contratto giustificante l'intermediazione di manodopera intercorsa tra alcuni dei datori di lavoro ed il soggetto appaltante. Esse hanno permesso al Giudice del lavoro romano di soffermarsi su due interessanti aspetti di un argomento già ripetutamente affrontato da numerosissime sentenze: quello della genuinità dell'appalto cd. labour intensive.

Il primo punto attiene invero al profilo processuale della vicenda ed in specie all'individuazione del dies a quo di decorrenza del termine decadenziale che il lavoratore deve rispettare nel proporre azione per la costituzione o l'accertamento di un rapporto lavorativo in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto.

A seguito della L. n. 183 del 2010, il cd. Collegato Lavoro, il termine in questione è definito, quanto alla sua estensione temporale, mediante il rinvio all'art. 6 della L. n. 604 del 1966. Quest'ultima disposizione fissa in sessanta giorni il termine – fissato appunto a pena di decadenza – entro il quale il prestatore di lavoro deve impugnare il licenziamento irrogatogli; in base all'art. 32, comma 4, del Collegato lavoro, un termine di pari durata va osservato dal dipendente che intenda agire in giudizio per svolgere le domande sopra richiamate nei contesti di somministrazione irregolare e di appalto non genuino.

Nulla però dice la norma testé richiamata a proposito del giorno dal quale incomincia la decorrenza del termine in parola e ciò ha indotto la sentenza in commento ad approfondire la questione, che pure nel caso di specie si presentava semplificata in virtù della coincidenza tra il giorno in cui il formale datore di lavoro aveva intimato il licenziamento e quello in cui il lavoratore era stato estromesso dal contesto organizzativo dell'impresa che, nella pratica, utilizzava le prestazioni lavorative del predetto.

Per vero, il tema era già stato sfiorato dall'interpello del 25 marzo 2014, n. 12, del Ministero del Lavoro. Con tale atto, il Ministero replicava alla richiesta di chiarimenti avanzata da Assotrasporti proprio in proposito alla estensione ”del termine decadenziale di 60 giorni per l'impugnabilità del licenziamento e del termine di 180 giorni per il deposito del ricorso, ad ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto”.

La risposta del Ministero fu composita. Da una parte, venne richiamata la giurisprudenza affermatasi prima della promulgazione della L. n. 183 del 2010, secondo cui l'utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte dell'interponente fa sì che questi si sostituisca all'interposto nel rapporto, con la conseguenza che il licenziamento eventualmente irrogato da quest'ultimo rimarrebbe privo d'effetto, lasciando il lavoratore libero di agire in ogni tempo (salvi gli effetti della prescrizione) per l'accertamento del rapporto venutosi a creare con l'interponente. L'interpello ministeriale proseguiva poi affermando che il lavoratore, nel chiedere la costituzione o l'accertamento del rapporto di lavoro nei confronti dell'utilizzatore, è chiamato a provare (oltre all'illegittimità della fattispecie interpositoria verificatasi nel singolo caso) anche l'illegittimità del licenziamento. Questo portava il Ministero a distinguere tra i casi in cui il recesso è comunicato per iscritto e quelli in cui ciò non accade. Nel primo contesto, il termine di sessanta giorni decorre dalla ricezione, da parte del lavoratore, della comunicazione di licenziamento. Nel secondo contesto, l'inefficacia del recesso stesso conduce ad escludere l'applicabilità del termine in parola, in quanto postulante un licenziamento dato per iscritto, con il risultato che – per usare le esatte parole del Ministero – “essendo il licenziamento tamquam non esset, il lavoratore può agire per far dichiarare tale inefficacia, contestualmente all'azione per la costituzione o l'accertamento del rapporto di lavoro con il fruitore materiale delle prestazioni, senza l'onere della previa impugnativa stragiudiziale del licenziamento stesso, entro il termine prescrizionale di 5 anni”.

