Obbligo vaccinale a chi ha superato il cinquantesimo anno di età: questioni controverse

Maurizio Hazan
10 Febbraio 2022

Il d.l. 7 gennaio 2022, n. 1 ha esteso l'obbligo vaccinale anche ai cittadini italiani e di altri Stati membri dell'Unione europea residenti nel territorio dello Stato, nonché ai cittadini stranieri di cui all'art. 34 d.l. n. 286/1998, che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età. Questo ha subito sollevato discussioni e innescato reazioni disparate.
Introduzione

Il decreto legge 7 gennaio 2022, n. 1 recante “Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza COVID-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore” ha esteso l'obbligo vaccinale - già previsto dal d.l. 1° aprile 2021 n. 44 (convertito con modificazioni dalla l. 28 maggio 2021 n. 76) per i sanitari, il personale scolastico, le forze dell'ordine, e le altre categorie specificamente indicate dagli artt. 4-bis e 4-ter - anche ai «cittadini italiani e di altri Stati membri dell'Unione europea residenti nel territorio dello Stato, nonché ai cittadini stranieri di cui all'art. 34 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età

»

, inserendo un apposito articolo 4-quater.

La norma ha subito sollevato discussioni e innescato reazioni disparate, a conferma del fatto che la complessità del tema trattato, ponendosi al crocevia tra le libertà individuali e l'urgenza di salvaguardare la salute di tutti, assorbe e riflette la varietà dei punti di vista, prestandosi a facili fraintendimenti ed a possibili polemiche.

Lo spettro delle opinioni abbraccia molteplici opzioni e traccia una circonferenza ad ampio raggio: da un lato, si insinuano le critiche di chi avrebbe preferito un obbligo generalizzato (non limitato agli ultracinquantenni); all'estremità opposta, si addensano le censure di quanti ritengono di vedere, nell'iniziativa assunta dal Governo, seri profili di illegittimità (più o meno argomentati).

Chi scrive non intende entrare nel merito del dibattito – e delle ragioni etiche, politiche, sociali che stanno sullo sfondo di tali contrapposizioni -, ma vuole solo cercare di individuare le coordinate giuridiche, si direbbe “minime”, per provare a navigare in siffatti marosi.

Tenteremo allora di tracciare alcuni “punti” prendendo le mosse dalle questioni che in vario modo sono state poste.

Consenso e vaccinazione obbligatoria

Tra le opinioni che hanno trovato eco sui quotidiani vi è quella di chi ritiene che il vaccino anti Covid-19 non si possa imporre agli over 50 senza una “revisione del consenso informato”. A prescindere dalle ragioni (invero non chiare) che supporterebbero tale posizione, pare a chi scrive che la questione sia mal posta.

L'art. 4-quater , unitamente agli artt. 4, 4-bis e 4-ter del d.l. n. 44/2021, stabilisce che, per determinati soggetti, la vaccinazione è “obbligatoria”.

Ciò significa che, per le persone che appartengono alle categorie specificamente indicate, il consenso non è affatto richiesto né necessario.

Questa prima - laconica e lapidaria - conclusione potrebbe sembrare (specie agli occhi dei più agguerriti contestatori che gridano allo scandalo sulle pagine del web) come un inaccettabile attentato alle libertà individuali, da considerare, sic et simpliciter, come una vera e propria prevaricazione, se non addirittura come una persecuzione.

La verità, però, sembra essere diversa. È la stessa Costituzione che, nel tutelare all'art. 32 la salute come «fondamentale diritto dell'individuo» e, al tempo stesso, come «interesse della collettività», ammette che si possa essere obbligati ad un determinato trattamento sanitario, purché ciò sia stabilito dalla legge e, in ogni caso, entro i limiti del «rispetto della persona umana».

La Consulta si è pronunciata più volte in merito al fondamento ed alla portata della norma; nella sentenza n. 5 del 2018 (con la quale ha ritenuto infondate le questioni di illegittimità sollevate in relazione alla l. n. 119/2017, che ha reso obbligatorie alcune vaccinazioni per i minori da zero a 16 anni), essa ha ribadito quanto segue: «Occorre anzitutto osservare che la giurisprudenza di questa Corte in materia di vaccinazioni è salda nell'affermare che l'art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l'interesse della collettività (da ultimo sentenza n. 268 del 2017), nonché, nel caso di vaccinazioni obbligatorie, con l'interesse del bambino, che esige tutela anche nei confronti dei genitori che non adempiono ai loro compiti di cura (ex multis, sentenza n. 258 del 1994). In particolare, questa Corte ha precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell'ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)».

A parere di chi scrive, l'emergenza Covid, che ci vede alle prese con la quarta ondata e con l'impennata dei contagi – ben giustifica quel contemperamento di interessi che trova la sua sintesi nella necessità, espressa dallo stesso art. 4-quater d.l. n. 44/2021, di “tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza». E va rimarcato che la norma comunque “cancella” l'obbligo laddove ricorrano le “controindicazioni” di cui al comma 2 (Art. 4 quater comma 2 : «L'obbligo di cui al comma 1 non sussiste in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale dell'assistito o dal medico vaccinatore, nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2; in tali casi la vaccinazione può essere omessa o differita. (..)»).

Previsione, questa, che appare del tutto in linea con l'insegnamento della Consulta, Corte Cost. n. 307/1990, secondo cui il trattamento non deve incidere «negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili» (si pensi, in merito a queste ultime, alla febbre, al fastidio al braccio dopo l'iniezione, che sono i più comuni “effetti collaterali” dei vaccini anti Covid-19).

È appena il caso di osservare che, oltre al tema della “immunità di gregge” (in ragione della quale, maggiore è la percentuale di persone vaccinate, minore è la capacità di diffusione del virus), a venire prepotentemente alla memoria sono le immagini e le cronache di quei mesi terribili del 2020 in cui i sanitari hanno dovuto fare i conti con il cd. “last bed dilemma”.
È evidente che una inarrestabile propagazione dei contagi rischia di mettere a repentaglio la vita dei più fragili: se dovessero ripetersi gli scenari a cui abbiamo assistito agli esordi della pandemia, non vi sarebbero presìdi e personale a sufficienza per accogliere chi ha bisogno di cure (e ci riferiamo non solo alle potenziali nuove vittime del Covid, ma anche a tutti coloro che hanno altri gravi problemi di salute, che vedrebbero compromesse le possibilità terapeutiche a causa dell'intasamento dei reparti e della contrazione dei servizi disponibili).

