Scioglimento del rapporto sociale nelle società di persone

02 Febbraio 2022

Il rapporto tra la società di persone ed il singolo socio può sciogliersi per morte, recesso o esclusione. In linea generale, la morte del socio determina lo scioglimento del rapporto sociale con gli eredi che, conseguentemente, hanno diritto alla liquidazione della quota...
Inquadramento

Le cause di scioglimento del rapporto tra la società di persone ed il singolo socio sono rappresentate dalla morte, il recesso o l'esclusione.

In termini generali, la morte del socio determina lo scioglimento del rapporto sociale con gli eredi che, conseguentemente, hanno diritto alla liquidazione della quota. I soci superstiti, tuttavia, possono decidere sia lo scioglimento anticipato della compagine societaria; sia, in alternativa, di continuare la società con gli eredi del socio defunto a condizione, però, che questi vi acconsentano.

Il recesso, invece, spetta a ciascun socio quando la società è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci. In questa ipotesi, la volontà di recedere deve essere comunicata agli altri soci con un preavviso non inferiore a tre mesi. Il socio può altresì recedere nei casi previsti nel contratto sociale o quando sussiste una giusta causa.

L'esclusione, infine, determina l'estromissione del socio dalla società in conseguenza del verificarsi di alcuni accadimenti: alcuni dipendenti dalla volontà degli altri soci (c.d. esclusione “volontaria”); altri, invece, sono espressamente indicati dal legislatore (c.d. esclusione di “diritto”).

La morte del socio

La morte del socio di società di persone è considerata dal nostro legislatore una causa di scioglimento parziale del rapporto sociale, in considerazione della intrasmissibilità della quota del defunto agli eredi. Ai sensi dell'art. 2284 c.c., infatti, salvo diversa disposizione contenuta nell'atto costitutivo, nell'ipotesi di morte del socio i soci superstiti devono liquidare la quota agli eredi.

Unica eccezione a tale principio è rappresentata dalla società in accomandita semplice, per la quale l'art. 2322, comma 1, c.c., limitatamente alla quota del socio accomandante, ne consente la trasferibilità per mortis causa.

In via di principio, quindi, il decesso del socio determina lo scioglimento del rapporto sociale nei confronti degli eredi i quali diventano creditori nei confronti della società con diritto alla liquidazione della quota ai sensi dell'art. 2289 c.c.; diritto che sorge automaticamente con l'evento stesso della morte del socio e si conserva indipendentemente dal fatto che la società continui o si sciolga (Cass. 14 marzo 2001, n. 3671).

Tale disposizione risulta essere la conseguenza di due fattori: da un lato, quello fondato sull'intuitus personae, cioè sul rapporto fiduciario intercorrente tra i soci, in forza del quale non si ammette l'automatico subentro degli eredi in luogo del socio deceduto; dall'altro, “quello fondato sulla natura del contratto sociale, quale contratto plurilaterale con comunione di scopo” (M. Ghidini, Società personali, Padova, 1972, 476).

Resta inteso, come evidenziato dai giudici di legittimità (Cass. 23 marzo 2005, n. 6263, in Le Società, 2006, 185), con opinione assolutamente condivisibile, che la mancata liquidazione della quota rappresenta un inadempimento dei soci superstiti, ma non determina, in mancanza di accordo tra le parti, il subentro nella società degli eredi del socio defunto.

L'art. 2284 c.c., tuttavia, concede ai soci superstiti sia di decidere lo scioglimento anticipato della società ai sensi dell'art. 2272, comma 1, c.c.; sia, in alternativa, di decidere di continuare la società con gli eredi del socio defunto a condizione, però, che questi vi acconsentano (sul tema, v. Cass. 16 aprile 2018, n. 9346; Trib. Milano 30 luglio 2019, in Le Società, 2020, 113).

Qualora i soci superstiti deliberano lo scioglimento anticipato della società gli eredi del socio defunto non partecipano alla fase liquidatoria in qualità di soci, ma come creditori della società stessa, essendo lo status di socio di per sé escluso dal disposto dell'art. 2284 c.c., il cui significato complessivo è nel senso che la continuazione della società tra i soci originari e gli eredi del socio defunto può conseguire soltanto nel caso in cui i primi manifestino tale volontà ed i secondi vi acconsentano.