Come si è visto nel precedente paragrafo, il Tribunale di Roma è giunto all'affermazione di una soluzione diversa. Anche la sentenza in commento mostra di condividere l'assunto per cui il licenziamento operato dal datore di lavoro va considerato atto privo di effetti: ma proprio per questo – a differenza di quanto esposto dal Ministero – essa considera incongruo parametrare la decorrenza del termine decadenziale ad un provvedimento inefficace, anche tenuto conto del fatto per cui la decadenza in parola ha oggetto non il recesso ma l'accertamento o la costituzione di un rapporto di lavoro.

L'esegesi in commento trova conferme nella giurisprudenza di merito. A simili approdi interpretativi risulta essere pervenuta, ad esempio, la sentenza del Tribunale di Tivoli 19 maggio 2020, n. 237, per cui il giorno da cui far decorrere il termine di decadenza di cui trattasi va individuato nella data di cessazione del rapporto con l'effettivo utilizzatore della prestazione o con il soggetto che il lavoratore ritiene essere il proprio effettivo datore di lavoro. Tale conclusione rimarrebbe confermato dal disposto dell'art. 39, D.L.vo 15 giugno 2015, n. 81, una norma che seppur formalmente limitata alle ipotesi di somministrazione fraudolenta, andrebbe considerata come avente portata generale, riguardante ogni fattispecie in cui il prestatore domandi la costituzione di un rapporto con soggetto diverso dal datore di lavoro formale.

Ancora prima lo stesso percorso interpretativo era stato intrapreso dalla sentenza del Tribunale di Alessandria 28 settembre 2019, n°378, a mente della quale “la questione – dell'individuazione del dies a quo del termine decadenziale, aggiungiamo noi – può risolversi in via interpretativa fissando lo stesso al momento in cui cessa il rapporto di lavoro con l'interponente, o al momento in cui il lavoratore abbia avuto conoscenza della cessazione [...] Questo perché, se un termine per l'esercizio di un diritto deve decorrere dal momento in cui lo stesso può essere esercitato liberamente dal titolare, si può ritenere che con la cessazione del rapporto si verifichi tale condizione. Infatti, da un lato, da quel momento il lavoratore è libero di agire senza temere ritorsioni, dall'altro lato, si cristallizza una situazione che, fino a che invece il rapporto è in corso, è caratterizzata da incertezze legate all'assenza di atti formali di costituzione e recesso. D'altra parte, la bontà di questa scelta ermeneutica sembra confermata anche dal fatto che è stata fatta propria dal legislatore più recente con l'art. 39 del D.L.vo. 81/2015”.

Tuttavia il punto non può considerarsi ormai pacificamente definito. Si pensi ad esempio alla pronunzia della Suprema Corte 11 gennaio 2019, n. 523. Con tale decisione venne cassata la sentenza di merito che aveva ritenuto venuta ad esistenza la decadenza ex art. 32 sul presupposto del fatto di licenziamento, in realtà non provato dalla società reale utilizzatrice della prestazione (che anzi, nella memoria di costituzione in giudizio, aveva escluso che il lavoratore fosse stato licenziato) ed individuato quale dies a quo ai fini del computo in parola la data di cessazione del contratto di appalto nel quale il dipendente era coinvolto. Per la Corte di Cassazione, invece, gli elementi costitutivi della decadenza “devono essere individuati nel licenziamento quale atto negoziale recettizio avente forma scritta, essendo pacifico [...] che, ad esempio, un licenziamento intimato in forma verbale non sia idoneo a far decorrere il termine di decadenza di cui si discute e quindi non possa essere posto a fondamento dell'eccezione accolta nella sentenza impugnata”. I Giudici di legittimità, pertanto, ravvisavano l'errore in cui era incorso il Giudice del merito nell'avere “considerato fatto costitutivo dell'eccezione di decadenza il licenziamento desunto logicamente dalla cessazione di fatto del rapporto di lavoro, anziché il licenziamento quale atto scritto di recesso recapitato al destinatario”: un'interpretazione della fattispecie in esame che, a parere di chi scrive, si avvicina maggiormente a quella fatta proprio dal Ministero del Lavoro, più che a quella accolta dalla sentenza del Tribunale di Roma.

