L’impossibilità definitiva e assoluta alla prestazione, titolo per la pensione di inabilità, realizza un’ipotesi di risoluzione automatica del rapporto
17 Gennaio 2022
Massime
In caso di sopravvenuta inidoneità totale del lavoratore subordinato alla prestazione lavorativa, si configura un caso di impossibilità assoluta per il venir meno della causa del contratto, non riconducibile ai casi di sospensione legale previsti dagli artt. 2110 e 2111 c.c., con la conseguenza che, al verificarsi di tale impossibilità assoluta e diversamente da quanto avviene per il caso di impossibilità relativa – si determina la risoluzione del rapporto, senza necessità che la parte interessata manifesti mediante il negozio di recesso l'assenza di un suo interesse al mantenimento del vincolo giuridico, dovendosi anche escludere, ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c., che l'autonomia privata possa mantenere ugualmente in vita il rapporto contrattuale.
Nel caso di specie la Cassazione osserva che la cessazione del rapporto di lavoro rientra tra le ipotesi di risoluzione automatica del medesimo, ossia di una risoluzione che è, di fatto, una presa d'atto dell'intervenuta inidoneità permanente allo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, vincolata per l'Amministrazione, senza la necessità di un'esplicita manifestazione di volontà delle parti contraenti cui solo è collegato il preavviso e, di conseguenza, l'indennità sostitutiva (S. Apa). Il caso: inquadramento generale
Il dipendente di un'Agenzia fiscale, a seguito di richiesta di assegnazione della pensione di inabilità, viene sottoposto a visita medica con la quale è riconosciuta la condizione legittimante, rappresentata dalla “assoluta e permanente impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa per infermità” (art. 2, c. 12, L. 335/1995).
A seguito di ciò, il datore di lavoro dispone la cessazione dal relativo rapporto di lavoro, senza corresponsione dell'indennità sostitutiva del preavviso. Ritenendo ciò in contrasto con quanto previso, nello specifico, dall'art. 49 (rubricato “assenza per malattia”) Ccnl comparto Agenzie fiscali, il lavoratore si rivolge al Tribunale di Brindisi il quale, accogliendone le doglianze, emana in suo favore decreto ingiuntivo per somma pari a 7,5 mila euro, a titolo di indennità sostitutiva.
L'Agenzia datrice di lavoro impugna il decreto ingiuntivo davanti alla Corte d'appello di Lecce, che – pronunciando nei confronti degli eredi di Tizio, succeduti nella vertenza giudiziale – revoca il decreto ingiuntivo. A fondamento della propria decisione la Corte territoriale evidenziava come nella fattispecie non viene in evidenza l'art. 49 cit. concernente l'ipotesi, affatto diversa, di collocazione a riposo a seguito di assenza prolungata dal servizio per malattia, per la quale soltanto è prevista la corresponsione dell'indennità sostitutiva del preavviso.
Avverso la sentenza di secondo grado viene presentato ricorso per Cassazione, nel quale si lamenta violazione ed errata applicazione dell'art. 49 cit. “norma che - secondo i ricorrenti - prevede espressamente l'ipotesi in cui il dipendente sia dichiarato permanentemente inidoneo a svolgere qualsiasi proficuo lavoro, specificando che, in tal caso, l'Agenzia può procedere, salvo particolari esigenze, a risolvere il rapporto corrispondendo al dipendente l'indennità sostitutiva del preavviso”.
La Corte di Cassazione dichiara infondato il ricorso, non condividendo tale assimilazione, sul presupposto che “in caso di sopravvenuta inidoneità totale del lavoratore alla prestazione lavorativa, si configura un caso di impossibilità assoluta per il venir meno della causa del contratto, non riconducibile ai casi di sospensione legale previsti dagli artt. 2110, 2111 c.c., con la conseguenza che – al verificarsi di tale impossibilità assoluta e diversamente da quanto avviene per il caso di impossibilità relativa – si determina la risoluzione del rapporto senza necessità che la parte interessata manifesti mediante negozio di recesso l'assenza di un suo interesse al mantenimento del vincolo giuridico (ormai privo di valore), dovendosi anche escludere, ai sensi dell'art. 1322, c. 2, c.c., che l'autonomia privata possa mantenere ugualmente in vita il rapporto”.