Si tratta quindi di una logica non egoistica ma, al contrario, solidaristica, che trova il proprio pendant (come si dirà infra) nella necessità di prevedere un indennizzo – strumento che già esiste nell'ordinamento (l. n. 210/1992 - L. 229/2005) - per chi abbia subito danni in conseguenza dell'adempimento dell'obbligo; ciò al fine di «compensare il sacrificio individuale ritenuto corrispondente a un vantaggio collettivo» (Corte Cost. 107/2012).

Anche la Cassazione, nella cornice generale di tali principi, ha in diverse occasioni chiarito come i trattamenti sanitari obbligatori costituiscano (insieme alle ipotesi di urgenza che pongano in gravissimo pericolo la sopravvivenza della persona) una palese deroga alla regola del consenso.

Cass. 28 luglio 2011 n. 16543: «Come già posto in rilievo, la mancanza di richiesta del consenso informato costituisce violazione del diritto inviolabile della persona a vedere tutelato il suo diritto alla salute con la dignità propria dell'essere persona. La richiesta va sempre e comunque fatta a meno che non si tratti di caso di urgenza o di trattamento sanitario obbligatorio. (..). Il giudice del rinvio valuterà le domande proposte dagli attuali ricorrenti alla luce del principio secondo cui il diritto al consenso informato, in quanto diritto irretrattabile della persona va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti, a seguito di un intervento concordato e programmato e per il quale sia stato richiesto e sia stato ottenuto il consenso, che pongano in gravissimo pericolo la vita della persona, bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell'ordine giuridico e del vivere civile, o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio».
Cass. civ., sez. III, 6 ottobre 2021, n. 27109: «Il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all'espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico (cfr. Corte Cost., 23 dicembre 2008, n. 438), e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente (v. Cass., 6 giugno 2014, n. 12830), atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (anche quest'ultima non potendo in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: art. 32 Cost., comma 2). (…) In mancanza di consenso informato l'intervento del medico è (al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge è obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità) sicuramente illecito, anche quando sia nell'interesse del paziente (v. Cass., 8 ottobre 2008, n. 24791), l'obbligo del consenso informato costituendo legittimazione e fondamento del trattamento sanitario (v. Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748)».

In conformità a tale quadro, la dottrina (K. Mascia, Prestazione del consenso informato in ambito di vaccinazioni obbligatorie, in Danno e responsabilità 5/2019) ha evidenziato che «In altre parole, i casi di trattamenti sanitari obbligatori e le ipotesi di interventi d'urgenza possono costituire eccezioni al principio generale in base al quale nel nostro ordinamento nessun trattamento sanitario può essere effettuato in assenza del consenso esplicito del paziente, il quale deve autodeterminarsi consapevolmente e liberamente, senza alcuna costrizione. Concludendo, in tema di vaccinazioni obbligatorie, l'obbligo di provvedere da parte del medico trova la sua fonte diretta nella legge. Pertanto, il medico, al pari dei trattamenti effettuati in stato di necessità o in presenza di situazione di urgenza, potrebbe prescindere dal consenso informato del paziente».

La sintesi normativa di tali regole si trova, del resto, racchiusa nell'art. 1 della legge 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) che – nel tradurre in ius positum il percorso tracciato dalla giurisprudenza negli ultimi decenni– esordisce in questi termini (il corsivo è nostro): «Art. 1. Consenso informato. La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'auto-determinazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge».

Il quadro così delineato è stato ben colto anche dalla più attenta dottrina (P. Veronesi, L'obbligo vaccinale anti-Covid per chi opera nella sanità: le ragioni costituzionali di una (legittima) scelta legislativa (come quella del green pass), in Studium Iuris, 11/2021, 1309) che, con riferimento all'obbligo introdotto già dall'art. 4 del d.l. n. 44/2021 per il personale sanitario, ha osservato: «In primo luogo, è evidente come l'art. 4 in oggetto delinei, senza alcun dubbio, un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) circoscritto a chi svolge talune attività nel campo della salute», precisando altresì che «I TSO previsti dalla legge configurano dunque i margini del limite opposto all'autodeterminazione individuale in materia di salute, ossia il limitato spazio del “dovere di curarsi”, collocabile in un ordinamento che assegna al consenso informato l'indiscusso rango di un diritto fondamentale accanto agli altri. E, assieme ai TSO, andranno senz'altro collocati, in questo stesso ambito, i trattamenti sanitari autenticamente “coattivi” (così definiti in quanto prevedono addirittura l'uso della forza ove il destinatario li rifiutasse): essi tuttavia non rilevano ai fini del nostro discorso (essendo questi ben “altro” e “di più” rispetto a quanto prescritto dal d.l. n. 44)».

Laddove la vaccinazione sia obbligatoria non ha dunque molto senso lamentare la mancata acquisizione del consenso, e pretendere, per ciò solo, che abbiano a sorgere ipotetici diritti risarcitori.

Lo Stato ha ritenuto di imporre la immunizzazione al fine di contemperare il diritto dei singoli con l'interesse della collettività; e nel fare ciò si è mosso lungo coordinate che non sono affatto nuove né extravagantes. E tanto meno – a parere di chi scrive – irrazionali, conto tenuto delle acquisizioni scientifiche disponibili, che secondo la Corte Costituzionale rappresentano l'imprescindibile guida del Legislatore.

Nella decisione n. 5/2018 la Consulta ha sottolineato che: «Il contemperamento di questi molteplici principi lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell'obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l'effettività dell'obbligo. Questa discrezionalità deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 2017), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell'esercizio delle sue scelte in materia (così, la giurisprudenza costante di questa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002)».

