L'equo bilanciamento tra la condotta “antisindacale” e le esigenze organizzative dell'imprenditore ex art. 41 Cost.
07 Febbraio 2022
Massima
Non costituiscono espressione di antisindacalità della condotta datoriale – la cui repressione è azionabile con la procedura di cui all'art. 28 Stat. Lav., mirata a garantire una tutela inibitoria e ripristinatoria - quei comportamenti aziendali che si sostanziano in un'estrinsecazione del diritto di libertà di iniziativa economica, di cui all'art. 41 della Carta costituzionale italiana, il cui precetto, sebbene possa subire limitazioni dinanzi ad esigenze di carattere sociale, non può in alcun modo essere vincolato, se non per volontà dell'avente diritto.
Nel caso di specie, il mancato raggiungimento degli obiettivi di cui al Piano Industriale non costituisce espressione di condotta antisindacale da parte del datore di lavoro, non essendo il medesimo fonte diretta di obblighi nei confronti delle parti sociali, avendo la società nell'accordo assunto il solo impegno di effettuare incontri per la verifica dell'attuazione del piano e a non ricorrere, per la gestione degli esuberi, a licenziamenti collettivi entro il termine del 31 dicembre 2020. Solo con riferimento a questa assunzione di obblighi si sarebbe potuto parlare di violazione delle prerogative sindacali integrante una condotta oggettivamente qualificabile come antisindacale; in considerazione del rispetto degli stessi, nessuna condotta assunta dalla datrice può essere qualificata come antisindacale. Il caso
Le ricorrenti agivano in giudizio, con procedimento ex art. 28, Stat. Lav., al fine di ottenere dal Giudice del lavoro apposita tutela inibitoria e ripristinatoria, a fronte della asserita natura antisindacale della condotta posta in essere dalla società convenuta nel giudizio di cui trattasi.
Nel dettaglio, le ricorrenti sostenevano di aver siglato in data 24 luglio 2015 un'ipotesi di accordo quadro relativo al piano industriale 2015/2018 dinanzi al MISE, alla presenza delle Regioni interessate e del Ministro del Lavoro, in cui veniva confermata la presenza degli stabilimenti in tutte le Regioni interessate, l'incremento della capacità produttiva dei siti e venivano fissate alcune mission che gli stabilimenti avrebbero dovuto conseguire nell'espletamento degli obiettivi di cui al piano.
Sin dall'inizio del 2018, la società manifestava la difficoltà mostrata nell'attuazione del piano e di contro, le sigle sindacali ne contestavano i ritardi.
Al termine del 2018, le OO.SS. e la società convenuta, siglavano alla presenza del Ministro dello Sviluppo Economico e dalle Regioni interessate, un'ipotesi di Accordo Quadro, approvata dalle assemblee dei lavoratori, relativa al nuovo Piano Industriale relativo al triennio 2019/2021.
Anche in tale accordo veniva confermata la presenza della società sui siti del territorio, veniva specificata l'apposita mission per la sede di Napoli (costituita dalla produzione di lavatrici frontali ad alta gamma) e veniva confermato, quindi, l'impegno della Whirpool Emea spa a non ricorrere ai licenziamenti collettivi sino al 31 dicembre 2020, se non fondati sulla mancata opposizione dei lavoratori o sul raggiungimento dei requisiti pensionistici.
Date le continue difficoltà riscontrate, il 31 maggio 2019 avveniva un incontro nel corso del quale la Whirlpool annunciava di voler chiudere il sito di Napoli nell'ottobre del medesimo anno; ad esso ne seguivano ulteriori, in cui la società considerava possibili diverse alternative, sino alla decisione del settembre 2019 di voler cedere il ramo d'azienda, con il conseguente invio delle comunicazioni di apertura della procedura ex art. 47 legge n. 428/1990. Successivamente, in data 30 ottobre 2019, la società ritirava la procedura per la cessione del sito di Napoli, manifestando, nel gennaio 2020, la volontà di chiudere lo stabilimento entro il 31 ottobre 2020.
