I poteri del CTU chiariti dalle Sezioni Unite
07 Febbraio 2022
Le Sezioni Unite, a conclusione di un articolato percorso motivazionale arricchito da un'accurata ricostruzione storica dell'istituto della consulenza tecnica d'ufficio, enunciano cinque principi di diritto.
La questione in lite. Due correntisti citavano in giudizio innanzi al Tribunale di Venezia la propria banca chiedendo che venisse condannata al risarcimento dei danni patiti per effetto di alcune operazioni distrattive poste in essere dal Direttore della filiale di riferimento. In particolare, i clienti eccepivano la falsità delle sottoscrizioni apposte sulla documentazione bancaria attestante le movimentazioni “in uscita” dal conto corrente. La banca si costituiva in giudizio formulando istanza di verificazione ex art. 216 c.p.c. in ragione della quale il Tribunale disponeva consulenza grafologica, poi rinunciata dalla banca medesima. Quest'ultima veniva condannata al risarcimento del danno sulla base delle risultanze di una consulenza contabile nelle more espletata. La Corte di Appello di Venezia, investita del gravame della banca, riformava la sentenza di primo grado rideterminando l'ammontare del danno a carico della banca; in particolare l'importo oggetto di condanna veniva ridotto sottraendo dal calcolo le somme oggetto di movimentazioni “in entrata” sul conto; ciò sulla base degli esiti della consulenza grafologica del primo giudizio che – nonostante la rinuncia della banca – era stata comunque depositata e aveva appunto accertato la falsità delle sottoscrizioni apposte sulle contabili di dette movimentazioni “in entrata”. I clienti avanzavano ricorso per cassazione lamentando, per quel che qui rileva, l'erroneità della sentenza nella parte in cui la Corte d'Appello aveva: 1) ritenuto utilizzabili le risultanze trasfuse nella CTU grafologica, perché «in assenza di verificazione della sottoscrizione disconosciuta la stessa deve necessariamente essere considerata apocrifa»; 2) determinato l'ammontare del danno considerando non solo le contabili di pagamento in uscita dal conto corrente disconosciute ma anche quelle in entrata di cui la CTU grafologica, pur in assenza di disconoscimento, aveva accertato l'apocrifia.
La valenza probatoria del documento oggetto di disconoscimento. La Prima Sezione della Suprema Corte rilevava la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale in relazione alla seconda questione sollevata dai ricorrenti. Nella considerazione della “notevole rilevanza sistematica” della stessa, la causa veniva rimessa alle Sezioni Unite. La motivazione offerta dalle Sezioni Unite è ampia e articolata; ai fini del presente contributo, se ne indica una sintesi dei passaggi di maggiore interesse. Quanto alla prima questione, ad avviso della Corte Suprema il ricorso è fondato in quanto: a) l'art. 216 c.p.c. subordina l'efficacia probatoria della scrittura privata prodotta in giudizio oggetto di disconoscimento alla proposizione dell'istanza di verificazione da parte di colui che intende valersene. Secondo orientamento consolidato di legittimità l'efficacia probatoria di una scrittura privata è invero condizionata dal fatto che sia stata giudizialmente riconosciuta come proveniente da colui contro il quale è prodotta in giudizio, sicché, ove non si versi in ipotesi di sottoscrizione autenticata, la negazione, da parte dell'interessato, che la sottoscrizione è la propria impone alla parte che intende valersi della scrittura di dimostrarne la provenienza mediante il procedimento di verificazione, la cui mancata proposizione equivale, per presunzione assoluta di legge, ad una dichiarazione di non volersi avvalere della scrittura come mezzo di prova (Cass., 20 novembre 2017, n. 27506; Cass., 8 gennaio 1994, n. 155; Cass., 12 luglio 1984, n. 4094); b) poiché a mente dell'art. 216 c.p.c. solo la parte a cui è opposto il disconoscimento, e che intende avvalersi come mezzo di prova della scrittura privata disconosciuta, è onerata dalla proposizione dell'istanza di verificazione della scrittura stessa, la conseguenza dalla mancata proposizione di detta istanza, pur se non legittima la parte che ha effettuato il disconoscimento a trarre dalla mancata proposizione dell'istanza di verificazione elementi di prova a sé favorevoli (Cass. civ., n. 2220/2012), non determina, tuttavia, a carico della parte che lo effettua l'inefficacia del detto disconoscimento ed il conseguente tacito riconoscimento della scrittura prodotta (Cass. civ., n. 14475/2009); c) se è vero, infatti, che la mancata proposizione dell'istanza di verificazione, privando il documento disconosciuto di ogni inferenza probatoria, ne preclude al giudice la valutazione ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. civ., n. 2347/1987), senza che gli sia consentito maturare altrimenti il giudizio sulla sua autenticità in base ad elementi estrinseci alla scrittura (Cass. civ., n. 3962/1976) o ad argomenti logici (Cass. civ., n. 4094/1984), è però altresì innegabile che tale effetto si mostra pregiudizievole soprattutto per la parte che ha prodotto detto documento e che, non chiedendone la verificazione, non può giovarsi dell'efficacia probatoria a proprio vantaggio che da esso promanerebbe se non fosse stato disconosciuto. In sintesi, un documento disconosciuto che non sia fatto oggetto di istanza di verificazione resta una prova muta e non può formare oggetto di alcun apprezzamento, con l'effetto che non potrà perciò andare esente da emenda la sentenza che, come quella gravata, abbia ritenuto di fondare su di esso il proprio deliberato; d) in ordine alla fattispecie concreta, rileva poi la Corte come sussista una sostanziale equivalenza di effetti tra mancata proposizione dell'istanza di verificazione e rinuncia alla stessa, posto che nell'uno e nell'altro caso è preclusa la maturazione di un giudizio di certezza sul punto, vuoi perché, di fronte al disconoscimento dell'efficacia probatoria operatane dalla controparte, si desiste a priori dal dimostrare l'autenticità del documento, vuoi perché, a procedimento avviato, successive ragioni di convenienza ne sconsigliano il proseguimento.
