L'amministratore non è debitore degli utili societari

21 Gennaio 2022

Titolare dell'obbligo di distribuzione degli utili che sono stati prodotti dall'impresa sociale è solo la società, trattandosi di soggetto giuridico autonomo e distinto dalle persone che compongono la relativa compagine, dalla cui attività deriva la produzione degli utili, che fanno parte del patrimonio sociale ...
Massima

Titolare dell'obbligo di distribuzione degli utili che sono stati prodotti dall'impresa sociale è solo la società, trattandosi di soggetto giuridico autonomo e distinto dalle persone che compongono la relativa compagine, dalla cui attività deriva la produzione degli utili, che fanno parte del patrimonio sociale fino a quando – per le società di persone – non intervenga la delibera di approvazione del rendiconto che ne determina l'emersione.

Il caso

Le socie accomandanti di una società in accomandita semplice convenivano in giudizio il socio accomandatario, affinché venisse condannato a corrispondere loro gli utili maturati nel corso degli esercizi precedenti, per quanto di loro spettanza.

La domanda era rigettata sia in primo che in secondo grado, in quanto veniva escluso che il socio accomandatario potesse essere considerato, con riguardo al diritto dei soci di ricevere gli utili, destinatario diretto della richiesta di pagamento, posto che il relativo debito fa capo alla società, quale soggetto autonomo di diritto.

Le socie interponevano, quindi, ricorso per cassazione, lamentando che i giudici di merito avessero erroneamente affermato che il socio accomandante non può agire nei confronti dell'accomandatario amministratore per sentirlo condannare – in virtù dell'obbligo, su di lui gravante, di dare esecuzione alle delibere assembleari – alla distribuzione degli utili prodotti dalla società.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso, confermando che il debito avente per oggetto la distribuzione ai soci degli utili maturati dalla società fa capo a quest'ultima e non all'amministratore.

La motivazione posta a fondamento della decisione assunta si articola nei seguenti passaggi: 1) l'obbligazione avente per oggetto la distribuzione (ovvero il pagamento) ai soci degli utili maturati dalla società è una tipica obbligazione di dare; 2) come tale, essa grava sul soggetto in capo al quale è sorta, vale a dire la società; 3) l'amministratore, di conseguenza, non ha legittimazione passiva rispetto a tale obbligazione, essendo – al limite – semplicemente l'organo tramite il quale la società la adempie.

Osservazioni

Prima di affrontare e approfondire il tema della distribuzione degli utili societari sotto il profilo dell'individuazione del soggetto passivo della relativa obbligazione, è opportuno premettere alcune considerazioni di carattere generale.

Nelle società di persone, l'approvazione del bilancio (ovvero del rendiconto) da cui risulti l'esistenza di utili – intesi come incremento del patrimonio sociale rispetto ai conferimenti iniziali derivante dall'attività economica svolta dalla società – rappresenta la condizione necessaria e sufficiente affinché ciascun socio possa ritenersi legittimato a pretendere la quota spettantegli, secondo quanto stabilito dall'art. 2262 c.c., che fa salvo il patto contrario, in assenza del quale la decisione circa l'accantonamento – totale o parziale – degli utili risultanti dal rendiconto approvato dev'essere assunta all'unanimità.

Diversamente, nelle società di capitali, gli utili vengono acquisiti dalla società, mentre sarà l'assemblea, con un successivo atto deliberativo, a stabilirne la destinazione (ossia la distribuzione o l'accantonamento); a tale riguardo, non è la mera approvazione del bilancio a determinare l'insorgenza del diritto del socio al percepimento dell'utile, occorrendo una specifica decisione in tale senso (artt. 2433 e 2478-bis c.c.).

Inoltre, il versamento di acconti sugli utili ovvero sui dividendi non è, in linea generale, ammesso, visto che il comma 4 dell'art. 2478-bis c.c. impone che la distribuzione degli utili sia subordinata al loro effettivo conseguimento e che l'art. 2433 c.c. consente una tale possibilità limitatamente alle società per azioni il cui bilancio è assoggettato per legge a revisione legale dei conti e in quanto vi sia un'apposita previsione dello statuto in tale senso.