In ogni caso, la decisione di scioglimento anticipato della società agli effetti di cui all'art. 2284 c.c. deve essere assunta nel termine massimo di sei mesi dal decesso del socio. Da ciò consegue che, se nel termine di sei mesi non è assunta alcuna delibera di scioglimento e nessun accordo è assunto tra i soci superstiti e gli eredi del socio defunto per il loro subingresso nella compagine societaria, agli eredi spetteranno le normali azioni che competono ai creditori sociali al fine di ottenere il soddisfacimento del loro credito. Se, al contrario, nel predetto termine i soci decidano di sciogliere anticipatamente la società, il termine di sei mesi previsto dall'art. 2289 c.c. per la liquidazione della quota del socio uscente deve intendersi superato, essendo assorbita la questione attinente alla liquidazione della quota agli eredi in quella della ripartizione dell'attivo tra tutti i soci al termine della fase di liquidazione.

Un'ulteriore possibilità concessa dall'art. 2284 c.c. è rappresentata dalla decisione di continuare la società con gli eredi del socio defunto, fattispecie consentita però solo in presenza di espressa volontà degli eredi del de cuius. Per la continuazione del rapporto sociale con gli eredi è quindi richiesto, non soltanto il consenso unanime dei soci superstiti, ma anche il consenso degli eredi medesimi, dal momento che la continuazione comporta l'assunzione degli obblighi derivanti dal contratto sociale. Ai sensi dell'art. 2269 c.c., infatti, colui che entra a far parte di una società in nome collettivo o una società in accomandita semplice (quale socio accomandatario) già costituita risponde con gli altri soci per tutte le obbligazioni sociali sorte anteriormente all'acquisto della qualità di socio.

Al riguardo, giova ricordare che l'art. 2284 c.c. esordisce con l'espressione “salvo contraria disposizione del contratto sociale”, ammettendo esplicitamente anche una disciplina convenzionale, oltre a quella legale che si estrinseca nelle già citate tre possibilità: scioglimento parziale del rapporto sociale; scioglimento del rapporto sociale e conseguente messa in liquidazione della società; continuazione del rapporto sociale con gli eredi.

Nel caso in cui, infine, la società sia composta soltanto da due soci, il decesso di uno dei soci determina, in primo luogo, l'effetto previsto dall'art. 2284 c.c. dello scioglimento immediato del singolo vincolo sociale, non quello dello scioglimento immediato della compagine sociale; effetto, peraltro, confermato dall'art. 2272, comma 1, n. 4, c.c., in base al quale la società continua a sussistere per sei mesi durante i quali può essere ricostituita la pluralità dei soci. Da ciò discende che nel caso di morte di uno dei due soci, il socio superstite deve procedere innanzitutto alla liquidazione della quota spettante agli eredi, salve le eccezioni previste dallo stesso art. 2284 c.c., fermo restando lo scioglimento della società se, nei termini di cui al primo comma, n. 4, dell'art. 2272 c.c., la pluralità dei soci non viene ricostituita. Anche nella società con due soli soci, pertanto, è possibile lo scioglimento limitato ad uno soltanto di essi, senza che ciò implichi lo scioglimento generale della società.

Il diritto di recesso del socio

Il recesso è lo strumento predisposto dal legislatore al fine di “consentire al socio di liberarsi dal vincolo quando le condizioni di svolgimento dell'attività prescelta sono variate rispetto a quelle sulla cui base era entrato in società” (D. Galletti, Il recesso nelle società di capitali, Milano, 2000, 62).

Il diritto di recesso è esercitato dal socio, ricorrendone i presupposti previsti dalla legge o dallo statuto, con atto unilaterale che non necessita, per produrre effetti, dell'accettazione da parte della società. Tale atto, tuttavia, perché possa produrre i suoi effetti, non sembra poter prescindere dalla comunicazione alla società che, in assenza di una specifica previsione da parte dell'art. 2285 c.c., può essere anche verbale (Cass. 16 dicembre 1988, n. 6849, in Riv. Notariato, 1989, 1235), oltre a manifestazione di volontà scritta.

In base al disposto di cui all'art. 2285, comma 1, c.c. (applicabile alle società in nome collettivo ai sensi dell'art. 2293 c.c. - che richiama espressamente le disposizioni della società semplice - ed alle società in accomandita semplice in forza del rinvio alle disposizioni sulle s.n.c. contenuto nell'art. 2315 c.c.), ogni socio ha il diritto a recedere quando:

- la società è costituita a tempo indeterminato, intendendosi con tale espressione non soltanto l'ipotesi in cui non è stato affatto determinato un termine per lo scioglimento, ma anche quella per la quale il termine conclusivo è stato determinato in maniera tale da sorpassare la vita prevedibile di tutti i soci o di taluni di essi (sul tema, v. App. Bologna 28 settembre 2017, secondo cui la previsione di una durata largamente superiore alle aspettative di vita di un socio è equiparabile ad una durata indeterminata per la quale è normativamente ammesso il recesso ad nutum);

- la stessa è costituita per tutta la vita di uno dei soci, forma di exit chiaramente volta ad impedire che il socio sia vincolato per una durata pari a quella della propria vita, costringendolo ad un legame perpetuo.

