Le misure sulle delocalizzazioni delle aziende nella legge di bilancio del 2022. Prime osservazioni

Roberto Cosio
13 Gennaio 2022

La disciplina contenuta nei commi da 224 a 238 della legge del 30 dicembre 2021, n. 234 si propone un progetto ambizioso: contrastare le delocalizzazioni delle aziende con misure che “garantiscano la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo”.Le disposizioni riguardano i datori di lavoro che, nell'anno precedente, abbiano occupato con contratto di lavoro subordinato...
La nuova disciplina

La disciplina contenuta nei commi da 224 a 238 della legge del 30 dicembre 2021, n. 234 si propone un progetto ambizioso: contrastare le delocalizzazioni delle aziende con misure che “garantiscano la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo”.

Le disposizioni riguardano i datori di lavoro che, nell'anno precedente, abbiano occupato con contratto di lavoro subordinato (inclusi gli apprendisti e i dirigenti) “mediamente almeno 250 dipendenti” e che intendano procedere alla chiusura di una sede (“stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale) con “cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50”.

Sono esclusi dal campo di applicazione della nuova disciplina i datori di lavoro che si trovino “in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l'insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa di cui al decreto legge 24 agosto 2021, n. 118, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 ottobre 2021, n. 147”.

La nuova disciplina prevede: una procedimentalizzazione del potere di delocalizzazione, presidiato da sanzioni tipizzate e con l'incentivo di benefici (di modesta entità).

Sul piano procedurale, i datori di lavoro dovranno:

a) Comunicare, per iscritto, l'intenzione di procedere alla chiusura ad una pluralità di soggetti (alle rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria nonché alle sedi territoriali delle associazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e, contestualmente, alle regioni interessate, al Ministero del lavoro e dello sviluppo economico e all'ANPAL) “almeno novanta giorni prima dell'avvio della procedura di cui all'articolo 4 della legge n. 223/91” con l'indicazione: a) delle ragioni economiche, finanziarie, tecniche e organizzative della chiusura; b) del numero e dei profili professionali del personale occupato; c) del termine entro cui è prevista la chiusura.

I licenziamenti individuali per GMO e i licenziamenti collettivi intimati in violazione di questa previsione (mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di novanta giorni) sono nulli.

b) Elaborare, entro 60 giorni dalla comunicazione, un piano (che non potrà avere una durata superiore ai 12 mesi) per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura (presentandolo agli stessi soggetti destinatari della comunicazione) contenente: a) le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali il ricorso ad ammortizzatori sociali, la ricollocazione presso altro datore di lavoro e le misure di incentivo all'esodo; b) le azioni finalizzate alla rioccupazione o all'autoimpiego, quali formazione e riqualificazione professionale anche ricorrendo ai fondi interprofessionali; c) le prospettive di cessione dell'azienda o di rami di azienda con finalità di continuazione dell'attività, anche mediante cessione di azienda, o di suoi rami, ai lavoratori o a cooperative da essi costituite; d) gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali a favore del territorio interessato; e) i tempi e le modalità di attuazione delle azioni previste.

c) Discutere il piano con le rappresentanze sindacali (e gli altri soggetti istituzionali di cui al comma 224) entro trenta giorni dalla sua presentazione. Prima della conclusione dell'esame del piano e della sua eventuale sottoscrizione il datore di lavoro non può avviare la procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge n. 223/91, né intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

La sottoscrizione dell'accordo sindacale produce una molteplicità di effetti.

Per il datore di lavoro è previsto:

a) L'impegno di realizzare le azioni contenute nel piano, nei tempi e con le modalità programmate;

b) L'obbligo di comunicare mensilmente ai soggetti di cui al comma 224 “lo stato di attuazione del piano, dando evidenza del rispetto dei tempi e delle modalità di attuazione nonché dei risultati delle azioni intraprese”.

Nel caso di violazione di tali obblighi è previsto:

a) Qualora il piano non contenga gli elementi di cui al comma 228 (o, addirittura, sia stato omesso), il pagamento, da parte del datore di lavoro, del contributo di licenziamento di cui all'art. 2, comma 35, della legge 23 giugno 2012 n. 92, in misura pari al doppio.

b) Il raddoppio delle sanzioni scatterà anche qualora il datore di lavoro sia inadempiente rispetto agli impegni assunti, ai tempi e alle modalità di attuazione del piano, di cui sia esclusivamente responsabile.

Sul piano dei benefici, è prevista:

a) L'applicazione dell'imposta di registro e le imposte ipotecaria e catastale nella misura fissa di 200 euro ciascuna in caso di cessione dell'azienda o di un ramo di essa con continuazione dell'attività e mantenimento degli assetti occupazionali, al trasferimento di beni immobili strumentali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni;

b) Il pagamento delle imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria in caso di cessazione dell'attività o di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici del comma 237 prima del decorso del termine di cinque anni dall'acquisto.

Per i lavoratori interessati dal piano è prevista:

a) La possibilità di beneficiare del trattamento straordinario di integrazione salariale di cui all'art. 22-ter del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148 nella misura prevista dal comma 229;

b) L'accesso al programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori (GOL) di cui all'art. 1, comma 324, della legge 30 dicembre 2020, n. 178.

