Novità sul fronte della liquidazione del danno da demansionamento?
10 Gennaio 2022
Massima
Ai fini della quantificazione ex art. 1226 c.c. del danno non patrimoniale da demansionamento non può tenersi conto del criterio basato sulla retribuzione percepita dal lavoratore, dovendosi assumere come parametro di riferimento l'importo previsto per il danno biologico da inabilità temporanea assoluta dall'art. 139, comma 1, D.lgs. n. 209/2005, scorporando quanto già eventualmente riconosciuto a titolo di risarcimento del danno biologico permanente. Il caso
Il Tribunale di Cosenza aveva rigettato le domande risarcitorie – per danni patrimoniali e non - proposte dal ricorrente nei confronti del datore per condotte mobbizzanti e demansionamento.
Il giudice di primo grado aveva escluso il mobbing, ritenendo non provato l'intento persecutorio.
La decisione veniva appellata dal lavoratore, lamentando in particolare che il Tribunale si era limitato ad escludere il mobbing, trascurando che le singole condotte tenute dal datore erano comunque fonte di responsabilità risarcitoria, oggetto di domanda subordinata. La questione giuridica
Quale parametro deve essere seguito nella liquidazione del danno non patrimoniale da demansionamento? La soluzione della Corte
La Corte di appello di Catanzaro ha condiviso la posizione del giudice di primo grado in punto di mancata prova dell'intento persecutorio.
È stata dichiarata fondata, invece, la censura afferente il rigetto della domanda subordinata di risarcimento del danno da demansionamento, non specificamente affrontata dal Tribunale.
Accertato la dequalificazione, la Corte di appello ha proceduto alla liquidazione del danno patrimoniale – con rigetto per il profilo afferente la perdita di chance lamentata- e biologico, essendo stata accertata, mediante CTU, una invalidità permanente pari al 9%.
La Corte ha poi riconosciuto, ai fini risarcitori, la compromissione dell'identità professionale dell'appellante, individuando come indici presuntivi: a) l'elevato livello di inquadramento formale del ricorrente; b) l'adibizione a compiti impiegatizi; c) la durata del demansionamento (quasi un quinquennio); d) il silenzio datoriale alle sue richieste di adeguamento delle mansioni; e) il concomitante sviluppo della patologia psichiatrica, acclarata dal consulente tecnico d'ufficio; f) l'età e l'anzianità lavorativa del ricorrente.
In fase di quantificazione, il collegio ha escluso che la valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. potesse essere operata in base al criterio consistente nel determinare il danno da demansionamento in una percentuale della retribuzione, determinante un'ingiustificata disparità di trattamento in ragione del compenso percepito ed una parametrazione del danno arbitraria. La Corte di appello ha quindi adottato come parametro di riferimento l'importo previsto per il danno biologico di inabilità temporanea assoluta ex art. 139, co.1, D.lgs. n. 209/2005, scorporando la componente già assorbita dal risarcimento del danno biologico permanente e tenendo conto della durata del periodo di demansionamento. Osservazioni
In tema di danno da demansionamento, già la Corte Costituzionale ha posto in evidenza la potenzialità plurioffensiva della violazione da parte del datore dell'obbligo di cui all'art. 2103 c.c., ciò potendo pregiudicare non solo quel complesso di capacità e di attitudini definito con il termine “professionalità”, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramento all'interno e/o all'esterno dell'azienda, ma anche valori ulteriori e costituzionalmente tutelati, quali la salute psico-fisica e la dignità della persona(sent. n. 113/2004). Posizione seguita successivamente anche dalle Sezioni Unite (sent. n. 6572/2006).
La giurisprudenza ha negli anni sciolto alcuni nodi in materia di demansionamento, escludendo, in particolare, la possibilità di affermare la sussistenza di un danno in re ipsa per il lavoratore, sul quale grava l'onere di fornire la prova, anche mediante presunzioni, del pregiudizio concretamente patito.
La decisione in commento, tuttavia, non pone in questione l'an del danno, bensì il quantum dello stesso, limitatamente al profilo non patrimoniale.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 26972/2008, con riferimento al danno professionale, hanno distinto il profilo patrimoniale, quale pregiudizio derivante dall'obsolescenza della capacità professionale acquisita o dalla perdita di ulteriori possibilità di guadagno o di carriera, da quello non patrimoniale, definito come “categoria ampia e onnicomprensiva”, includente non solo le sofferenze interiori e psico-fisiche, ma anche quelle relazionali.