In sostanza, osserva la Corte di Cassazione, nel caso de quo la risoluzione del rapporto consegue al fatto in sé, dell'inidoneità fisica allo svolgimento del lavoro: l'impossibilità di espletare l'attività lavorativa ha qui natura assoluta e non relativa; non è quindi richiesta alcuna manifestazione di volontà di recesso del datore di lavoro, né tanto meno il rispetto del termine di preavviso (o il riconoscimento dell'indennità sostitutiva). Ad avviso della Corte, lo scioglimento del vincolo negoziale scaturisce, qui, dall'impossibilità definitiva di adempiere la prestazione lavorativa (art. 1256 c.c.) e dalla conseguente impossibilità totale di chiedere la controprestazione (art. 1463 c.c.). La questione
La questione afferisce quindi, comprensivamente, al tema dell'impossibilità sopravvenuta dell'obbligazione lavorativa per fatti incidenti sulla integrità psicofisica e sulla salute del lavoratore. Se tali fatti integrano gli estremi della malattia trova applicazione la disciplina – speciale rispetto a quella civilistica di cui agli artt. 1256 e 1463, 1364 c.c. – di cui all'art. 2110 c.c. e alle correlate norme contrattuali collettive.
La malattia costituisce ipotesi di impossibilità temporanea della prestazione, rispetto alla quale l'art. 2110, sulla base di un bilanciamento degli interessi in gioco e in considerazione del primario interesse alla salute (artt. 32 e 38 Cost.), prevede, sostanzialmente, una sospensione del rapporto di lavoro per un certo periodo (c.d. comporto) la cui durata è stabilita dalla legge (v. il Regio decreto n. 1825 del 1924 sull'impiego privato) o, più comunemente, dalla contrattazione collettiva, con possibilità di recesso, da parte del datore di lavoro, solo al termine del periodo stesso. Sono quindi - per regola - le norme pattizie a stabilire il limite temporale oltre il quale, venuto presuntivamente meno l'interesse alla prestazione lavorativa, il datore di lavoro può recedere dal contratto.
L'art.49 Ccnl Agenzie fiscali è la norma che dà applicazione, nel relativo comparto, alla disciplina legale (art. 2110 c.c.). Essa, dopo aver fissato la durata del comporto (comma 1), ne prevede, su richiesta del lavoratore, un possibile prolungamento (comma 2) in casi particolarmente gravi, valutati dall'azienda. Il periodo addizionale di malattia presuppone, su richiesta del dipendente, un accertamento delle sue condizioni di salute (comma 3), presso la Asl, “al fine di stabilire la sussistenza di eventuali cause di assoluta e permanente inidoneità fisica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro”.
Superato il periodo di conservazione del posto (salvo particolari esigenze), l'Agenzia fiscale “può procedere a risolvere il rapporto, corrispondendo al dipendente l'indennità sostitutiva del preavviso”. Il diritto al recesso datoriale, con corresponsione dell'indennità, è previsto dall'art. 49 anche nel caso in cui il dipendente sia dichiarato, a seguito dell'accertamento Asl, permanentemente inidoneo a svolgere qualsiasi proficuo lavoro (comma 4).
È su quest'ultimo passaggio della norma che, come visto, è stata fondata la richiesta di cassazione della sentenza di appello. Profili contenutistici e soluzione giuridica
L'obiezione del Giudice di legittimità è che l'art. 49 disciplina una ipotesi di impossibilità della prestazione temporanea e relativa, diversamente dall'accertamento che dà titolo alla pensione di inabilità ex art. 2, c. 12, L. n. 335/1995, il quale registra una vicenda non assimilabile alla malattia, in quanto dà luogo a una impossibilità della prestazione lavorativa definitiva e assoluta.