Non è possibile esaminare, in questa sede, le molteplici questioni interpretative che la complessa disciplina solleva.

Lo scopo di questo scritto è molto più circoscritto.

Dopo avere richiamato, in modo sintetico, i provvedimenti legislativi che, in passato, hanno inteso disciplinare la materia (nel secondo paragrafo) si esamina (nel terzo paragrafo) una possibile questione di legittimità costituzionale.

Le misure precedenti

Le cause delle delocalizzazioni sono note.

Alcune imprese, che spesso hanno beneficiato di incentivi statali collegati all'apertura di nuovi siti sul territorio nazionale, trasferiscono la produzione di intere filiere e produzioni di beni o servizi in siti locati in altri Paesi, usufruendo di trattamenti fiscali agevolati, salari più bassi e legislazioni piu permissive.

Il fenomeno riguarda spesso le delocalizzazioni nell'Europa orientale (l'80 per cento delle imprese italiane che hanno intrapreso la via delle delocalizzazioni ha scelto Paesi come la Repubblica Ceca, Slovenia, Bulgaria, Polonia, Romania e Ungheria) ma, per effetto della globalizzazione, estende i suoi effetti anche in mercati esteri (ad es. la Cina).

La normativa di contrasto alla delocalizzazione è frammentata ed ispirata a finalità eterogenee.

Sul piano europeo si ricordano i vincoli per la concessione di aiuti di Stato a finalità regionale che implicano una delocalizzazione da altri paesi dello spazio economico europeo di cui al reg. n. 651/2014 (sottoposte all'obbligo di notifica individuale alla Commissione e a controlli rigorosi) e la normativa che riguarda i programmi co-finanziati dai Fondi SIE, ovvero i fondi strutturali e di investimento europeo disciplinati dal regolamento n. 1060/2021 (sul tema si veda R. TONELLI, Delocalizzazione di imprese beneficiarie di aiuti di Stato: problemi e prospettive evolutive di una disciplina inefficace, in Lavoro Diritti Europa, n. 4/20121).

Sul piano nazionale, il fenomeno delle delocalizzazioni è stato regolato dalla legge di stabilità del 2014 (L. n. 147 del 2013 che nei commi 60 e 61 dell'art. 1, prevedeva alcune norme sulla decadenza dei benefici ricevuti dalle imprese che delocalizzano la propria produzione) e dal decreto Dignità (artt. 5 e 6) che prevedeva due limiti alla delocalizzazione: il primo si applicava in relazione agli aiuti di Stato diretti a sostenere “investimenti produttivi” e riguardava le sole delocalizzazioni verso Stati extra-Ue o non aderenti allo spazio economico europeo (SEE); il secondo si applicava in relazione agli aiuti di Stato diretti a sostenere “investimenti produttivi specificamente localizzati” e riguardava ogni trasferimento al di fuori del sito produttivo incentivato (sul tema V. BRINO, Delocalizzazioni e misure di contrasto, in Decreto dignità e Corte costituzionale n. 194 del 2018, a cura di L. FIORILLO - A PERULLI, Torino, 2019, 115. Sulla delocalizzazione a livello regionale si rinvia a R. TONELLI, Incentivi alle imprese e misure di contrasto alla delocalizzazione produttiva, SI, n. 11/2019, 1303).

Lo scarso impatto positivo di queste misure per contrastare il fenomeno della delocalizzazione ha sollecitato la presentazione di alcuni disegni di legge quali, ad esempio, il S. 2021 “recante misure per il contrasto alle delocalizzazioni e la salvaguardia dei livelli occupazionali” e il DDL 2206/2021 recante disposizioni “per sostenere i livelli occupazionali e produttivi e per contrastare la pratica delle delocalizzazione delle attività produttive” (entrambi commentati da A. PERULLI, Giustizia e ingiustizia della globalizzazione, in Lavoro Diritti Europa, n. 4/20121. Si veda anche V. BRINO, Dentro e oltre le delocalizzazioni: prove di responsabilizzazione delle imprese nello scenario globale? in Lavoro Diritti Europa, n. 4/20121. Sul piano comparato si veda la Loi Florange commentata da P LOKIEC, La Loi Florange o il licenziamento come extrema ratio, in Lavoro Diritti Europa, n. 4/20121).

I recenti annunci di licenziamenti collettivi con cessazioni di attività (i casi Giannotti Ruote di Ceriano Laghetto in Brianza, della GKN di Firenze, della Timken di Brescia e il caso dello stabilimento della Whirlpool di Napoli; sul tema si veda F. DURANTE, Le delocalizzazioni, in Lavoro Diritti Europa, n. 4/20121) hanno accelerato la riforma della normativa sulle delocalizzazioni.

Il provvedimento di fine anno (inserito nella legge di bilancio) è ispirato, come già detto, ad una tecnica di procedimentalizzazione del potere di delocalizzazione che, in concreto, appare di dubbia efficacia per contrastare il fenomeno.