Relativamente alla liquidazione, pochi problemi sorgono con riferimento al profilo patrimoniale, essendo esso incidente direttamente sulla capacità reddituale del lavoratore. (Cass. n. 19600/2017; Cass. n. 18405/2016). Incluso nel danno professionale “patrimoniale” è anche la c.d. perdita di chance, ossia il mancato guadagno che il lavoratore avrebbe potuto conseguire, non in termini meramente astratti, qualora avesse conservato le mansioni originarie, ovvero la perdita di ulteriori potenzialità occupazionali.
Sulla difficoltà di definire in termini quantitativi il danno professionale non patrimoniale si è invece sviluppata la discussione tra la dottrina e la giurisprudenza. Quest'ultima, stante la difficoltà di attribuire un valore oggettivo al “fare areddituale” del lavoratore, ha fatto riferimento all'art. 1226 c.c., il che ha avuto come esito quello di decisioni, in punto di quantificazione, tra loro non sempre coerenti.
Nella valutazione equitativa, infatti, i criteri sui quali essa viene basata sono rimessi alla prudente discrezionalità del giudice, dovendo comunque consentire un giudizio adeguato e proporzionato, considerate tutte le circostanze concrete del caso specifico (personalizzazione del danno: Cass. n. 27460/2017). Il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può dunque determinare l'entità del danno in via equitativa, con processo logico-giuridico, in base ad elementi di fatto quali ad esempio: la qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa; il tipo di professionalità colpita; la durata del demansionamento; l'esito finale della dequalificazione (Cass. n. 16595/2019; Cass. n. 1327/2015). A questi criteri fattuali, la giurisprudenza ha associato un parametro oggettivo-monetario, quale quello della retribuzione. Proprio su tale punto la sentenza in commento presenta elementi di novità.
La giurisprudenza di legittimità e di merito, infatti, è da tempo orientata nel riconoscere un ruolo centrale – potremmo dire quasi esclusivo – alla retribuzione percepita dal demansionato. La Corte di Cassazione ha ritenuto non illogico il ricorso, nell'ambito della valutazione equitativa, alla retribuzione per la quantificazione del danno da violazione dell'art. 2103 c.c., tenuto conto che elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il contenuto professionale delle mansioni, sicché essa costituisce, in linea di massima, espressione, per qualità e quantità, ai sensi dell'art. 36 Cost., anche del contenuto professionale della prestazione (Cass. n. 9228/2001).
Unico “correttivo” si riscontra nell'imprescindibile precisione in sede di motivazione della quale è gravato il giudice. Recentemente, ad esempio, la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio una sentenza ove il risarcimento del danno non patrimoniale era stato ridotto dal giudice di appello dal 50% al 30% della retribuzione, richiamando una prassi giurisprudenziale e senza ulteriori specificazioni (Cass. n.16595/2019).
Al lavoratore, dunque, secondo questa giurisprudenza, deve essere riconosciuta una percentuale della retribuzione -variabile in relazione alla gravità del caso- valutata tenendo conto degli elementi fattuali sopra riportati (es. durata del demansionamento), nonché di ulteriori circostanze eventualmente sussistenti nel caso concreto, quali ripercussioni sulla vita di relazione oltre che su quella lavorativa. Tale giudizio di valore deve essere congruamente motivato, facendo riferimento a tutti gli elementi di fatto riscontrati e dimostrati. Il giudice, nell'esercizio dei propri poteri, affinché la liquidazione non risulti arbitraria, dovrà indicare in sentenza le ragioni del processo logico sul quale essa è fondata (Cass. n. 15883/2014), con esclusione di ogni meccanismo semplificato di tipo automatico (Cass. n. 8581/2015; Cass. n. 13710/2012).
Il ricorso alla retribuzione non è scevro da critiche. Tale parametro e l'indicazione di una percentuale, secondo una parte della dottrina, sono di fatto casuali e portano oltre il limite del razionale il rinvio all'apprezzamento equitativo del giudice. Il risultato opinabile sarebbe quello, da un lato, di offrire un minor ristoro, sotto il profilo del danno professionale non patrimoniale, a chi è in possesso di professionalità "più deboli", ritenendo intrinsecamente più lesivo il demansionamento del lavoratore titolare di quelle “più forti” (es. dirigente) e, dall'altro, di svilire la funzione deterrente - nei confronti del datore - del risarcimento stesso, quantomeno con riferimento ai dipendenti inquadrati in livelli medio-bassi. Un pregiudizio di natura non economica, si chiosa, dovrebbe essere indipendente dal livello di retribuzione conseguito dal lavoratore.