Oltremodo interessante è il profilo della sicurezza dei vaccini, sui cui la Corte Costituzionale n. 5/2018 (sempre nell'ambito della questione di legittimità della l n. 119/2017) ha ritenuto di soffermarsi: «Tuttavia, negli anni più recenti, si è assistito a una flessione preoccupante delle coperture, alimentata anche dal diffondersi della convinzione che le vaccinazioni siano inutili, se non addirittura nocive: convinzione, si noti, mai suffragata da evidenze scientifiche, le quali invece depongono in senso opposto. In proposito, è bene sottolineare che i vaccini, al pari di ogni altro farmaco, sono sottoposti al vigente sistema di farmacovigilanza che fa capo principalmente all'Autorità italiana per il farmaco (AIFA). Anche per essi, come per gli altri medicinali, l'evoluzione della ricerca scientifica ha consentito di raggiungere un livello di sicurezza sempre più elevato, fatti salvi quei singoli casi, peraltro molto rari alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, nei quali, anche in ragione delle condizioni di ciascun individuo, la somministrazione può determinare conseguenze negative. Per tale ragione l'ordinamento reputa essenziale garantire un indennizzo per tali singoli casi, senza che rilevi a quale titolo - obbligo o raccomandazione - la vaccinazione è stata somministrata (come affermato ancora di recente nella sentenza n. 268 del 2017, in relazione a quella anti-influenzale). Anzi, paradossalmente, proprio il successo delle vaccinazioni, induce molti a ritenerle erroneamente superflue, se non nocive: infatti, al diminuire della percezione del rischio di contagio e degli effetti dannosi della malattia, in alcuni settori dell'opinione pubblica possono aumentare i timori per gli effetti avversi delle vaccinazioni (…)».

Vaccinazioni raccomandate e consenso viziato?

Un altro filone di critica, nel rilevare come la vaccinazione (per le categorie per cui non è obbligatoria) sia, di fatto, presupposto imprescindibile per ottenere il Super green pass, sostiene che il consenso (qui necessario) prestato dall'interessato sarebbe comunque ineludibilmente viziato, in quanto ab origine non libero (ma appunto coartato al fine di poter svolgere attività lavorative, ricreative, di socializzazione ecc..). Il fatto che manchi una consapevole ed incondizionata accettazione offrirebbe il destro per alimentare possibili contenziosi: la persona che abbia a subire eventi avversi in conseguenza della somministrazione vanterebbe, per ciò solo, il diritto ad un pieno ristoro del danno.

A noi pare che una simile impostazione non colga nel segno: non ha molto senso parlare di estorsione del consenso in un contesto caratterizzato da una emergenza pandemica mondiale. Tanto più che, ragionando empiricamente, non pare azzardato sostenere che chi si rechi presso un punto vaccinale lo faccia per scelta consapevole già elaborata, potendo disporre, in questi mesi di straordinario battage mediatico, di tutti gli elementi occorrenti per valutare il da farsi.

Ma se anche si volesse dire che la vaccinazione raccomandata è, in realtà, di fatto obbligatoria, essa troverebbe comunque la propria giustificazione in quel patto di solidarietà ben descritto dalla Corte Costituzionale, in forza del quale la libertà individuale deve pur sempre fare i conti con il rispetto di quella altrui, e con la necessità di tutelare chi è più debole e fragile. Del resto, è la stessa Consulta a precisare che «non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione: l'obbligatorietà del trattamento vaccinale è semplicemente uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione» (Corte Cost. 14 dicembre 2017, n. 268).

Tra i più autorevoli commentatori, vi è chi ha sottolineato (S. Cassese, Presidente emerito della Corte Costituzionale, in una intervista rilasciata a G. Puletti, Il Dubbio 23 luglio 2021) che, in merito al Green pass «È certamente possibile stabilire requisiti per l'accesso in certe zone o luoghi di lavoro. La possibilità di disporre trattamenti sanitari obbligatori generali, il rimedio più generalizzato, contiene la formula più limitata».

Volendo allora ribaltare le critiche ed il punto di vista, resterebbe da chiedersi se la pretesa di tranquillamente accedere a teatri e ristoranti ecc. senza essere immunizzati non possa, per converso, essere letta come un attentato (consapevole) ai diritti degli altri.

Illuminante è la sentenza della Corte Costituzionale n. (Corte cost., 2 giugno 1994, n. 218), che rileva: «La tutela della salute non si esaurisce tuttavia in queste situazioni attive di pretesa. Essa implica e comprende il dovere dell'individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell'eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell'interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari. Situazioni di questo tipo sono evidenti nel caso delle malattie infettive e contagiose, la cui diffusione sia collegata a comportamenti della persona, che è tenuta in questa evenienza ad adottare responsabilmente le condotte e le cautele necessarie per impedire la trasmissione del morbo. L'interesse comune alla salute collettiva e l'esigenza della preventiva protezione dei terzi consentono in questo caso, e talvolta rendono obbligatori, accertamenti sanitari legislativamente previsti, diretti a stabilire se chi è chiamato a svolgere determinate attività, nelle quali sussiste un serio rischio di contagio, sia affetto da una malattia trasmissibile in occasione ed in ragione dell'esercizio delle attività stesse».

Nel caso di specie la Consulta ha ritenuto fondata la questione di legittimità sollevata dal Pretore in relazione all'art. 5, comma 3 e 5, l. 5 giugno 1990, n. 135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l'AIDS), nella parte in cui non prevedeva accertamenti sanitari dell'assenza di sieropositività all'infezione da HIV come condizione per l'espletamento di attività che comportano rischi per la salute dei terzi (a venire in linea di conto erano mansioni di assistenza svolte sulle persone di ricoverati non autosufficienti). In tale pronuncia la Corte considera dunque ammissibile l'introduzione di un onere (sottoporsi allo screening), quale presupposto indispensabile per poter svolgere professioni che comportano rischi per la salute di terzi: chi non intenda prestare il proprio consenso, dovrà fare a meno di svolgere quella attività.