Analogo principio deve ritenersi valevole anche per le società di persone, in virtù di quanto stabilito dall'art. 2303 c.c.: lo ha affermato, da ultimo, Cass. civ., sez. VI, 4 marzo 2021, n. 6028, secondo cui la natura imperativa di tale regola, che esclude la configurabilità di eventuali deroghe pattizie, discende, da un lato, dalla sanzione penale posta a carico degli amministratori dall'art. 2627 c.c. e, dall'altro lato, dal fatto che, diversamente opinando, si determinerebbe un inammissibile rimborso anticipato dei conferimenti (che possono essere restituiti ai soci nei soli casi, tassativamente previsti, di scioglimento del rapporto sociale). Una tale conclusione, secondo i giudici di legittimità, non può considerarsi smentita dall'art. 2262 c.c., nella parte in cui, sancendo il diritto del socio di percepire la sua parte di utili dopo l'approvazione del rendiconto, fa salvo il patto contrario, giacché, per effetto di tale clausola di salvezza, deve intendersi consentito non già espandere, ma – al contrario – limitare il diritto del socio, subordinandolo, pendente societate, al consenso di particolari maggioranze.

Una volta che, in capo ai soci, sia sorto il diritto alla distribuzione degli utili prodotti dalla società, titolare del correlativo obbligo è solo e unicamente quest'ultima, quale soggetto di diritto autonomo e distinto dalle persone che compongono la relativa compagine, anche quando si tratti di società di persone.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, si è da tempo consolidata nel ravvisare in capo a queste ultime una propria individualità e nel considerarle, pertanto, quali centri di imputazione di situazioni giuridiche autonome, distinte da quelle dei soci: infatti, l'art. 2266 c.c. pone direttamente in capo alla società l'acquisto dei diritti e l'assunzione delle obbligazioni, mentre le persone dei soci risultano solamente deputate a esercitare la rappresentazione organica; allo stesso modo, dagli artt. 2659 e 2839 c.c. si evince che anche le società di persone sono considerate alla stregua di entità autosufficienti, isolate dalle persone dei soci, ai fini delle trascrizioni e delle iscrizioni ipotecarie.

Pur essendo pacifico che le società di persone sono prive di personalità giuridica, è altrettanto vero che il nostro ordinamento ammette che la titolarità dei diritti faccia capo a entità non personificate, autonome rispetto alle persone fisiche che le compongono e dotate di autonomia patrimoniale, quale espressione della separazione tra le situazioni giuridiche facenti capo agli associati e quelle riconducibili alla struttura operativa cui gli stessi hanno dato luogo.

In questo senso, la capacità processuale attiva e passiva delle società di persone, giusta quanto stabilito dall'art. 2266 c.c. in tema di società semplice (ma lo stesso è a dirsi per le società in nome collettivo e in accomandita semplice, per effetto degli artt. 2293 e 2315 c.c.), è un ulteriore indice di evidenza normativa che supporta tale ricostruzione.

In considerazione di ciò e tenuto conto del fatto che, fino al momento della loro distribuzione (ovvero del loro pagamento) ai soci, gli utili maturati dalla società appartengono al patrimonio di quest'ultima, non vi è spazio, secondo i giudici di legittimità, per l'assoggettamento dell'accomandatario all'azione promossa dall'accomandante al fine di ottenere il pagamento della quota spettantegli.

Trattandosi di una tipica obbligazione di dare, infatti, essa è esigibile nei confronti del soggetto tenuto all'adempimento, ossia – come visto – della società, non assumendo rilievo la circostanza per cui l'adempimento presuppone l'agire dell'accomandatario amministratore, che, in questo frangente, assume semplicemente la veste di organo mediante il quale la società comunemente opera.