Il perimetro dei poteri del CTU. Quanto invece alla seconda questione sollevata nel ricorso – sulla quale la Prima Sezione aveva rilevato la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale – osservano i Giudici che benché il ricorso sul punto sia inammissibile per come formulato, ciò tuttavia non dispensa le Sezioni Unite dall'affrontarlo in ragione della particolare rilevanza della questione medesima e della facoltà della Corte di Cassazione di pronunciare il principio di diritto nell'interesse della legge.
La Corte affronta dunque la complessità della questione prospettata ponendosi preliminarmente alcuni quesiti che possono essere così sintetizzati: 1) che cosa può fare o non può fare il CTU nell'espletare l'incarico affidatogli? 2) quali sono i poteri esercitabili dal CTU sotto il profilo delle preclusioni cui va incontro l'attività assertiva e deduttiva delle parti? 3) le regole dettate per l'esame contabile hanno o meno portata derogatoria rispetto alle regole cui va invece ordinariamente soggetta l'attività delle parti? 4) quali conseguenze processuali discendono dall'eventuale sconfinamento di poteri del CTU?
Delimitato in tal modo il campo di indagine, il ragionamento della Corte muove innanzi tutto dalla constatazione che nel codice attuale la consulenza tecnica rappresenta uno strumento a disposizione del giudice, a cui il giudice medesimo, senza essere in ciò minimamente condizionato dalla volontà delle parti, può ricorrere ogni qualvolta reputi necessario ai fini della definizione della lite l'acquisizione di conoscenze specifiche che esulano dal sapere comune poiché postulano una particolare competenza tecnica che egli non possiede. All'investitura pubblicistica del CTU che prende forma negli artt. 61 e ss. c.p.c. si affianca sul piano ordinamentale l'oggettiva convergenza di funzioni tra giudice e consulente tecnico, rivelandosi infatti le attività di entrambi, quando beninteso il primo giudichi necessaria quella del secondo, complementari ai fini dell'ufficio giurisdizionale. Ad avviso delle Sezioni Unite è pacifico che, stante il potere del CTU di procedere nei limiti dei quesiti sottopostigli alla investigazione dei fatti accessori, costui possa estendere il proprio giudizio anche ai fatti che, pur se non dedotti dalle parti, siano pubblicamente consultabili, non essendovi ragione di vietare in tal caso al CTU, pur se ne maturi la conoscenza aliunde, di esaminare i fatti conoscibili da chiunque, così come è pacifico che l'attività consulenziale possa indirizzarsi anche in direzione dell'accertamento dei fatti accessori allorché, pur non costituendo oggetto di espressa indicazione, essi risultino in qualche modo già ricompresi nelle allegazioni delle parti, in quanto, fermo il fatto costitutivo o, diversamente, modificativo od estintivo dedotto dalla parte, il fatto accessorio accertato dal CTU nel corso delle indagini affidate dal giudice, corrobori indirettamente l'assunto fatto valere con la domanda o con l'eccezione. Le Sezioni Unite, dopo aver rimarcato – come raccomandazione di carattere generale e, di più, come condizione irrinunciabile per consentire al consulente l'esame di fatti e documenti non oggetto di rituale deduzione delle parti – che nell'espletamento delle attività demandategli il consulente tecnico nominato dal giudice deve attenersi al più fedele e scrupoloso rispetto del principio del contradditorio, rilevano che, come il giudice, così anche il consulente non potrà deflettere nell'attività che comporta l'accertamento dei fatti e la raccolta dei documenti significativi ai fini dell'espletamento del mandato peritale, la cui introduzione nel giudizio non è rituale opera di parte, dalla necessità che su di essi il confronto tra le parti si esplichi nel modo più idoneo a garantirne il diritto di difesa. E qualora il CTU, nei limiti delle indagini commessegli dal giudice, estenda il perimetro delle proprie attività e proceda ad accertare fatti non oggetto di diretta capitolazione di parte o ad esaminare documenti non introdotti nel giudizio delle parti, senza darsi previamente cura di attivare su di essi il necessario confronto processuale, costui non lede un interesse del processo, in guisa del quale quella attività possa giudicarsi affetta da un vizio di nullità assoluta, ma lede un interesse, pur primario delle parti in quanto posto a tutela del diritto di difesa delle medesime, di cui le parti possono tuttavia pur sempre disporre, poiché compete solo a loro il potere di farne valere la violazione e di eccepire la nullità dell'atto che ne è conseguenza ex art. 157, comma 2, c.p.c. Quando poi la consulenza affidata al perito indaghi su temi estranei all'oggetto della domanda e pervenga al risultato di stimare la fondatezza della pretesa esercitata dall'attore in base a fatti diversi da quelli allegati introduttivamente dal medesimo, l'accertamento così operato si colloca al di fuori dei limiti della domanda e contrasta, dunque, con essa, scaturendone perciò una ragione di nullità che, in quanto afferente alla sfera dei poteri legittimamente esercitabili dal giudice, è rilevabile d'ufficio o che, diversamente, può farsi valere quale motivo di impugnazione ai sensi dell'art. 161 c.p.c.
I principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite. A conclusione dell'articolato e complesso percorso motivazionale sopra sintetizzato, le Sezioni Unite hanno enunciato i seguenti principi di diritto:
(Fonte: Diritto e Giustizia) |