Osserva la Corte: «In particolare nell'assistenza e cura della persona, attività prese in considerazione nel giudizio che ha determinato l'insorgere della questione di legittimità costituzionale, sono necessari, come condizione per espletare mansioni che comportano rischi per la salute dei terzi, accertamenti sanitari dell'assenza di sieropositività all'infezione da HIV del personale addetto, a tutela del diritto alla salute dei destinatari delle prestazioni. Nella parte in cui non prevede tale onere, l'art. 5, comma 3 e 5, l. 5 giugno 1990, n. 135 è in contrasto con l'art. 32, comma 1, della Costituzione» (Corte cost., 2 giugno 1994, n. 218).

Del resto, c'è un dato obiettivo che induce a qualche riflessione, se non altro sul piano “sociale”, ed esprime il punto di vista dell'osservatore esterno: l'infuocata polemica di fronte alla introduzione dell'obbligo e la esasperata accentuazione dei “pericoli” della vaccinazione stridono un poco – anzi, davvero non si conciliano – con l'opposto clamore che, nemmeno un anno fa, suscitò la cd. “corsa dei furbetti”, in qualche modo resa possibile dalle maglie “allargate” nella definizione delle categorie di priorità stabilite dal documento del Ministero della Salute “Raccomandazioni ad interim sui gruppi target” dell'8 febbraio 2021 (tra cui figurava genericamente, in chiusura, il “personale di altri servizi essenziali”).

In quella occasione, la levata di scudi si concentrò sul senso di irresponsabilità di quanti anteposero la propria salute a quella degli altri, “scavalcando” le categorie dei più bisognosi pur di accaparrarsi la dose.

Allora, l'obbligo per gli ultracinquantenni ancora non c'era; ma il fenomeno è interessante perché potrebbe indurre a pensare che, nel sentire dei più, la vaccinazione fosse non una “coercizione” (anche solo indiretta), quanto piuttosto uno strumento di salvezza, date le circostanze.

E questa apparente contraddizione che si muove lungo la linea del tempo potrebbe forse restituire l'eco di un sentimento unitario, quasi egoistico, che si pone agli antipodi di quel patto di solidarietà invocato dalla Consulta: perché, per riprendere le parole di un noto giornalista (M. Gramellini, Altro (e gli Altri), in Il Corriere della Sera, 9 aprile 2021), «(..) in Italia la stessa parola che al singolare occhieggia e istiga al privilegio, al plurale assume un significato decisamente ostile e definisce quel conglomerato alieno di persone che non sono né miei parenti né miei sodali».

Vaccinazione obbligatoria e informazione

a) È comunque necessario informare?

Una volta chiarito che, in caso di vaccinazione obbligatoria, il consenso non è richiesto né necessario, resta da chiedersi se l'informativa (sui rischi, sulle conseguenze, ecc.) della inoculazione del farmaco debba comunque essere garantita. A noi pare che il quesito meriti risposta positiva.

E ciò per imprescindibili finalità di trasparenza, oltre che per il necessario rispetto dei diritti della persona: è giusto che il paziente sappia a quale tipo di trattamento viene sottoposto e cosa si deve attendere (in relazione ai possibili effetti, anche di modesto impatto). E ciò anche al fine di consentirgli di disporre di tutti gli elementi utili in vista di una (seppur remota) complicanza.

Del resto, la stessa Cassazione ha avuto modo di evidenziare che il diritto alla informazione è distinto ed autonomo rispetto a quello dell'autodeterminazione: il che induce a concludere che il primo esiste indipendentemente dalle possibilità di esercizio del secondo.

Cass. civ., sez. III, 9 novembre 2021, n. 35648 al punto 4.3 della motivazione osserva: «Nè, d'altronde, esonerava la C. dall'obbligo informativo l'asserto che la labiopalatoschisi non avrebbe potuto giustificare l'interruzione volontaria della gravidanza, perché sotto il profilo in esame del diritto all'informazione, per quanto poi correlato nel caso de quo all'ulteriore profilo del diritto all'aborto, non si tratta affatto di rispetto al diritto all'autodeterminazione, il diritto all'informazione essendone ictu oculi ontologicamente diverso (cfr. ex multis sul diritto all'informazione medica Cass. civ., sez. III, 19 marzo 2018 n. 6688, Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019 n. 28985 e Cass. civ., sez. III, 15 novembre 2019 n. 29709).
E ciò, appunto, a prescindere dal fatto che, nel caso in esame, un'ulteriore e migliore ecografia avrebbe potuto eventualmente rinvenire dati tali, in termini di malformazione del nascituro, da giustificare l'applicazione della l. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b) (…)».

Pare dunque a chi scrive che l'informazione debba essere comunque data, a prescindere dal fatto che l'interessato abbia la possibilità di scegliere se sottoporsi o meno al trattamento.

Una conferma in tal senso deriva dalla Circolare del Ministero della Salute 16 agosto 2017 emanata in attuazione della l. n. 119/2017 (che ha introdotto alcune vaccinazioni obbligatorie per i minorenni da o a 16 anni), e in particolare dall'ultima parte dell'art. 10 di cui si riporta il testo (le sottolineature sono nostre): «10. (Ottimizzazione dell'offerta vaccinale) Uno dei pilastri che supporta l'offerta vaccinale nel nostro Paese è la facilità di accesso alle vaccinazioni in virtù della capillare distribuzione sul territorio delle Aziende Sanitarie. Pertanto, si raccomanda alle Regioni e alle ASL di semplificare le procedure per l'accesso alle vaccinazioni.
Sebbene questo tema sia diffusamente trattato nel PNPV, si ritiene opportuno sintetizzare alcuni punti fondamentali utili per l'attuazione della legge sull'obbligo vaccinale:

• I Dipartimenti di Prevenzione devono mantenere il ruolo centrale di governance dei programmi di vaccinazione, coordinando le strategie e le campagne vaccinali, offrendo le vaccinazioni e supervisionando la medicina territoriale eventualmente coinvolta, come tra l'altro previsto sia dal Piano Nazionale di Prevenzione 2014-2018 che dal Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale 2017-2019.