In tali circostanze, il recesso produce i suoi effetti dopo il decorso di un termine di preavviso di almeno tre mesi (art. 2285, comma 3, c.c.). A questo proposito, si è discusso in ordine all'individuazione del soggetto cui la dichiarazione di recesso deve essere indirizzata. Il dato letterale desumibile dal citato terzo comma dell'art. 2285 c.c., depone nel senso che la dichiarazione debba essere diretta ai singoli soci e non alla società. E' questa l'opinione che prevale tra i giudici di merito i quali hanno considerato inefficace la dichiarazione di recesso qualora non venga comunicata personalmente ed individualmente a tutti i soci, rilevando che la legittimazione ad eccepire l'inefficacia spetti alla società, che ha il diritto ed il dovere di verificare i presupposti del recesso e di opporsi alla liquidazione della quota del socio in caso di mancanza di un valido recesso (Trib. S. Maria Capua Vetere 20 luglio 1991, in Dir. fall., 1992, II, 1149; Trib. Pavia 21 aprile 1989, in Giust. civ., 1989, I, 1499; Trib. Catania 24 giugno 1982, in Dir. fall., 1982, II, 1662. Contra App. Bologna 20 novembre 1993, in Le Società, 1994, 343, secondo cui la dichiarazione di recesso va indirizzata alla società).

Il socio può altresì recedere nelle ipotesi previste nel contratto sociale o quando sussiste una giusta causa (art. 2285, comma 2, c.c.) la cui ricorrenza in concreto deve essere valutata, caso per caso, dal giudice.

In termini generali, il recesso volontario di un socio può essere giustificato soltanto in presenza di circostanze obiettive collegate a violazioni dei doveri inerenti alla partecipazione sociale da parte degli amministratori e dagli altri soci e non a fattispecie del tutto svincolate dalla valutazione della posizione degli altri componenti della compagine sociale ed attinenti alla sola sfera giuridica o personale del recedente.

In tale ottica, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l'indagine in tema di giusta causa di recesso va necessariamente ricondotta all'altrui violazione di obblighi contrattuali, ovvero alla violazione dei doveri di lealtà, diligenza, fedeltà o correttezza relativi alla natura fiduciaria del rapporto sottostante, con la conseguenza che il recesso del socio può ritenersi determinato da giusta causa soltanto nell'ipotesi in cui costituisca legittima reazione ad un comportamento degli altri soci obiettivamente, ragionevolmente ed irreparabilmente pregiudizievole del rapporto fiduciario esistente tra le parti del rapporto societario (Cass. 14 febbraio 2000, n. 1602, in Giur. it, 2000, 1659. Conforme Trib. Roma 24 aprile 2015, in ilcaso.it).

Giusta causa di recesso è stata individuata dalla giurisprudenza quando, nella società di persone composta da due soci soltanto, il dissidio tra gli stessi è imputabile al comportamento di uno dei due gravemente inadempiente agli obblighi contrattuali (Cass. 10 settembre 2004, n. 18243, in Foro it., 2005, I, 1105); quando uno dei due amministratori, dopo aver dato le dimissioni dalla carica, abbia poi continuato a gestire, mentre l'altro, non dimissionario, si sia di fatto estraniato da ogni attività amministrativa (Cass. 14 febbraio 2000, n. 1602, cit.); quando il socio accomandante di s.a.s. non ha ricevuto comunicazione del bilancio e del rendiconto ai sensi di quanto disposto dall'art. 2320 c.c. (Trib. Milano 29 aprile 2004, in Giur. mer., 2005, f. 9, 1816); quando il socio di s.n.c., non amministratore, non sia stato coinvolto dai soci amministratori in decisioni di rilievo per la vita sociale, fatto questo da rimuovere definitivamente la fiducia riposta negli amministratori (Trib. Bari 21 novembre 2005, in Giur. barese.it, 2005).

Un'ulteriore fattispecie di giusta causa di recesso è rappresentata dalla trasformazione di società di persone.Sulla base di quanto disposto dall'art. 2501-ter, comma 1, c.c., infatti, al socio che non ha concorso alla decisione avente ad oggetto la trasformazione di società di persone in società di capitali spetta il diritto di recesso.