Come osservato nella sentenza che si annota, non si tratta, dunque, di individuare in capo all'accomandatario un inesistente obbligo di fare avente titolo nel rapporto di mandato che si instaura tra l'amministratore e i soci e di cui si lamenta l'inadempimento, anche perché la distribuzione degli utili non può essere fatta rientrare nell'obbligo di rendiconto previsto dall'art. 1713 c.c., a mente del quale il mandatario è tenuto a rimettere al mandante tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato: in effetti, con riguardo agli utili prodotti dall'attività sociale, non vi è alcuno spostamento dal patrimonio della società a quello dell'accomandatario amministratore che consenta di reputare configurabile un simile schema, con la conseguenza che, a fronte della maturazione del diritto dell'accomandante al loro percepimento, il correlativo obbligo insorge, si radica e permane in capo alla società, fino a che non venga adempiuto.

Conclusioni

I principi affermati nella sentenza che si annota confermano la qualificazione della società di persone come autonomo centro di imputazione giuridica, per quanto sfornita di vera e propria personalità: da ciò viene fatto discendere che i debiti – ivi compreso quello che ha per oggetto la distribuzione degli utili in favore dei soci – gravano direttamente sulla società e non su coloro che la rappresentano, per quanto questi siano tenuti a risponderne in via solidale.

A tale proposito, nel rigettare il ricorso, i giudici di legittimità danno atto di non poter esaminare, per un motivo di carattere squisitamente processuale, la questione sottoposta al loro vaglio sotto un altro profilo, inerente alla configurabilità di una diversa ragione giuridica cui ricondurre l'iniziativa promossa dalle socie accomandanti: vale a dire, il suo inquadramento in termini di azione svolta ai sensi degli artt. 2291, 2304 e 2318 c.c., perché, in effetti, mai prospettata dalle ricorrenti.

In assenza di una risposta sul punto, si ritiene nondimeno di potere affermare che una simile domanda, se fosse stata proposta, avrebbe potuto trovare accoglimento.

In altre parole, il socio accomandante che agisca in giudizio per vedersi corrispondere la quota di utili di sua spettanza, può agire nei confronti non solo della società, ma pure dell'amministratore, non essendovi dubbio che – per quanto osservato nella sentenza annotata – si tratta di un debito sociale e che dello stesso, pertanto, è tenuto a rispondere, in via solidale, il socio accomandatario: è evidente, tuttavia, che tale iniziativa giudiziale non è volta a fare accertare un inadempimento dell'accomandatario a un'obbligazione di fare avente titolo nel rapporto di mandato sotteso al ruolo di amministratore, ma quello della società, di cui egli deve rispondere solidalmente in virtù di quanto stabilito dagli artt. 2291 e 2318 c.c.

Convince di ciò il fatto che è la stessa sentenza che ha respinto il ricorso a evidenziare come i soci, una volta maturato il credito avente per oggetto la distribuzione degli utili (annoverabile, dal lato attivo, tra i crediti sociali ai quali fa riferimento l'art. 2304 c.c. e, dal lato passivo, tra le obbligazioni sociali considerate dall'art. 2291 c.c.), debbano considerarsi, rispetto alla società e in relazione a tale diritto, terzi; di conseguenza, non vi è motivo di escludere l'operatività della regola per cui delle obbligazioni sociali rispondono solidalmente e illimitatamente tutti i soci (nelle società in nome collettivo) ovvero i soci accomandatari (nelle società in accomandita semplice e sempre che non sia configurabile l'assoggettamento a tale responsabilità anche dei soci accomandanti, nei casi previsi dall'art. 2320 c.c.).

D'altra parte, non osterebbe a una simile azione il limite di cui all'art. 2304 c.c., in base al quale i creditori sociali non possono pretendere il pagamento dai singoli soci (ovvero dai soci accomandatari) qualora non sia stata preventivamente escussa la società: per pacifico insegnamento giurisprudenziale, infatti, il beneficio d'escussione previsto dalla norma attiene alla fase esecutiva, sicché non impedisce affatto di procurarsi un titolo nei confronti del socio addirittura prima di avere agito per ottenerlo nei confronti della società o pur essendone già munito (si vedano, rispettivamente, Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2020, n. 22629 e Cass. civ., sez. III, 28 agosto 2019, n. 21768).

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