• Le buone pratiche vaccinali prevedono che i genitori/tutori/affidatari siano informati sui benefici e sui rischi della vaccinazione e che, alla fine di questo colloquio, venga consegnato un modulo in cui si attesta che è stato eseguito questo passaggio. Questo modello informativo, in presenza di una vaccinazione raccomandata, ha assunto una valenza di consenso informato, ovvero di scelta consapevole a una vaccinazione raccomandata. Alla luce del decreto-legge in epigrafe, si precisa che il modulo di consenso informato dovrebbe essere limitato alle sole vaccinazioni raccomandate; per le vaccinazioni obbligatorie verrà consegnato esclusivamente un modulo informativo».

Il carattere ineludibile della informazione, pur in presenza di un trattamento sanitario obbligatorio, sembra in ogni caso evincersi, in termini generali, dallo stesso art.3l3 Legge n. 833/1978 , a mente del quale:

«(..)Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. L'unità sanitaria locale opera per ridurre il ricorso ai suddetti trattamenti sanitari obbligatori, sviluppando le iniziative di prevenzione e di educazione sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità».

In merito alla norma, la dottrina (P. Veronesi in Studium Iuris 11/2021, 1309) ha osservato che: «Nei commi successivi (ndr. dell'art. 33 l. n. 833/1978), si precisa tuttavia che, quando risulti indispensabile prescrivere dei TSO, occorrerà che i trattamenti siano sempre “accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”, così che l'azione dell'ASL sia comunque tesa a “ridurre il ricorso ai suddetti trattamenti sanitari obbligatori, sviluppando le [opportune] iniziative di prevenzione e di educazione sanitaria” (comma 5). Si profila in tal modo un graduale di avvicinamento delle autorità al soggetto su cui grava il TSO, nel rispetto dei diritti della persona e della sua dignità, rifiutando insomma atteggiamenti che seguano le vie spicce».

Sempre con riguardo alla informazione, la già ricordata legge n. 119/2017 ha previsto un momento di “confronto” con i genitori che abbiano primo tempore rifiutato la vaccinazione obbligatoria, e la Corte Costituzionale n. 5/2018 ha valutato con favore questo approccio: “(..) nel nuovo assetto normativo, basato, come si è detto sull'obbligatorietà (giuridica), il legislatore in sede di conversione ha ritenuto di dover preservare un adeguato spazio per un rapporto con i cittadini basato sull'informazione, sul confronto e sulla persuasione: in caso di mancata osservanza dell'obbligo vaccinale, l'art. 1 comma 4, d.l. n. 73/2017, come convertito, prevede un procedimento volto in primo luogo a fornire ai genitori (o agli esercenti la potestà genitoriale) ulteriori informazioni sulle vaccinazioni e a sollecitarne l'effettuazione. A tale scopo, il legislatore ha inserito un apposito colloquio tra le autorità sanitarie e i genitori, istituendo un momento di incontro personale, strumento particolarmente favorevole alla comprensione reciproca, alla persuasione e all'adesione consapevole. Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative previste, peraltro assai mitigate in seguito agli emendamenti introdotti in sede di conversione» (Corte Cost. n. 5/2018).

Vale infine la pena segnalare il provvedimento (ordinanza cautelare) n. 133/2018 con cui il T.A.R. di Brescia ha considerato il colloquio con i genitori previsto dalla l. n. 119/2017 come presupposto ineludibile ai fini della vaccinazione stessa, ragion per cui ha ritenuto di sospendere, medio tempore (in attesa della fissazione dell'incontro da parte della ASL), l'efficacia del provvedimento avversato, ovverosia quello con cui il Comune aveva negato l'accesso del minore al nido.

Al di là delle specificità del caso, parrebbe dunque potersi trarre conferma dell'esistenza di un principio generale che non ammette che il trattamento obbligatorio sia disgiunto dal correlativo dovere di informazione.

b) Quali conseguenze in caso di omessa informazione (vaccini obbligatori)?

Sulla base delle osservazioni che precedono non ci sembra azzardato ritenere che il dovere di informare sia addirittura speculare rispetto a quello di sottoporsi alla somministrazione, e lo condizioni, rappresentandone l'altra faccia, il rovescio della medaglia.

Si potrebbe allora sostenere che l'obbligo vaccinale perda addirittura la propria cogenza e non sia quindi sanzionabile laddove l'interessato, giunto all'apposito hub, rifiuti l'iniezione e se ne vada perché il medico non intende comunicargli il tipo di farmaco utilizzato e le possibili conseguenze /rischi. In questo caso verrebbe forse meno il presupposto che legittima l'imposizione del trattamento (non potendosi accettare l'idea di una procedura sanitaria sulla persona “al buio”).

Resterebbe però da chiedersi cosa accada nella diversa ipotesi in cui il soggetto si sia sottoposto alla vaccinazione senza aver ricevuto la preventiva (doverosa) informazione, in particolare senza essere stato messo al corrente della esistenza di (seppur rare) complicanze, poi concretamente verificatesi. Potrebbe qui esserci spazio per un risarcimento del conseguente danno biologico?

A noi pare che la risposta debba essere negativa.

Premesso che il danno non può essere in re ipsa, Cass. 11 novembre 2019 n. 28985 (tra le cd. sentenze di San Martino-bis) ha sottolineato (nel passaggio di cui fanno parte i punti a), b) e c della motivazione), che ai fini del risarcimento «il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico (..)».

Il principio postula, ovviamente, che l'interessato possa “legittimamente” rifiutare/ scegliere diversamente.

A conferma di ciò si consideri per es. che, come noto, in caso di “nascita indesiderata” (laddove la gestante non sia stata informata delle malformazioni del feto), vi è sì spazio per il risarcimento del danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, a condizione però che la madre provi che (al tempo della omessa colposa diagnosi) vi sarebbero state le condizioni di legge per abortire e che la stessa avrebbe esercitato tale diritto (Cass. 15 gennaio 2021, n. 653 richiama l'orientamento consolidato secondo cui occorre verificare «che risultino integrate tutte le condizioni per praticare l'interruzione della gravidanza» ed altresì «accertare, alla stregua dei noti criteri individuati da questa Corte»).