I lavoratori venivano, pertanto, posti nel novembre del 2020 in cassa integrazione a zero ore, fino a quando, decaduto il blocco generalizzato dei licenziamenti per l'emergenza pandemica, il 30 giugno 2021 la società inviava la comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo ex artt. 4 e 24 l. 223 del 1991 per tutti i dipendenti occupati presso lo stabilimento di Napoli.
Le OO. SS. ricorrenti, qualificando gli accordi del luglio 2015 e dell'ottobre 2018 quali accordi gestionali, deducevano quindi che la condotta inadempiente della società aveva leso la loro immagine pubblica, minando l'affidabilità e la credibilità del proprio ruolo contrattuale nei confronti dei lavoratori della Whirpool, nonché di tutti i lavoratori italiani, non avendo avuto la capacità di esigere gli impegni e gli obblighi assunti dall'azienda.
Si costituiva la resistente che contestava in fatto ed in diritto la domanda proposta, chiedendone il rigetto con condanna delle ricorrenti al risarcimento per lite temeraria.
Nel merito, la società sosteneva l'inammissibilità dell'azione proposta, non essendosi verificata alcuna inibizione dell'azione sindacale e contestava la sussistenza dell'inadempimento, rilevando comunque che rispetto al primo accordo, di nulla avrebbero potuto dolersi le ricorrenti, avendo preso atto nel successivo che la società aveva rispettato gli impegni pur non raggiungendo gli obiettivi perseguiti.
Ritenendo dunque insussistenti i presupposti giuridici e fattuali necessari per considerare antisindacale la condotta posta in essere, la resistente concludeva quindi per il rigetto dell'azione proposta. La questione
La questione giuridica oggetto della fattispecie concreta di cui trattasi concerne il delicato tema dell'azione, esperibile a norma dell'art. 28, Stat. Lav., il cui fine è per l'appunto quello di reprimere la condotta antisindacale posta in essere dal datore di lavoro.
Nello specifico, nella norma succitata, il legislatore reprime con uno speciale procedimento i comportamenti del datore di lavoro “diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale, nonché del diritto di sciopero” (art. 28, legge n. 300/1970).
La disposizione de qua ha occupato e tutt'ora occupa una posizione centrale nello sviluppo del diritto sindacale. È di tutta evidenza, infatti, la forte incisività dello strumento, in ragione della circostanza che la giurisprudenza sull'esercizio dei diritti sindacali e sui suoi limiti si è formata pressoché esclusivamente in sede di procedimento ex art. 28 e che il procedimento stesso abbia sostanzialmente assorbito tutti gli altri meccanismi di tutela previsti dallo Statuto dei Lavoratori.
La fondamentale rilevanza della procedura applicabile ex art. 28 Stat. Lav., non si rinviene solo nella natura onnicomprensiva della fattispecie astratta contemplata dalla norma, ma anche nell'elevata estensione del suo ambito di applicazione soggettiva, oltre che nella peculiare ed evidente efficacia che la tutela inibitoria e ripristinatoria comporta, nel fine di tutelare l'interesse sindacale, anche in ragione dell'automatica applicabilità del meccanismo compulsorio penale per garantire l'ottemperanza al provvedimento giudiziale.
Come di certo ben noto, la qualificazione della condotta quale “antisindacale” ha una connotazione teleologica e non analitica, per tanto intendendosi che il Legislatore determina illegittimo un determinato comportamento in ragione dell'idoneità del medesimo a ledere la libertà, l'attività sindacale ed il diritto di sciopero, nella convinzione che queste situazioni soggettive possano essere lese da condotte differenti, non suscettibili di qualificazione per via esemplificativa o tassativa.
Sulla qualificazione della condotta datoriale come antisindacale si è invero più volte espressa la Suprema Corte, la quale ha avuto modo di precisare che il termine “comportamento” abbia carattere piuttosto ampio, includendo non solo atti giuridici, ma anche materiali, inclusi quelli omissivi. E difatti, secondo l'interpretazione fornita dalla Suprema Corte, l'espressione comportamento “diretto a” non è da intendersi come soggettivamente voluto, bastando che lo stesso sia solo oggettivamente idoneo a produrre la lesione dei beni protetti (Cass., sez. un., n. 5295/1997, Cass. n. 3298/2001, Cass. n. 9257/2007).