La critica dottrinale viene condivisa dalla sentenza in commento. La Corte di appello ha orientato la propria decisione verso il parametro fornito dall'art. 139 cod. ass., ossia al danno biologico da inabilità temporanea assoluta. La stessa Corte, onde evitare duplicazioni di poste risarcitorie, ha proceduto allo scorporo di quanto già riconosciuto al lavoratore a titolo di danno biologico permanente (accertato mediante CTU) ma individuando in via equitativa la componente da scorporare (indicata in circa 1/3). Dunque, in mancanza di altri parametri oggettivi, viene in considerazione un metodo analogo a quello comunemente utilizzato per risarcire il danno biologico temporaneo, assimilandosi la compromissione delle attività realizzatrici della persona alla inabilità temporanea.
A prescindere dalla possibilità o meno di estendere ai casi di demansionamento la disciplina contenuta nel D.lgs. n. 209/2005, sembrano opportune due considerazioni.
In primis, il ricorso all'equitài ex art. 1226 c.c. presuppone la sussistenza di un danno non patrimoniale, la cui liquidazione per definizione non può essere dimostrata secondo canoni rigidi o comunque, in generale, l'accertamento di un danno che non possa essere provato nel suo preciso ammontare per l'impossibilità assoluta o relativa, ovvero per la rilevante difficoltà di prova. La ritenuta ammissibilità della valutazione equitativa nella quantificazione del danno da demansionamento non esclude – come evidenziato dalla giurisprudenza- che il giudice debba attenersi a dei parametri oggettivi che orientino la ponderazione secondo un adeguato processo logico-giuridico, in modo da evitare giudizi arbitrari (Cass. n. 2327/2018). L'onere di puntuale motivazione viene pertanto a costituire il momento finale di un esame complessivo della fattispecie, il quale consente di tenere in conto i diversi aspetti fattuali caratterizzanti la situazione del singolo lavoratore danneggiato. Le difficoltà di una effettiva personalizzazione del danno in fase di liquidazione possono apparire più evidenti laddove, comparando la situazione di due soggetti percipienti la medesima retribuzione, il giudice appiattisca la sua valutazione al dato oggettivo-economico, riconoscendo la medesima quota retributiva a titolo di risarcimento.
Tuttavia, e tale è la seconda considerazione che si vuole sottoporre, al di là del parametro scelto dal giudice al fine di ovviare al possibile stigma di arbitrarietà, è proprio l'iter logico-giuridico seguito – e del quale dovrà dare conto in sentenza – a costituire il principale strumento di garanzia della maggiore aderenza del quantum risarcitorio determinato al pregiudizio effettivamente sofferto dal lavoratore.
L'art. 1226 c.c. rimette essenzialmente alla sensibilità del giudice la quantificazione del danno. Il tipo di pregiudizio che le condotte censurate arrecano e i valori protetti dall'art. 2103 c.c. sono alla base stessa dell'attribuzione al giudice del suddetto potere, sicché l'esigenza di evitare giudizi arbitrari non potrebbe condurre all'applicazione automatica di un parametro oggettivo-monetario, pena lo snaturamento della natura equitativa della valutazione.
Non potrebbe escludersi a priori che da un demansionamento di pari durata, e a parità di inquadramento, possa derivare ad un lavoratore un pregiudizio superiore rispetto a quello patito da chi abbia subito un'analoga dequalificazione. Non si rinviene un criterio precostruito che possa cogliere una simile differenza se non la sensibilità del giudice, sebbene questo si trovi in una situazione di “solitudine pressoché totale” (A.Rondo, Incertezze in ordine ai criteri di rilevamento e di determinazione del danno da demansionamento, in Lav. giur., 2002, 1076), nella ricerca affannosa di metri affidabili per la quantificazione di un danno che non può essere misurato sulla base di criteri certi e incontrovertibili e che, proprio per questa ragione, rende necessaria l'applicazione dell'art. 1226 c.c.
Per approfondire G. Cavallini, La tutela del lavoratore demansionato, in Lav. nella Giur., 2019, 8-9, pp. 853 ss.; E. Gragnoli, Questioni in tema di dequalificazione, in Lav. nella Giur., 2016, 5, pp. 445 ss.; V. F. Giglio, Demansionamento: liquidazione equitativa del danno, in Il Giuslavorista, 3 dicembre 2015; F. Malzani, Il danno da demansionamento professionale e le Sezioni Unite, in Danno e Resp., 2006, 8-9, pp. 852 ss.; F. Malzani, Danno da demansionamento: "il punto" di alcune recenti pronunce della Cassazione, in Danno e Resp., 2007, 6, pp. 665 ss.; F. Bonaccorsi, I percorsi del danno non patrimoniale da demansionamento tra dottrina e giurisprudenza, in Resp. Civ. Prev., 2007, 4, pp. 839 ss.; L. Di Paola, La corte costituzionale e i danni da demansionamento, Nuove Leggi Civ. Comm., 2004, 4, pp. 831 ss.; L. Montuschi, Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 1994, 1, pp. 335 ss. |