Ancor più nel dettaglio Cass. SS.UU. 25767/2015 precisa: «Occorre però che l'interruzione sia legalmente consentita - e dunque, con riferimento al caso in esame, che sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna - giacché, senza il concorso di tali presupposti, l'aborto integrerebbe un reato; con la conseguente esclusione della stessa antigiuridicità del danno, dovuto non più a colpa professionale, bensì a precetto imperativo di legge».

Nel caso in cui, invece, risulti che non vi erano i presupposti per l'interruzione della gravidanza, la condotta colposa del medico diventa causalmente irrilevante (perché la madre non avrebbe potuto in iure scegliere diversamente).

Venendo allora al nostro tema, ci sembra importante sottolineare un punto: quando il trattamento è obbligatorio non c'è spazio per una libera opzione; in altri termini, non si può dire che, ove informato, l'interessato avrebbe potuto “legittimamente decidere di astenersi”. Il rifiuto si atteggia qui come violazione di un obbligo giuridico (sanzionato dall'ordinamento con una multa e con altre ripercussioni ad es. in ambito lavorativo), e non come esercizio di un diritto.

E non avrebbe senso riconoscere un risarcimento del danno per aver perso la possibilità di commettere un illecito.

Del resto, è la stessa Corte Costituzionale 18 aprile 1996, n. 118, ad aver precisato, richiamando i propri precedenti (e in particolare la decisione n. 307 del 1990) quanto segue: «(..)in nome del dovere di solidarietà verso gli altri è possibile che chi ha da essere sottoposto al trattamento sanitario (o, come nel caso della vaccinazione antipoliomielitica che si pratica nei primi mesi di vita, chi esercita la potestà di genitore o la tutela) sia privato della facoltà di decidere liberamente» (purché, prosegue la Corte, «si predisponga, per quanti abbiano ricevuto un danno alla salute dall'aver ottemperato all'obbligo del trattamento sanitario, una specifica misura di sostegno consistente in un equo ristoro del danno»).

Nell'imporre la vaccinazione, è lo Stato ad aver già valutato (sulla base delle migliori conoscenze scientifiche del momento) la sicurezza e i rischi/benefici di quel farmaco (che comunque per essere immesso in commercio necessita delle autorizzazioni da parte delle Autorità competenti); e ha deciso, in ragione del contemperamento tra interesse individuale e pubblico, di renderne obbligatoria la somministrazione, senza che vi sia margine per un “diritto di scelta” (salva l'ipotesi delle esistenza di controindicazioni di cui al comma 2 del medesimo art. 4-quater, di fronte alle quali “L'obbligo di cui al comma 1 non sussiste (..).

Uno spazio di responsabilità potrebbe, semmai, residuare ove mai dovesse risultare che il Ministero della Salute ha agito senza ponderazione (si pensi alla ipotesi in cui vi fossero già evidenze scientifiche che dimostravano la tossicità di un certo preparato): qui potrebbe trovare applicazione (ove ne ricorrano i presupposti) l'art. 2043 c.c. (vd. infra).

Tornando all'esempio di partenza (all'hub vaccinale Tizio non è stato informato del tipo di farmaco che gli è stato poi iniettato e dei “rischi”), una volta esclusa la possibilità di un risarcimento del danno biologico “da complicanza” (salvo restando il diritto all'indennizzo previsto dalla legge), potrebbe però, forse, ipotizzarsi un “pregiudizio da sorpresa” perché la persona non è stata previamente messa al corrente del possibile (grave) effetto collaterale poi verificatosi, ed è rimasta scioccata.

Vi sono infatti alcune sentenze, anche recenti, in cui si afferma che il risarcimento del danno da impreparazione prescinderebbe dalla necessità di provare il rifiuto.

Così per es. Cass. 16 marzo 2021 n. 7385 ammette il risarcimento del “danno da impreparazione” pur nell'ipotesi in cui manchi la prova che la paziente, se informata, avrebbe “fatto scelte diverse” sul percorso delle cure/ dei trattamenti (nel caso di specie si trattava di colposa omessa diagnosi di malformazione del nascituro; la madre non aveva provato che, ove edotta delle anomalie del feto, avrebbe abortito; tuttavia – osserva la Corte - la stessa avrebbe potuto prendere cognizione della realtà ex ante e “programmare” di conseguenza la propria vita per adeguarla alle future esigenze del nato). Nello stesso senso si veda anche Cass. 25 giugno 2019, n. 16892 in De Jure, con nota di E. Emiliozzi “Malformazione fetale non diagnosticata: quali danni?”, in Diritto di famiglia e delle persone, fasc. 1, 2020, 162).

In direzione contraria però si esprimono altre decisioni: Cass. 16 novembre 2020, n. 25875, nel ribadire l'orientamento definitosi con Cass. 28985/2019 (tra le decisioni di San Martino-bis), nega il risarcimento del danno per lesione del diritto di autodeterminazione (anche sotto il profilo dello shock) in un caso in cui la paziente, sottopostasi ad intervento abortivo cui era seguita la perdita della capacità di procreare (non per colpa dei sanitari, trattandosi di complicanza non prevenibile), non aveva provato che, se informata di detto rischio, non si sarebbe sottoposta al trattamento.

Altro e diverso discorso riguarda, poi, l'anamnesi: non pare possa esservi dubbio sul fatto che, al cospetto della vaccinazione obbligatoria introdotta dall'art. 4-quater del d.l. n. 44/2021, il medico debba comunque chiedere al paziente se soffre di determinate patologie che potrebbero costituire “controindicazioni”.

Del resto, il testo dell'art. 4-quater recita: «2. L'obbligo di cui al comma 1 non sussiste in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale o dal medico vaccinatore, nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2; in tali casi la vaccinazione può essere omessa o differita. L'avvenuta immunizzazione a seguito di malattia naturale, comprovata dalla notifica effettuata dal medico curante, determina il differimento della vaccinazione».

Se il compito di attestare le controindicazioni viene rimesso al medico vaccinatore (oltre che a quello di base), pare implicito che egli abbia un obbligo di controllo circa la sussistenza di un possibile pericolo per la salute (la cui violazione lo esporrebbe verosimilmente a responsabilità per i danni conseguenti).