Per ciò che concerne invece il predicato antisindacale, è bene precisare che non è da considerarsi lecita solo ed unicamente quella condotta che assecondi le posizioni delle organizzazioni sindacali, accogliendone le richieste; è pacifico, infatti, che ciascun datore di lavoro abbia il diritto di perseguire i propri fini, anche se la realizzazione di questi contrasti con l'interesse sindacale. È lecita quindi anche la condotta che contrasti con l'interesse sindacale, restando in capo al datore di lavoro il diritto di perseguire i propri fini e quindi anche di resistere alle rivendicazioni, dal momento in cui l'ordinamento legittima ambedue gli interessi contrapposti, vietando il solo comportamento del datore volto a reprimere o alterare il conflitto, ponendo ostacoli all'azione lecita dei sindacati.
È dunque evidente come la condotta antisindacale interessi, dunque non solo la violazione dei diritti sindacali tipici previsti da fonte legale o negoziale, ma anche qualsiasi atto volto a ledere il diritto al conflitto; si specifica, che infatti proprio la connotazione teleologica della norma abbia determinato un forte sviluppo della casistica giurisprudenziale.
La disamina della questione giuridica oggetto della pronuncia in commento merita altresì brevi considerazioni riguardo la legittimazione attiva dei soggetti idonei a promuovere l'azione finalizzata alla repressione della condotta antisindacale. La norma in esame, infatti, sul tema prevede che il ricorso al Tribunale del lavoro competente in ragione del luogo nel quale è stato realizzato il comportamento “antisindacale”, sia proposto “dagli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse”, ove per organismi locali si intendono le articolazioni più periferiche dei sindacati nazionali, in quanto più idonee a conoscere adeguatamente la condotta del datore di lavoro. Non tutti i sindacati, quindi, possono avvalersi di questo procedimento speciale, ma solo i sindacati nazionali. La ratio di tale scelta è rinvenibile, secondo un orientamento giurisprudenziale pacifico e costante, nella maggiore “responsabilità” di queste organizzazioni e, quindi, nella volontà di non compromettere l'attività dell'azienda.
È invece pacifico che legittimati passivamente siano i datori di lavoro che rispondono anche dei comportamenti antisindacali posti in essere dai propri dipendenti autorizzati all'esercizio dei poteri imprenditoriali.
Come accennato, ulteriore peculiarità di tale procedimento si rinviene nella duplice forma della tutela esplicata dall'esercizio di questa azione. Nel dettaglio, il procedimento ex art. 28 Stat. Lav. mira infatti ad ottenere, da un lato, una tutela inibitoria, riconoscendo il bisogno di protezione preventiva per l'interesse del sindacato, in quanto insuscettibile di adeguata riparazione economica dopo la lesione, e, dall'altro, ripristinatoria, avendo il legislatore riconosciuto la necessità che, di fronte ad un comportamento ancora in corso od ormai compiuto che abbia già prodotto effetti lesivi, venga ordinata la rimozione di questi, con ripristino della situazione precedente l'illecito.
Chiariti dunque i caratteri salienti dell'azione intentata dalle OO.SS ricorrenti nella vicenda oggetto del decreto in commento e chiariti i termini della quaestio iuris sollevata, concernente appunto la qualificazione della condotta della società datrice di lavoro effettivamente idonea a ledere la libertà sindacale, l'azione sindacale o il diritto di sciopero, è bene procedere con l'analisi delle soluzioni giuridiche che sono state elaborate nel decreto in commento e che hanno portato ai termini conclusivi della pronuncia di cui trattasi. Le soluzioni giuridiche
Nella pronuncia oggetto del presente commento, il Giudice adito, nell'esame della questione sottoposta al suo vaglio, rileva la piena legittimità dell'operato datoriale e, dunque, l'insussistenza nel caso concreto della asserita antisindacalità della condotta posta in essere dalla datrice di lavoro.