Sia nella ipotesi di recesso convenzionale, sia in quella per giusta causa, il legislatore, a differenza delle fattispecie legali disciplinate dal primo comma dell'art. 2285 c.c., non ha previsto alcun termine di preavviso; con la conseguenza che il recesso produce i suoi effetti dal momento in cui viene portato a conoscenza degli altri soci (Cass. 5 aprile 2006, n. 7886, in Dir. prat. soc., 2006, f. 18, 52).

I soci, comunque - nell'ambito dell'ampia autonomia statutaria loro concessa - ben possono convenire che tutte le fattispecie di recesso previste contrattualmente abbiano efficacia immediata, così come un termine di efficacia pari o superiore a tre mesi o, infine, un termine variabile a seconda della ipotesi prevista.

L'esclusione del socio

L'esclusione determina l'estromissione del socio dalla società in conseguenza del verificarsi di alcuni accadimenti: taluni di questi sono il frutto della volontà dei soci, con la sola eccezione del socio da escludere (c.d. esclusione “volontaria” o “facoltativa”); altri, invece, sono espressamente indicati del legislatore (c.d. esclusione di “diritto”).

A queste ipotesi, applicabili anche alle società in nome collettivo ed a quelle in accomandita semplice in forza dei rinvii contenuti, rispettivamente, negli artt. 2293 e 2315 c.c., devono aggiungersi quelle previste dall'art. 2301 c.c. (violazione del divieto di concorrenza dei soci delle anzidette società) e, limitatamente ai soci accomandanti di s.a.s., quella stabilita dall'art. 2320 c.c. (violazione del divieto di immistione nell'amministrazione della società).

(Segue) L'esclusione volontaria

Ai sensi dell'art. 2286 c.c., i soci di una società semplice possono decidere di escludere il socio dalla società:

  • per gravi inadempienze alle obbligazioni che derivano dalla legge o dall'atto costitutivo;
  • nel caso in cui sia dichiarato interdetto, inabilitato, o anche condannato ad una pena che comporti l'interdizione dai pubblici uffici;
  • per sopravvenuta inidoneità del socio a prestare l'opera conferita o per il perimento del bene conferito in godimento per causa non imputabile agli amministratori;
  • per il perimento del bene promesso in conferimento prima del trasferimento della proprietà del bene medesimo alla società.

Le cause di esclusione volontaria (definite anche facoltative) - elencate dall'art. 2286 c.c. - operano a seguito di un'apposita manifestazione di volontà da parte della maggioranza dei soci.

L'art. 2286 c.c. prevede una causa generica di esclusione, rappresentata dalle “gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale”, che si riferisce all'inadempimento delle obbligazioni “afferenti alla qualità di socio”, a nulla rilevando la violazione degli obblighi che al socio incombono in una veste diversa, estranei, cioè, al contratto di società e addebitabili al socio quale terzo.

Al riguardo, la giurisprudenza ha precisato che la gravità delle inadempienze da parte del socio può giustificare la sua esclusione non solo nell'ipotesi in cui siano tali da impedire del tutto il raggiungimento dello scopo sociale, ma anche quando abbiano inciso negativamente sulla situazione della società rendendone meno agevole il perseguimento dei fini (Cass. 10 gennaio 1998, n. 153, in Giur. it, 1998, I, 1, 721; Cass. 17 settembre 1993, n. 9577, in Giur. it., 1994, I, 1, 1548). Non sono, al contrario, rilevanti le inadempienze nei confronti del socio, o degli altri soci, in quanto tali (Trib. Torino 15 dicembre 1986, in Le Società, 1987, 597); né la sottoposizione del socio ad indagini penali o a misure di prevenzione in forza del principio costituzionale di non colpevolezza sancito dall'art. 27 Cost. (Trib. Nocera Inferiore 16 luglio 2004, inedita).

Alcune fattispecie di gravi inadempienze sono espressamente previste dal legislatore relativamente alle società in nome collettivo ed a quelle in accomandita semplice dagli artt. 2301 e 2320 c.c., società per le quali, come chiarito precedentemente, quanto disposto dall'art. 2286 c.c. trova applicazione in forza dei rinvii contenuti, rispettivamente, negli artt. 2293 e 2315 c.c.

In particolare, l'art. 2301 c.c. consente l'esclusione del socio di s.n.c. e, in virtù del richiamo di cui all'art. 2315 c.c., di s.a.s., che eserciti, per conto proprio o di altri, un'attività concorrente con quella della società. Per le società in accomandita semplice, il divieto di concorrenza è applicabile nei confronti dei soli soci accomandatari, e non anche per gli accomandanti, a meno che per questi ultimi non sia pattiziamente previsto con una disposizione contenuta nel contratto sociale (Cass. 16 giugno 1989, n. 2887, in Le Società, 1989, 1149; App. Milano, 23 aprile 1991, ivi, 1991, 1650).