Più specificamente, ai sensi della pronuncia, la malattia presuppone, anzitutto, una impossibilità temporanea al lavoro, cioè un evento incidente transitoriamente sulla salute del lavoratore, destinato ad essere superato, con conseguente ripresa dell'attività lavorativa e con garanzia di tutela protratta per tutto il periodo di comporto.
La norma pattizia (art. 49 cit.), oltre a radicare il diritto di recesso datoriale al superamento del comporto, riconosce il diritto medesimo anche in caso di accertamento medico che attesti la “assoluta e permanente inidoneità fisica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro”, intesa dal giudice non quale inettitudine totale al lavoro, ma quale inidoneità a svolgere - presso l'azienda in cui il lavoratore è occupato – “le mansioni proprie della qualifica rivestita”.
Si tratta quindi di una impossibilità relativa e non assoluta, in quanto correlata al tipo di attività espletata e non, estensivamente, a qualsiasi lavoro o occupazione, secondo i presupposti al contrario necessari per il riconoscimento della pensione di inabilità. Nell'ipotesi ex art. 49 la “assoluta e permanente inidoneità fisica alle mansioni proprie della qualifica rivestita” può non portare alla risoluzione del rapporto quante volte, ad es., al lavoratore risultino attribuibili altre mansioni, confacenti alla sua nuova condizione psico-fisica.
Al contrario, nell'ipotesi oggetto del giudizio (avente a fondamento l'art. 2, c. 5, L. n. 222/1984) il rapporto di lavoro deve essere necessariamente interrotto, come confermato indirettamente - osserva la Corte - anche dal fatto che vi è incompatibilità tra percezione della pensione ordinaria di inabilità e compensi da lavoro subordinato. Osservazioni
Al di là delle specifiche argomentazioni collegate alla inapplicabilità della norma contrattuale collettiva in esame (art. 49) all'ipotesi di collocamento a riposo del lavoratore che abbia richiesto e ottenuto la liquidazione della pensione ordinaria di invalidità, va osservato come la vicenda afferisca, nel complesso, alla inidoneità fisica del lavoratore da cui derivi, in via definitiva, impossibilità totale o parziale alla prestazione.
Tale situazione è usualmente ricondotta dai giudici del lavoro, congiuntamente, nell'alveo degli artt. 1256, 1463 (impossibilità totale), 1464 (impossibilità parziale), c.c. e dell'art. 3 L. n. 604/1966 inteso quale specificazione e non deroga alle previsioni generali di impossibilità sopravvenuta della prestazione nel contratto sinallagmatico. Il richiamo alla legge limitativa del recesso datoriale – in quanto adeguamento delle regole generali alle specificità della materia – rappresenta sostanzialmente una cautela volta ad escludere che il datore possa far ricorso alla risoluzione di diritto del rapporto come prospettata dall'art. 1463 c.c. e a sottoporre a sindacato giudiziale le condizioni e i presupposti alla base della relativa iniziativa risolutoria.
D'altra parte, l'art. 3 cit., nel sanzionare i casi di notevole inadempimento, è inteso quale norma che comprende anche fatti obiettivi afferenti alla persona del lavoratore, non correlati a sua condotta colpevole (v. Cass. SU n. 7755/1998). Tale inquadramento comporta, in ipotesi, la spettanza del preavviso o dell'indennità sostitutiva, come negli altri casi di recesso per giustificato motivo soggettivo e oggettivo.
È chiaro che tali profili rimangono - per così dire - sullo sfondo in una vicenda, quale quella considerata, in cui l'accertamento della impossibilità definitiva e assoluta al lavoro è stato promosso direttamente dal lavoratore, per ottenere il riconoscimento della pensione di inabilità.
Tale situazione, avente a fondamento un procedimento di verifica medico-sanitario, determina, evidentemente, una mera “presa d'atto” da parte dell'azienda che si limita a registrarne i presupposti e a sanzionare la obiettiva cessazione del rapporto di lavoro. |