Nel dettaglio, alla luce del ragionamento giudiziale condotto, pare interessante riflettere innanzitutto sulla qualificazione dei c.d. “Accordi Quadro” stipulati in relazione ai piani industriali triennali redatti con le parti sociali dinanzi al Ministero, sulla effettiva osservanza degli stessi e sulla qualificazione della condotta contrastante con gli obblighi eventualmente sorti, come “antisindacale” o meno.
Come predetto, gli accordi quadro che interessano in relazione alla vicenda oggetto del presente commento, sono stati stipulati rispettivamente per il piano industriale del triennio 2015-2018 e per quello del triennio 2019-2021.
I medesimi avevano ad oggetto una serie di mission che ciascun sito produttivo avrebbe dovuto raggiungere oltre che l'assunzione dell'impegno da parte della società a non promuovere licenziamenti collettivi sino al 31. dicembre 2020, se non alle condizioni previste negli accordi.
Posta tale breve premessa relativa al contenuto degli accordi, ciò su cui pare bene soffermarsi è il contenuto e dunque la natura dei medesimi, al fine di indagare l'effettiva capacità dei medesimi di produrre obblighi ed in tal caso, quali, in capo alla datrice di lavoro, sì da poter comprendere se il mancato rispetto dei medesimi possa o meno qualificarsi come una condotta volta ad ostacolare il libero esercizio dei diritti sindacali da parte dei lavoratori, nonché a ledere la figura delle OO.SS. ricorrenti nel caso oggetto del presente giudizio.
Come ben noto, il procedimento di cui all'art. 28, Stat. Lav., sanziona la condotta che incide in modo diretto su diritti sindacali espressamente riconosciuti dalle fonti collettive, dalla legge o dalla costituzione, ma anche la condotta datoriale che, seppur legittima, appaia diretta al solo fine di impedire, ingiustificatamente, le prerogative del sindacato stesso, danneggiandone l'immagine.
Fermo quanto detto, è bene, in primis, porre alcune considerazioni sulla natura degli accordi stipulati.
Come pacificamente riconosciuto, la contrattazione interviene instaurando, nella parte obbligatoria, rapporti direttamente tra le parti collettive o imprenditoriali ad esso partecipanti e, nella parte normativa, incidendo sui diritti delle parti dei singoli rapporti individuali. Nella relativa parte obbligatoria, dunque, gli accordi assumono una funzione “compositiva” dei conflitti giuridici, attraverso cui le parti dispongono di situazioni giuridiche in atto, come pacificamente riconosciuto dalla Suprema Corte sul tema (Cass., sez. lav., n. 4658/1987).
Alla stregua di ciò, nella fattispecie concreta esaminata, gli accordi quadro in esame (che, si precisa, sono intervenuti a seguito di un'operazione di acquisizione societaria fatta dalla convenuta e della presentazione di un piano industriale per l'integrazione della società acquisita e per la gestione degli esuberi esistenti) costituiscono espressione della concertazione che si esplica attraverso la sottoscrizione di accordi triangolari, cui partecipa anche il Governo, che si impegna al fine di mantenere i livelli occupazionali nell'azienda, con la previsione di incentivi o, anche, mediante la concessione di ammortizzatori sociali di natura conservativa.
È dunque di tutta evidenza come il piano industriale non sia fonte diretta di obblighi nei confronti delle parti, costituendo piuttosto un documento illustrativo, in termini qualitativi e quantitativi, delle intenzioni del management relative alle strategie competitive dell'azienda, ovvero un documento in cui si illustrano le azioni che saranno realizzate per il raggiungimento degli obiettivi strategici.