Con specifico riferimento alla società in nome collettivo, grave inadempimento dei doveri che derivano dalla legge, e quindi fondato motivo di esclusione, è stato considerato dai giudici di legittimità l'opposizione all'operato di un socio amministratore da parte di un altro socio amministratore - in una s.n.c. in regime di amministrazione disgiuntiva - condotta al di fuori di quanto disposto dall'art. 2257 c.c. (richiamato per tale tipo di società dall'art. 2293 c.c.) e attraverso un comportamento i cui effetti trovino risonanza al di fuori della società con grave pregiudizio sull'ambiente economico-finanziario (Cass. 2 aprile 1992, n. 4018, in Giur. it., 1992, I, 1678).

Per ciò che riguarda la s.a.s., l'art. 2320 c.c. consente l'esclusione del socio accomandante che si ingerisca nell'amministrazione della società.

L'esclusione facoltativa è prevista anche in presenza delle tre cause di minorazione della capacità legale del socio:

i) interdizione, inabilitazione e la condanna ad una pena che importi l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici (art. 2286, comma 1, c.c.).

L'elemento comune alla interdizione ed alla inabilitazione è costituito dalla perdita, o dalla rilevante diminuzione della capacità di agire del socio che, infatti, non è più in grado, totalmente o parzialmente, di curare personalmente i propri interessi, se non a mezzo del suo rappresentante legale, o con l'assistenza di un terzo;

ii) sopravvenuta inidoneità del socio a prestare l'opera conferita, perimento del bene conferito in godimento per causa non imputabile agli amministratori.

Sul tema, i giudici di legittimità hanno affermato che la sopravvenuta inidoneità del socio che ha conferito la propria opera a svolgerla presuppone la presenza di cause oggettive in grado di precludere in via definitiva la prestazione dell'opera personale del socio e prescinde dalla colposità dell'inadempimento, che, al contrario, caratterizza la fattispecie di esclusione - per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale - prevista dal primo comma del citato articolo (Cass. 1 giugno 1991, n. 6200, in Le Società, 1991, 1481);

iii) perimento del bene promesso in conferimento prima del trasferimento della proprietà del bene medesimo alla società (art. 2286, comma 3, c.c.), da intendersi come qualsiasi situazione di impossibilità, non legata necessariamente alla distruzione materiale della cosa, quale, a titolo esemplificativo, l'espropriazione del bene o la sopravvenuta inutilizzabilità dello stesso.

(Segue) L'esclusione di diritto

L'esclusione di diritto si verifica, ai sensi dell'art. 2288 c.c., nel caso di:

  • fallimento del socio.
    La ratio dell'art. 2288 c.c., infatti, applicabile sia alle società in nome collettivo (in virtù del rinvio operato dall'art. 2293 c.c.), che alle società in accomandita semplice (sulla base del rinvio all'art. 2293 c.c. operato dall'art. 2315 c.c.), va ricercata nella esigenza di tutelare la società, i creditori sociali ed i creditori personali del socio da ripercussioni negative derivanti dallo status di fallito del socio medesimo.
  • socio verso il quale un suo creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota ai sensi dell'art. 2270 c.c.
    La causa di esclusione in esame trova la sua giustificazione nella tutela dell'interesse del creditore particolare del socio che si trovi nell'impossibilità di soddisfare altrimenti il proprio credito.

A differenza delle ipotesi di esclusione volontaria, l'estromissione del socio ex art. 2288 c.c. non è rimessa quindi al potere deliberativo dei soci ma consegue in maniera automatica ed immediata al verificarsi delle cause previste dalla legge.

(Segue) Ipotesi particolari di esclusione

Tra le ipotesi particolari, sono da annoverare:

i) l'esclusione in società composta da due soli soci, per la quale l'art. 2287, comma 3, c.c., stabilisce che l'estromissione di uno dei soci è pronunciata dal tribunale su istanza dell'altro socio. La volontà di uno dei soci, pertanto, non è sufficiente per escludere l'altro dalla società, essendo necessaria, al contrario, una pronuncia giudiziale, la cui natura è costitutiva;

ii) esclusione del socio amministratore, ipotesi che si verifica quando il socio escludendo cumuli su di sé anche la qualificazione di amministratore della società.

Si è discusso, invece, sulla esclusione del socio durante la liquidazione della società, cioè sulla possibilità di estromettere il socio una volta che si sia verificata una causa di scioglimento della società.