Occorre dunque constatare l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale, la cui insorgenza è con tutta probabilità da ricondurre alla formulazione quanto meno incompleta dell'art. 32, comma 4, del Collegato lavoro e che, nondimeno, dà ora luogo ad incertezze applicative che si auspica potranno essere superate con l'affermazione di una interpretazione dominante della norma appena citata. Personalmente, ci sentiamo di “parteggiare” per l'affermazione della soluzione fatta propria, da ultimo, della sentenza in commento. Essa infatti, come non ha mancato di rilevare il Tribunale di Roma, ha il pregio di definire il dies a quo di decorrenza del termine decadenziale in esame in modo facilmente individuabile dal lavoratore ed evita di dar luogo ad interpretazioni abrogative della norma nei contesti (certamente non infrequenti) nei quali manca un atto di recesso formalizzato; al tempo stesso, la soluzione così architettata ha il merito di garantire la certezza dei rapporti giuridici, evitando di esporre l'effettivo datore di lavoro al rischio di azioni giudiziarie per tutta la durata del termine di prescrizione dei diritti.

Come si anticipava, è poi degna di nota la parte della motivazione della pronunzia in commento dedicata alla verifica della genuinità degli appalti e subappalti dedotti in giudizio.

E' infatti interessante notare come il Tribunale sia giunto a ravvisare l'illegittimità del fenomeno interpositorio già sul piano formale del controllo, ossia constatando la mancanza di contratti di appalto che potessero giustificare la dissociazione tra formale datore di lavoro e pratico utilizzatore della prestazione per una larga parte (temporalmente intesa) della fattispecie concreta. La mancanza dello schermo formale che poteva essere appunto costituito dalla deduzione dell'esistenza di un contratto di appalto (od altro contratto legittimante l'interposizione di manodopera) ha correttamente portato il Giudice del lavoro romano – sulla scorta delle argomentazioni di cui alla sentenza della Corte di cassazione 19 novembre 2019, n. 29889 – ad avvertire la superfluità del passaggio al momento logico – giuridico successivo, quello della verifica, in concreto, della riconducibilità dell'attività lavorativa allo schema legale tipico

Per vero, un esame del merito della vicenda non è comunque mancato, sotto forma del passaggio in rassegna della bontà delle conclusioni già raggiunte in esito alla fase sommaria del procedimento. Si rileva come gli indici valorizzati al fine di individuare l'illiceità dell'appalto siano consistiti, soprattutto, nella pervasività delle istruzioni impartite dal soggetto utilizzatore e dalla mancanza di preposti del formale datore di lavoro sul luogo di produzione.

In questa parte, la decisione romana si muove su un tracciato decisamente più piano, potendosi dire ormai acquisiti, grazie all'opera di moltissimi arresti giurisprudenziali, i tratti della linea di demarcazione tra lecito appalto di servizi ed illecita interposizione di manodopera.

La Suprema Corte ha oramai ripetutamente chiarito che il confine in esame, specie quando si tratti – come nel caso di specie – di appalti ad alta intensità di manodopera (c.d. labour intensive) va individuato attraverso la verifica dell'organizzazione aziendale e delle modalità di esecuzione dell'attività lavorativa, guardando soprattutto all'esercizio del potere direttivo e di controllo nonché all'assunzione, da parte dell'appaltatore, di un rischio di impresa. Si veda, per esempio, la decisione di legittimità 20 ottobre 2020, n. 22796, per cui “il giudice del merito deve accertare se la società appaltante svolga un intervento direttamente dispositivo e di controllo sulle persone dipendenti dall'appaltatore del servizio, non essendo sufficiente a configurare la intermediazione vietata il mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto" (Cass. n. 12664 del 2003; cfr. anche Cass. n. 15557 del 2019); pertanto "sono leciti gli appalti di opere e servizi che, pur espletabili con mere prestazioni di manodopera, costituiscano un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore, senza diretti interventi dispositivi e di controllo dell'appaltante sulle persone dipendenti dall'altro soggetto" (Cass. n. 8643 del 2001)”.