Prova di tanto è costituita dal tenore letterale dei medesimi; mai all'interno dei suddetti accordi viene utilizzato il verbo “obbligare”, a riprova del fatto che il piano stesso non abbia generato alcun dovere in capo alla società, al di fuori dell'impegno assunto – e rispettato – di non ricorrere per la gestione degli esuberi a licenziamenti collettivi, nello specifico, fino al 31 dicembre 2020, nonché di far ricorso alla rotazione quale criterio da adottare nell'applicazione degli ammortizzatori sociali conservativi.
Ebbene, solo con riguardo a tali assunzioni di impegno si sarebbe potuto parlare, nella sola ed eventuale ipotesi di inadempimento, di una violazione delle prerogative sindacali, tale da integrare una condotta oggettivamente qualificabile come antisindacale.
Invero, come noto, alla luce di un'interpretazione teleologica della norma in esame, la configurabilità di una condotta come antisindacale si verificherebbe o – come nell'ipotesi menzionata - per effetto della violazione degli obblighi sindacali assunti o per effetto dell'osservanza di una condotta che comporta la violazione dei criteri di buona fede e correttezza e si sostanzia nella lesione dell'immagine del sindacato e delle sue prerogative.
Sul punto hanno già, più volte, avuto modo di pronunciarsi le Sezioni Unite della Suprema Corte, esprimendo il principio di diritto, granitico ed imperante sul tema, alla stregua del quale: “Per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate perché consistenti nell'illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l'obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l'effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero” (Cass., sez. un., n. 5295 del 12 giugno 1997).
Dunque, alla luce della regula iuris appena enunciata operante in materia, analizzata la fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, pare evidente come la modifica del piano industriale possa indubbiamente ritenersi lecita, in quanto esplicazione della libertà di iniziativa economica privata, costituzionalmente protetta ex art. 41 Cost, non potendosi nel caso di specie rinvenire alcuna lesione di qualsivoglia prerogativa sindacale in ragione della parziale attuazione del piano industriale di cui di disquisisce. Osservazioni
In conclusione, è interessante osservare come la pronuncia in oggetto ponga in luce gli elementi necessari e sufficienti a qualificare una condotta datoriale come antisindacale o meno e quindi come potenzialmente reprimibile esperendo la procedura di cui all'art. 28 dello Statuto dei Lavoratori.
Come anzidetto, la peculiarità di tale azione si riviene proprio nel singolare meccanismo di tutela dalla stessa innescato che spiega appunto una duplice efficacia, inibitoria e ripristinatoria.
A tal riguardo, è interessante osservare come – nel caso di specie – la suddetta tutela invocata dalle OO.SS. ricorrenti non sia di fatto stata accordata dal Giudice investito della causa di cui trattasi, per aver lo stesso ritenuto insussistenti nel caso di specie i caratteri propri della lesione della libertà sindacale, dell'azione sindacale e del diritto di sciopero, in cui si sostanzia appunto la tutela di cui all'art. 28 Stat. Lav.
Nel dettaglio, essendo evidente l'impegno profuso dalla società nel disporre tutte le condizioni essenziali per l'esecuzione del piano, oltre che nel mantenere i livelli occupazionali elevati, non è stato possibile configurare come “antisindacale” il comportamento osservato dalla società per il solo fatto di non aver proseguito sin dal maggio del 2019 negli investimenti, così come previsto dal piano, e per aver cessato l'attività produttiva nel sito dal primo novembre 2020.
In conclusione, sulla base delle considerazioni che sono state ampiamente argomentate in nota, il Tribunale competente ha valutato e ritenuto che, trattandosi di scelte costituenti estrinsecazione del diritto di libertà di iniziativa economica previsto in Costituzione, che come noto può subire limitazioni per esigenze di carattere sociale, ma non può essere vincolato se non per volontà dell'avente diritto, non potesse rinvenirsi alcuna lesione dell'ampia gamma di prerogative sindacali tutelate dal disposto di cui all'art. 28 Stat. Lav. e che, come tale, la domanda attorea non potesse che ritenersi rigettata.
Per approfondire - Persiani M., Fondamenti di diritto del lavoro, Padova, 2015; - Pessi R., Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2018.
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