Al riguardo, la giurisprudenza di merito si è espressa per la impossibilità di deliberare l'esclusione di un socio una volta che si sia già verificata una causa di scioglimento della società (App. Milano 17 gennaio 2003, in Giur. comm., 2004, II, 668; App. Cagliari 24 gennaio 1994, in Riv. giur. sarda, 1995, 326.), in quanto la liquidazione della quota del socio escluso trova ostacolo nel passaggio della società in una fase diretta alla liquidazione di tutti i soci, con la ripartizione del residuo attivo, dopo l'estinzione dei debiti. Per i giudici di legittimità, al contrario, l'estromissione sarebbe possibile in considerazione della preminenza della causa di scioglimento limitatamente ad un socio rispetto a quella della società (Cass. 15 luglio 1996, n. 6410, in Giur. it., 1996, I, 1433. Contra, Cass. 25 giugno 1980, n. 3982, in Dir. fall., 1980, II, 530).

(Segue) Il procedimento di estromissione e l'opposizione alla esclusione

Il procedimento di esclusione si articola in due fasi essenziali - rappresentate dalla formazione della volontà dei soci di estromettere il socio inadempiente dalla società e dalla comunicazione al socio escluso della decisione adottata - ed una fase eventuale, rappresentata dal giudizio di opposizione alla estromissione promossa dal socio espulso che può concludersi con il rigetto della opposizione, con conseguente definitiva esclusione del socio dalla società, o con l'accoglimento della opposizione, con conseguente reintegrazione ab inizio del socio espulso nella compagine societaria.

Ai sensi dell'art. 2287, comma 1, c.c., l'estromissione volontaria è deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel numero di questi il socio da escludere.

Con riferimento alla delibera di esclusione, in assenza dell'assemblea dei soci come organo sociale nelle società personali, si ritiene - in termini generali - non necessaria né una formale convocazione di tutti i soci, né una riunione dei soci medesimi, essendo sufficiente che il raggiungimento della volontà sociale di voler escludere un determinato socio dalla società sia in qualche modo documentabile e che detta volontà sia portata a conoscenza, unitamente ai motivi della stessa, al socio da escludere, ciò al fine di consentire a quest'ultimo l'esercizio del diritto di difesa.

In ogni caso, l'esclusione volontaria ha effetto decorsi trenta giorni dalla data della comunicazione di estromissione al socio (art. 2287, comma 1, c.c.); comunicazione che costituisce il mezzo attraverso il quale la società rende noto al socio la volontà di estrometterlo dalla compagine societaria ed esplica la funzione di consentire al socio medesimo di avere notizia in merito alla sua espulsione, alle motivazioni che vi sottostanno ed al dies a quo per la proposizione del giudizio di opposizione.

Nel caso in cui l'esclusione sia stata deliberata in presenza del socio interessato, è sufficiente un atto o un fatto che porti a conoscenza dell'interessato la deliberazione medesima; non incidendo sulla validità e sull'efficacia del provvedimento l'incompletezza della relativa comunicazione, divenendo rilevante la stessa incompletezza soltanto al diverso fine di consentire una opposizione tardiva o non specifica, qualora giustificata da tale mancanza (Cass. 20 luglio 1982, n. 4254, in Mass. giust. civ., 1982, fasc. 7).

Il legislatore non prescrive comunque forme particolari per la comunicazione: a tal fine, è stata ritenuta valida la spedizione di una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno; la notifica a mezzo ufficiale giudiziario; la notifica di un atto di citazione con il quale la società conviene in giudizio il socio estromesso per l'accertamento della legittimità della causa di esclusione prima di rendere edotto il socio stesso della sua esclusione dalla compagine societaria.

Avverso la decisione di esclusione, il socio escluso può presentare opposizione entro il termine di trenta giorni dinanzi al tribunale, il quale può sospendere l'esecuzione (art. 2287, comma 2, c.c.).

L'azione di opposizione ha natura costitutiva e promuove un normale giudizio di cognizione su controversia di diritto soggettivo. La legittimazione attiva a proporre l'opposizione spetta, ovviamente, al socio espulso. Legittimato passivo, invece, è la società, sulla quale incombe l'onere di provare l'esistenza delle gravi inadempienze del socio.

L'opposizione alla esclusione deve essere proposta entro il termine di decadenza di trenta giorni, che decorre dalla comunicazione dell'espulsione all'interessato; se, tuttavia, questi presenzi alla relativa adunanza dei soci, il termine decorre dalla data della deliberazione.