Le misure di protezionismo sono, peraltro, armi a doppio taglio “perché inducono, prima o poi, analoghe ritorsioni da parte degli altri Paesi operanti all'interno dello stesso mercato” (G. CAZZOLA, Politically (in) correct – Guerra alle delocalizzazioni? Va vanti tu che a me viene da ridere, Bollettino Adapt 20 dicembre 2021, n. 45).

In questo contesto, non era, forse, più efficace un'ottica premiale, come quella prevista nel DDL 2335 del 2021, per le aziende che rimangono sul nostro territorio?ù

Resta il fatto che il legislatore ha scelto un'ottica diversa che solleva delicate questione di legittimità costituzionale.

In sede di prima lettura, si evidenzia quella che appare più evidente.

Il possibile contrasto con la Carta costituzionale

Per effetto della nuova disciplina prevista per il contrasto delle delocalizzazioni il blocco dei licenziamenti, per le imprese medio-grandi, è stato prorogato, di diritto o di fatto, fino al 31 marzo del 2022.

È vero che la nuova disciplina (che ha carattere strutturale) non è, direttamente, connessa con il blocco dei licenziamenti.

Ma la connessione con il blocco dei licenziamenti deriva da agevoli considerazioni di carattere sistematico.

In primo luogo, il blocco dei licenziamenti è stato prorogato fino al 31 dicembre 2021 per i datori di lavoro privati che, a partire dal 1 luglio 2021, hanno avuto accesso alla Cassa integrazione salariale ordinaria o straordinaria secondo quanto previsto dal Decreto Sostegni-bis e per i datori di lavoro individuati dall'art. 40bis del d.l. 30 giugno 2021, n. 99 (cfr. R. COSIO, Il blocco dei licenziamenti. Dai decreti “sostegni” al decreto lavoro, in Lavoro Diritti Europa, n. 3/2021).

In secondo luogo, il blocco dei licenziamenti si è esteso, di fatto, fino al 31 dicembre 2021 anche per i datori di lavoro che potevano accedere alla Cigo, alla Cigs o alla Cigs in deroga, anche se, in concreto, non lo hanno fatto perché “se si escludessero dall'ambito soggettivo del divieto i datori di lavoro che, pur potendo accedere agli ammortizzatori, non vi hanno fatto ricorso, si farebbe dipendere l'ambito del divieto da una decisione unilaterale dell'azienda, disancorandola da elementi obiettivi” (Tribunale di Venezia del 17 maggio 2021. Sul tema si veda M. DE LUCA, Condizionalità ed ipotesi di esclusione (dalla seconda proroga) del blocco dei licenziamenti al tempo del Covid-19: molto rumore per (quasi) nulla (note minime), WP CSDLE “massimo D'Antona” n. 434/2021).

L'opinione, ancorchè non vincolante, ha condizionato l'operato della gran parte delle aziende che hanno deciso di posticipare i licenziamenti al 2022.

Per effetto della normativa contenuta nella legge di bilancio le procedure di licenziamento collettivo non potranno iniziare prima dell'aprile di quest'anno.

Il blocco ha superato i due anni di vita e pone, già sotto questo primo aspetto, un serio problema di legittimità costituzionale.

Il blocco dei licenziamenti deve conoscere una “fine” per non degenerare in una lesione della libertà d'impresa.

Un blocco dei licenziamenti, fino al 31 marzo 2022 (ancorchè limitato alle medie e grandi imprese), sembra collidere con il principio di proporzionalità combinato con il criterio di ragionevolezza che deve ispirare le scelte del Legislatore e le valutazioni dell'interprete.

In questo contesto, occorre bilanciare i diversi interessi in gioco tenendo conto degli indicatori economici e delle raccomandazioni che provengono dagli organi dell'Unione europea.

Sotto il primo profilo (gli indicatori economici), occorre tenere presente che nel terzo e quarto trimestre del 2021 si è verificato “un forte rimbalzo” del Pil pari a oltre il 6% che và consolidandosi grazie all'impatto che viene dagli investimenti finanziati dal piano europeo Next Generation Eu.

Sotto il secondo profilo, occorre ricordare la Raccomandazione all'Italia della Commissione europea la quale, con grande chiarezza, aveva precisato che “più a lungo è in vigore” il blocco dei licenziamenti “e più rischia di essere controproducente, perché ostacola il necessario adeguamento della forza lavoro alle esigenze aziendali”.

In questo contesto, la normativa della legge di bilancio solleva non poche perplessità sotto il profilo costituzionale anche per la possibile violazione del principio di affidamento, che rappresenta un principio costituzionale generale non scritto della nostra Carta costituzionale (sul tema si veda F. MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni trenta all'alternanza, Milano, 2001).

E' facile prevedere che non mancheranno le richieste di rinvio pregiudiziale alla Consulta per lamentare la possibile lesione della libertà di stabilimento e, più in generale, della libertà d'impresa.

V. anche il Focus di Roberto Cosio e Roberta Cosio: Disciplina delle delocalizzazioni: il problema delle restituzioni delle sovvenzioni.