Error in procedendo e poteri della Corte di cassazione
31 Gennaio 2022
Massima
La Corte di cassazione, allorquando debba accertare se il giudice di merito sia incorso in error in procedendo, è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, né potendo la Corte ricercare e verificare autonomamente i documenti interessati dall'accertamento, è necessario che la parte ricorrente non solo indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il «fatto processuale» di cui richiede il riesame, ma anche che illustri la corretta soluzione rispetto a quella erronea praticata dai giudici di merito, in modo da consentire alla Corte investita della questione, secondo la prospettazione alternativa del ricorrente, la verifica della sua esistenza e l'emenda dell'errore denunciato. Il caso
Equitalia Servizi di Riscossione S.p.A. chiedeva il fallimento di una società di capitali. Il giudice di primo grado accoglieva la richiesta. La società dichiarata fallita proponeva reclamo, eccependo il difetto di legittimazione passiva di Equitalia Servizi di Riscossione, trattandosi di ente estinto e cancellato dal registro delle imprese, in data anteriore alla presentazione della istanza di fallimento. I giudici del gravame rigettavano il reclamo, sul rilievo che l'epigrafe del ricorso era intestato Equitalia Servizi di Riscossione (oggi Agenzia Entrate Riscossione), ritenendo quindi l'istanza presentata dal nuovo ente. Proposto ricorso in Cassazione, la Corte accoglieva il ricorso sul rilievo che «la sola intestazione dell'atto non era affatto sufficiente ad indentificare in AdER il soggetto agente, visto che, come riconosce contraddittoriamente la stessa Corte di appello, subito dopo la parentesi, erano indicati la sede legale, il codice fiscale e la partita iva di Equitalia, ossia una serie di dati univocamente identificativi del soggetto estinto». La questione
La questione in esame è la seguente: nel caso in cui sia proposto ricorso in Cassazione lamentando error in procedendo, quali sono i poteri esercitabili dal giudice di legittimità? Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento offre una soluzione condivisa in tema di interpretazione degli atti processuali. E contrariamente a quanto pure si sostiene talora in giurisprudenza (Cass. civ., n. 11828/2014), spetta alla Corte di cassazione procedere direttamente all'interpretazione dell'atto processuale della cui validità si discuta (Cass. civ., n. 25308/2014, Cass. civ., sez. un., n. 8077/2012). Lo impone il principio consolidato che, quando viene dedotto un error in procedendo, il sindacato di legittimità investe direttamente l'invalidità denunciata, indipendentemente dalle motivazioni esibite al riguardo, perché in questi casi la Corte di cassazione è giudice anche del fatto (Cass. civ., n. 16164/2015). Non è possibile, infatti, scindere il momento dell'interpretazione degli atti processuali, e segnatamente delle domande delle parti, dal momento della violazione delle norme processuali, in particolare dell'art. 345 c.p.c., perché l'omessa pronuncia, come l'ultra o l'extra petizione, possono dipendere appunto da quell'erronea interpretazione oltre che da un errore di percezione. Né sarebbe plausibile sostenere che solo gli errori di percezione sono deducibili a norma dell'art. 360 c.p.c., n. 4, mentre dovrebbe essere denunciata a norma dell'art. 360 c.p.c., n. 5 ogni altra violazione di norme processuali derivante da un'erronea interpretazione degli atti del procedimento. Si determinerebbe così una riduzione al vizio di motivazione della gran parte degli errores in procedendo, con uno stravolgimento inaccettabile del giudizio di legittimità. Se il controllo della Corte di cassazione sul rapporto tra domande delle parti e pronuncia del giudice dovesse davvero esercitarsi solo attraverso il sindacato sulla motivazione esibita dal giudice del merito nell'interpretazione degli atti eccepiti di invalidità, dovrebbe coerentemente concludersi che, accertato il vizio della motivazione, la Corte dovrebbe rinviare al giudice del merito per una nuova interpretazione della domanda. Mentre questo orientamento giurisprudenziale viene di solito evocato, quale più comodo schema argomentativo, solo quando si tratti di negare l'esistenza del vizio di ultrapetizione o di omessa pronuncia. Osservazioni
La soluzione oggi prospettata si aggancia all'intervento del giudice della nomofilachia (Cass. civ., sez. un., n. 8077/2012) che a composizione del contrasto in ordine all'ambito dei poteri della Corte di legittimità, ha statuito che quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un'attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell'atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell'oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4). Il principio ha avuto seguito con un'applicazione proprio relativa all'art. 342 c.p.c., essendosi affermato che quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio attinente all'applicazione dell'art. 342 c.p.c., in ordine alla specificità dei motivi di appello, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda (Cass. n. 15071/2012). Peraltro, tale principio fa da contraltare a quello dell'autosufficienza del ricorso per cassazione che impone al ricorrente di indicare tutte le circostanze e tutti gli elementi con incidenza causale sulla controversia, il cui controllo deve avvenire sulla base delle sole deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative. Detto principio trova applicazione anche allorché il ricorrente per cassazione lamenti la violazione di una norma processuale, sicché egli ha l'onere di indicare tutti gli elementi di fatto che determinarono la dedotta violazione al fine di permettere la valutazione della decisività della questione. In applicazione del principio in discorso, il ricorrente che, come nella specie, lamenti la pronuncia ultra petita, da parte del giudice di merito, su una domanda, onde evitare una pronuncia di inammissibilità per lacunosità della censura, ha l'onere di riportare in ricorso tale domanda. In mancanza, la censura si risolve in un'affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione, in violazione del ridetto principio, che mira ad assicurare che il ricorso per cassazione consenta, senza il sussidio di altre fonti, l'immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere, costituendo il principio medesimo un particolare atteggiarsi del disposto normativo della specificità dei motivi di impugnazione (art. 366, comma primo, n. 4 c.p.c.). E' vero, infatti, che il vizio di ultrapetizione, in quanto incidente sulla sentenza pronunziata dal giudice del gravame, è deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 n. 4 c.p.c. e, risolvendosi nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), integra un error in procedendo, in relazione al quale la Suprema Corte è anche giudice del fatto ed ha il potere - dovere di esaminare direttamente gli atti di causa e, in particolare, le istanze; e le deduzioni delle parti. Sennonché, fermo questo potere - dovere di riesame degli atti processuali, la parte ricorrente ha sempre l'onere di indicare tutti gli elementi di fatto atti a individuare la dedotta violazione processuale; il dovere di riesame del fatto processuale non implica di certo la ricerca dello stesso, salvo che non si tratti di fatti rilevabili d'ufficio (ed il vizio di ultra petita non può essere rilevato d'ufficio: Cass., sez. un., n. 20181/2019). In altre parole, qualora la parte chieda il riesame del «fatto processuale», deve indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il fatto medesimo, pena l'inammissibilità del motivo per genericità, ovverosia in quanto privo di rituale compiutezza. In conclusione, se è vero che la Corte di cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo, quale indubbiamente il vizio di ultra o extrapetizione, è anche giudice del fatto ed ha il potere - dovere di esaminare direttamente gli atti di causa, tuttavia, per il sorgere di tale potere - dovere è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il «fatto processuale» di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale. |