La ratio di un così breve termine per aggredire al decisione di esclusione discende dall'interesse del legislatore a non ostacolare oltre ragionevoli limiti di tempo il funzionamento della società. Durante tale periodo, il socio escluso continua a far parte della società; la esclusione, infatti, consoliderà i suoi effetti soltanto allo scadere del predetto termine senza che il socio estromesso abbia proposto opposizione dinanzi al tribunale o la società abbia concluso vittoriosamente con sentenza passata in giudicato il giudizio di opposizione.

Il secondo comma dell'art. 2287 c.c. prevede, altresì, la sospensione dell'efficacia della delibera di esclusione da parte del giudice adito qualora ritenga che ne sussistano i presupposti. In particolare, il giudice, ai fini della decisione sulla sospensione, dovrà limitarsi - come per ogni provvedimento di natura cautelare - a verificare la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora..

La sospensione della decisione ha quale effetto che il socio escludendo, finché dura il procedimento di opposizione davanti al tribunale, continua ad essere socio con tutti i diritti ed i poteri inerenti allo status socii.

La liquidazione della quota del socio uscente

La liquidazione della quota spettante al socio di società di persone che esce dalla società, sia esso receduto, escluso o defunto, trova disciplina nell'art. 2289 c.c. che, al primo comma, recita: “nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota”.

Il termine “soltanto” utilizzato dal legislatore pare doversi interpretare nel senso che il socio o gli eredi (nel caso di scioglimento parziale del rapporto sociale per morte) possono pretendere esclusivamente del denaro, non anche la divisione dei beni immobili, dei macchinari, delle attrezzature e degli altri beni necessari al funzionamento dell'azienda; cioè l'attribuzione della quota in natura, con il conseguente procedimento di divisione. In maniera differente, tuttavia, nonostante il chiaro dettato legislativo, si sono espressi i giudici di legittimità che, con un provvedimento ormai risalente, hanno considerato possibile il soddisfacimento in natura della quota spettante al socio, attraverso attribuzione di parte dei beni sociali, attuandosi, in tale circostanza, un negozio costitutivo di datio in solutum (Cass. 3 aprile 1973, n. 896, in Riv. dir. comm., 1974, II, 181).

Ai sensi del secondo comma dell'art. 2289 c.c., la liquidazione della quota del socio uscente deve essere effettuata sulla base della situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento. Trattasi, quindi, di un bilancio straordinario che deve rispecchiare l'effettiva consistenza del patrimonio sociale, determinato, però, non in base ai criteri dettati per la redazione del bilancio d'esercizio, ma sulla base dei valori effettivi delle attività e delle passività (in questo senso Cass. 18 marzo 2015, in ilcaso.it; App. Genova 17 aprile 2001, in Le Società, 2001, 1358).

In altri termini, la società dovrà procedere alla elaborazione di un documento, rectius situazione patrimoniale:

- alla data di efficacia della causa di scioglimento parziale del rapporto sociale (quindi, in caso di esclusione del socio sarà necessario fare riferimento nell'ipotesi di mancata opposizione o di rigetto della medesima al trentesimo giorno dalla comunicazione al socio estromesso della decisione di esclusione dalla compagine societaria);

- redatta tenendo conto del valore effettivo dei singoli beni che compongono il patrimonio della società, comprensivo, quindi anche del valore di avviamento.

Secondo la S.C., l'onere di provare il valore della quota del socio defunto, ai fini della liquidazione della medesima in favore degli eredi, incombe sui soci superstiti e non agli eredi del socio, dal momento che soltanto i soci rimasti in società sono in grado di dimostrare, con la produzione delle scritture contabili, quale era la situazione patrimoniale nel giorno in cui si è verificato il decesso del socio (Cass. 19 luglio 2018, n. 19305, in Le Società, 2018, 1322).

Il successivo terzo comma dell'art. 2289 c.c. stabilisce, altresì, che qualora vi siano “operazioni in corso”, il socio receduto o escluso o i sui eredi “partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime”.

In assenza di una definizione da parte del legislatore, le “operazioni in corso” sono state definite come qualsiasi situazione che, pur non in atto al momento dello scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, debba considerarsi la conseguenza necessaria ed inevitabile di rapporti giuridici preesistenti, anche qualora la definizione di questi ultimi sia intervenuta successivamente al momento di riferimento della liquidazione della quota (Cass. 28 gennaio 1993, n. 1027, in Le Società, 1993, 1043).

In ogni caso, il pagamento della quota spettante al socio uscito dalla società - o ai suoi eredi - deve essere effettuato entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento (art. 2289, comma 4, c.c.).