È quindi sulla base di questa verifica che il sanitario potrà stabilire se il vaccino può o meno essere somministrato. Ma questa indagine attiene alla buona e corretta “diagnosi”, o comunque ad una attività che viene ancora prima della “informazione” e postula appunto la individuazione delle circostanze ostative al trattamento. Tale passaggio dovrebbe quindi essere adeguatamente documentato attraverso la compilazione di un apposito modulo (questionario anamnestico).

L'indennizzo in caso di danni da vaccino

Nell'ambito del dibattito generato dalla introduzione dell'obbligo non sembra sia stata data la necessaria evidenza ad un aspetto che, invece, assume un ruolo centrale, perché “completa” quel patto di solidarietà a cui la Consulta ha fatto più volte riferimento.

Ci riferiamo al fatto che già oggi l'ordinamento riconosce una forma di tutela a chi abbia riportato danni in conseguenza della vaccinazione.

L'art. 1, comma 1, L. del 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati) stabilisce espressamente che «chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge».

A propria volta, l'art. 1 della l. n. 229/2005 (Disposizioni in materia di indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie) riconosce un ulteriore indennizzo che si aggiunge a quello già previsto dalla legge del 1992. L'art. 3 della l. n. 229/2005 stabilisce però che: «1. I soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie che usufruiscono dei benefìci di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, aventi in corso contenziosi giudiziali, ai sensi della medesima legge, in qualsiasi stato e grado del giudizio, ivi compresa la fase esecutiva, i quali intendono accedere ai benefìci previsti dalla presente legge, debbono rinunciare con atto formale alla prosecuzione del giudizio. 2».

Questo sistema di tipo indennitario (l. n. 210/1992 e L. l. n. 229/2005) prevede dunque l'erogazione di determinati sussidi a favore delle persone che abbiano riportato lesioni o infermità per effetto della vaccinazione.

Le ragioni poste a fondamento di tale riconoscimento riposano sulla necessità di operare un bilanciamento tra il vantaggio che deriva alla collettività ed il sacrificio del singolo, nell'ottica del dovere di solidarietà: «In un contesto di irrinunciabile solidarietà, del resto, la misura indennitaria appare per se stessa destinata non tanto, come quella risarcitoria, a riparare un danno ingiusto, quanto piuttosto a compensare il sacrificio individuale ritenuto corrispondente a un vantaggio collettivo: sarebbe, infatti, irragionevole che la collettività possa, tramite gli organi competenti, imporre o anche solo sollecitare comportamenti diretti alla protezione della salute pubblica senza che essa poi non debba reciprocamente rispondere delle conseguenze pregiudizievoli per la salute di coloro che si sono uniformati» (Corte Cost. 107/2012).

Sempre la Consulta (Corte Cost., 18 aprile 1996, n. 118) ha avuto modo di sottolineare, richiamando i precedenti (e in particolare la decisione n. 307 del 1990) che: «(..)in nome del dovere di solidarietà verso gli altri è possibile che chi ha da essere sottoposto al trattamento sanitario (o, come nel caso della vaccinazione antipoliomielitica che si pratica nei primi mesi di vita, chi esercita la potestà di genitore o la tutela) sia privato della facoltà di decidere liberamente. Ma nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri. La coesistenza tra la dimensione individuale e quella collettiva della disciplina costituzionale della salute nonché il dovere di solidarietà che lega il singolo alla collettività, ma anche la collettività al singolo, impongono che si predisponga, per quanti abbiano ricevuto un danno alla salute dall'aver ottemperato all'obbligo del trattamento sanitario, una specifica misura di sostegno consistente in un equo ristoro del danno».

Particolarmente suggestiva è la decisione della Corte Costituzionale 18 aprile 1996, n. 118) che pone in luce la ineludibilità di una “scelta tragica”, con riferimento al fatto che, seppur in rari casi, il vantaggio della collettività può comportare il sacrificio dei singoli (in relazione agli “effetti collaterali” del trattamento): «(..) può accadere che il perseguimento dell'interesse alla salute della collettività, attraverso trattamenti sanitari, come le vaccinazioni obbligatorie, pregiudichi il diritto individuale alla salute, quando tali trattamenti comportino, per la salute di quanti ad essi devono sottostare, conseguenze indesiderate, pregiudizievoli oltre il limite del normalmente tollerabile. Tali trattamenti sono leciti, per testuale previsione dell'art. 32, comma 2, della Costituzione, il quale li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata da questa Corte, nella sent. n. 258 del 1994, con l'esigenza che si prevedano ad opera del legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte a evitare il rischio di complicanze. Ma poiché tale rischio non sempre è evitabile, è allora che la dimensione individuale e quella collettiva entrano in conflitto».

Nel caso di specie veniva in linea di conto la vaccinazione antipoliomielitica che comportava un rischio di contagio, preventivabile in astratto - perché statisticamente rilevato –, anche se non era in concreto prevedibile la platea dei soggetti ad esso “esposti”.

La Corte osserva in merito che «In questa situazione, la legge che impone l'obbligo della vaccinazione antipoliomielitica compie deliberatamente una valutazione degli interessi collettivi ed individuali in questione, al limite di quelle che sono state denominate "scelte tragiche" del diritto: le scelte che una società ritiene di assumere in vista di un bene (nel nostro caso, l'eliminazione della poliomielite) che comporta il rischio di un male (nel nostro caso, l'infezione che, seppur rarissimamente, colpisce qualcuno dei suoi componenti). L'elemento tragico sta in ciò, che sofferenza e benessere non sono equamente ripartiti tra tutti, ma stanno integralmente a danno degli uni o a vantaggio degli altri. Finché ogni rischio di complicanze non sarà completamente eliminato attraverso lo sviluppo della scienza e della tecnologia mediche - e per la vaccinazione antipoliomielitica non è così -, la decisione in ordine alla sua imposizione obbligatoria apparterrà a questo genere di scelte pubbliche».

La situazione non sembra certo paragonabile a quella attuale, considerato che gli “eventi avversi” collegabili alla somministrazione dei vaccini anti Covid-19 parrebbero di “minore impatto” (si veda il Rapporto sulla sorveglianza dei vaccini Covid, AIFA.gov.it) rispetto a quelli antipolio (da somministrazione del tipo “Sabin”).