Nel caso portato all'attenzione del Tribunale di Roma, le pratiche modalità di svolgimento della prestazione erano abbastanza esplicite nel rilevare la pesante e pervasiva ingerenza dell'utilizzatore. Quest'ultimo, indicando puntualmente mansioni da svolgere e luoghi di lavoro – anche oltre i termini contrattualmente pattuiti – appariva infatti avere soppiantato il formale datore di lavoro nell'esercizio dell'organizzazione e della direzione dell'attività lavorativa del dipendente. E' però utile ricordare come nella prassi ci si possa imbattere in contesti apparentemente più ambigui. Ed in effetti, la sopra citata sentenza di legittimità ha chiarito altresì che non ogni istruzione impartita dalla committenza, o comunque dal soggetto che beneficia della prestazione, può costituire una indebita ingerenza nella gestione del servizio, dal momento che “rientra tra i poteri del committente individuare le modalità con le quali l'opera o il servizio devono essere eseguiti nonché di controllarne l'esecuzione”.

Conclusivamente, pare che la sentenza in esame si collochi, per questa parte, all'interno di canoni esegetici ormai consolidati. E' indubbio che la categoria degli appalti labour intensive ponga qualche difficoltà all'interprete chiamato a distinguere tra ipotesi legittime e non di interposizione di manodopera, poiché in tali contesti non possono essere d'aiuto gli indicatori “storici” (in quanto elaborati nella vigenza della L. n. 1369 del 1960) costituiti dalla strutturazione dell'impresa del formale datore di lavoro. Nondimeno, è ormai generalmente affermato che l'assunzione del rischio d'impresa e l'organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, tipici indici della genuinità della fornitura di manodopera, possono sostanziarsi anche solo dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti del lavoratore senza che l'utilizzatore della prestazione, al di là del mero coordinamento, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo su detti lavoratori (in tal senso, nella giurisprudenza di merito, v. la sentenza della Corte d'Appello di Torino 30 gennaio 2020, n. 59). Con tutta evidenza, come anche ha ribadito la decisione romana in esame, tali indici non ricorrono qualora il lavoratore sia inserito nell'organizzazione del soggetto beneficiario della prestazione, con assoggettamento a direttive quotidiane impartite in maniera indifferenziata rispetto al personale di quest'ultimo, con la conseguente relegazione del formale datore di lavoro allo svolgimento di compiti meramente amministrativi di gestione del rapporto.

Guida all'approfondimento

Giurisprudenza

Cass., sez. lav., 20 ottobre 2020, n. 22796

Tribunale Tivoli, sez. lav., 19 maggio 2020, n. 237

Cass., sez. lav., 10 dicembre 2019, n. 32254

Cass., sez. lav., 25 novembre 2019, n. 30668

Cass., sez. lav., 19 novembre 2019, n. 29889

Cass., sez. lav., 11 gennaio 2019, n. 523

Cass., sez. lav., 25 maggio 2017, n. 13179

Dottrina

CICCONE, MADDALENA, Contratto di collaborazione autonoma e regime decadenziale ex art. 32, l. n. 183 del 2010, in Questa rivista, 30 marzo 2020;

DI MATTINA, CORRADO, I termini decadenziali nel caso di più contratti illegittimi succedutisi continuativamente, in questa Rivista, 9 marzo 2020;

FERRARO, FABRIZIO, Decadenza, accertamento o costituzione del rapporto di lavoro in capo a soggetto diverso dal titolare, in questa Rivista, 23 aprile 2019;

MENICUCCI, MARCO, Sull'applicabilità dell'art. 32 del collegato lavoro al caso di cambio di appalto, in Lav. Giur., 2017, pagg. 1078 e segg.;

VALENTINI, MARTINA, L'estensione del termine di decadenza ex art. 32 del Collegato Lavoro alle fattispecie di tipo interpositorio, in questa Rivista, 29 luglio 2019.

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