Si è discusso, al riguardo, su cui fosse il legittimato passivo nelle azioni giudiziarie aventi ad oggetto la domanda di liquidazione della quota del socio uscente e, conseguentemente, il soggetto sul quale incomba l'obbligo di provvedere a tale pagamento.

Secondo l'opinione prevalente in giurisprudenza - sia di legittimità (Cass. 31 luglio 2020, n. 16556, in ilcaso.it; Cass. 14 febbraio 2018, n. 3674, in Le Società, 2018, 655; Cass. Sez. unite 26 aprile 2000, n. 291, in Giur. comm., 2000, II, 397), che di merito (v. per tutte, Trib. Milano 2 settembre 2003, in Giur. it., 2004, 105; Trib. Milano 26 febbraio 2003, in Le Società, 2003, 1126), la domanda di liquidazione della quota di una società di persone, da parte del socio receduto o estromesso o dei suoi eredi, origina un'obbligazione della società, non degli altri soci, e, quindi, ai sensi dell'art. 2266 c.c., va proposta nei confronti della società medesima, quale unico soggetto passivamente legittimato, senza che vi si necessità di evocare in giudizio i soci diversi da quello uscente.

Responsabilità del socio dopo l'uscita dalla società

Sul socio uscente di società di persone grava la responsabilità – illimitata e solidale – per tutte le obbligazioni sociali sorte fino al momento della efficacia nei confronti dei terzi dello scioglimento del vincolo che legava il socio receduto, escluso o i sui eredi alla società (ad eccezione, ovviamente, del socio accomandante di s.a.s. e degli eredi di questi che, come noto, ha una responsabilità limitata alla quota conferita).

A questo fine, l'art. 2290, comma 1, c.c., dispone che qualora il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali sino al giorno in cui si verifica l'uscita dalla compagine societaria. Lo scioglimento deve essere comunque portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in caso contrario, non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato (art. 2290, comma 2, c.c.).

Al fine di rendere opponibile ai terzi l'uscita della società, si dovrà ricorrere al regime di pubblicità notizia di cui all'art. 2300 c.c., inerente alle modificazioni dell'atto costitutivo - per la cui forma, relativamente alle s.n.c. ed alle s.a.s., è richiesta la scrittura privata autenticata o l'atto pubblico, il quale impone all'organo amministrativo di richiedere entro trenta giorni l'iscrizione delle modificazioni del contratto sociale (nel caso di specie, la cessazione dalla qualità di socio) al competente ufficio del registro delle imprese. Fino a quando non sono state iscritte, le modificazioni dell'atto costitutivo non sono opponibili ai terzi, salvo si provi che questi ne erano a conoscenza (art. 2300, comma 2, c.c.).

Pertanto, nel caso in cui lo scioglimento non sia iscritto al registro imprese, il socio receduto o estromesso e gli eredi del socio defunto rimangono responsabili illimitatamente e solidalmente nei confronti dei terzi anche per le obbligazioni sociali sorte successivamente allo scioglimento del rapporto sociale, con eventuali conseguenze anche nell'ipotesi di fallimento della compagine societaria.

Relativamente alla sorte del socio illimitatamente responsabile il cui rapporto si sia sciolto con la società, poi dichiarata fallita, l'art. 147, comma 1, l. fall., prevede che la sentenza dichiarativa di una società in nome collettivo o di una società in accomandita semplice produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili. Ai sensi del secondo comma dell'art. 147, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili non può, tuttavia, essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale, a condizione che siano state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati.

Alla luce di quanto sopra, pertanto, il fallimento di una s.n.c. e di una s.a.s. origina il fallimento anche degli ex soci, in quanto receduti, esclusi o defunti, sempre che la sentenza sia dichiarata entro l'anno dallo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio e che sia stata data pubblicità allo scioglimento medesimo, adempimento dal quale decorre l'anzidetto termine annuale.

La cessazione del rapporto limitatamente ad un socio non portata a conoscenza dei terzi, a parere dei giudici di legittimità, non è opponibile ai medesimi e non è, altresì, idonea ad escludere l'estensione del fallimento dell'ex socio pronunciata ai sensi dell'art. 147 l. fall., non assumendo rilievo che la causa di scioglimento sia intervenuta oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, posto che il rapporto societario, relativamente ai terzi, a quel momento è ancora in atto (Cass. 8 settembre 2006, 19304, in Mass. giust. civ., 2006, 9).

Riferimenti

Normativi:

  • Artt. 2284 ss. c.c.
  • Art. 2286 c.c.
  • Artt. 2288 ss. c.c.
  • Artt. 2293, 2315

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