Ciò che va rimarcato – e che appunto sembra perdersi nella polifonia confusa delle reazioni critiche– è che l'obbligo introdotto dall'art. 4 quater trova già il suo “pendant” nella previsione di un indennizzo per il caso in cui si verifichino serie “complicanze” in conseguenza della somministrazione.

Va comunque sottolineato che, come più volte chiarito dalla Consulta (Corte. Cost., 18 aprile 1996, n. 118), l'indennizzo previsto dalla legge è «dovuto per il semplice fatto obiettivo e incolpevole dell'aver subìto un pregiudizio non evitabile, in un'occasione dalla quale la collettività nel suo complesso trae un beneficio», indipendentemente dal risarcimento in senso proprio che potrà eventualmente essere richiesto dall'interessato, ove ricorrano le condizioni previste dall'art. 2043 c.c.

Nella stessa sentenza la Corte ha richiamato altresì i principi generali osservando che «mentre la tutela contro l'illecito predisposta dalla norma menzionata ha necessariamente effetti risarcitori pieni anche del danno alla salute in quanto tale - secondo la "fermissima" giurisprudenza di questa Corte (..) , non altrettanto è per l'indennizzo in questione, il quale prescinde dalla colpa e deriva dall'inderogabile dovere di solidarietà che, in questi casi, incombe sull'intera collettività e, per essa, sullo Stato. Si tratta di una misura che, pur non potendo essere irrisoria e - come anche ha precisato la suddetta sentenza (sent. n. 307 del 1990) - pur dovendo tenere conto di tutte le componenti del danno stesso, ha natura equitativa».

Occorre peraltro evidenziare che al fine di ottenere i benefici previsti dalla legge l'interessato deve pur sempre provare (non la colpa, da cui si prescinde del tutto ma) il nesso causale tra trattamento e pregiudizio patito (sia consentito rinviare a M. Hazan – D. Zorzit, Tutele azionabili nei confronti del Ministero della Salute per danni da vaccinazione anti Covid, Ridare.it, 6 settembre 2021).

La Cassazione sembra attenersi ad un criterio piuttosto rigoroso, ancorato alle evidenze scientifiche. Si veda per es. Cass. 25 luglio 2018 n. 19699, che conferma il rigetto della domanda di indennizzo ex l. n. 210/1992 presentata dal genitore di un bambino affetto da autismo per difetto di prova del nesso. La Corte richiama il proprio orientamento (Cass. 17 gennaio 2005, n. 753, 29 dicembre 2016 n. 27449) secondo cui «la prova a carico dell'interessato ha ad oggetto, a seconda dei casi, l'effettuazione della terapia trasfusionale o la somministrazione vaccinale, il verificarsi dei danni alla salute e il nesso causale tra la prima e i secondi, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica» (nello stesso senso Cass. 2684/2017; Cass. 18358/2017; Cass, 29583/2017).

Vale la pena ricordare, infine, che la Corte Costituzionale ha in più occasioni “esteso” l'applicazione dell'indennizzo anche alle vaccinazioni “raccomandate” (si veda, M. Hazan e D. Zorzit, Tutele azionabili nei confronti del Ministero della Salute per danni da vaccinazione anti Covid, cit.).

Certo, di tali possibili interventi solidaristici e indennitari potrebbe esser data maggiore evidenza, offrendone più accurata notizia informativa ai cittadini e placando polemiche talvolta pretestuose. Il tutto, magari, anche attraverso un intervento normativo che confermi a chiare lettere che tutte le vaccinazioni anti Covid rientrino tra i casi di tutela offerta dalla legge n. 210/1992.

La responsabilità del Ministero della Salute per “vaccini pericolosi”

Come più volte sottolineato dalla stessa Corte Costituzionale (Corte Cost., n. 258/1994, Corte Cost. 307/1990), la previsione della tutela indennitaria prescinde da quella risarcitoria, la quale «trova applicazione tutte le volte che le concrete forme di attuazione della legge impositiva del trattamento o di esecuzione materiale di esso non siano accompagnate dalle cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l'arte prescrivono in relazione alla sua natura» (sulla base dei titoli soggettivi di imputazione e con gli effetti risarcitori pieni previsti dall'art. 2043 c.c.: Corte Cost. n. 307/1990).

La giurisprudenza di legittimità (Cass. 27 aprile 2011, n.9406 ; Cass. 2 aprile 2014, n. 7702) ha definito i presupposti per l'affermazione della responsabilità del Ministero della salute (nel caso di specie veniva in linea di conto la vaccinazione contro la poliomielite), escludendo anzitutto che la fattispecie possa inscriversi entro il paradigma dell'art. 2050 cc., poiché «rilevante, a tal fine, è che il Ministero — sotto questo profilo — non svolge in concreto attività imprenditoriale in relazione all'acquisto e distribuzione di prodotto immunizzato antipolio, ma soltanto di controllo e vigilanza a tutela della salute pubblica».

La Cassazione ha ritenuto applicabile l'art. 2043 c.c., ponendo particolare attenzione alla normativa (l. 13 marzo 1958, n. 296, art. 1) che attribuisce al Ministero della salute «il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica», di «sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche ad emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari».

Così individuati gli obblighi di condotta stabiliti dalla legge, la Corte ha sottolineato che, ai fini della affermazione della responsabilità, sempre che sia accertato il nesso, il giudice di merito deve condurre una precisa indagine che si articola su due livelli: occorre infatti stabilire: «a) se all'epoca della somministrazione era conosciuta o conoscibile — secondo le migliori cognizioni scientifiche disponibili — la pericolosità del vaccino; b) se alla stregua di tali conoscenze, il rispetto del fondamentale principio di precauzione imponesse di vietare tale tipo di vaccinazione, o di consentirla con rigorose modalità tali da minimizzare i rischi ad essa connessi».

Nei casi sottoposti al Supremo Collegio, la questione doveva essere riesaminata alla luce del fatto che nel corso del tempo la comunità scientifica aveva evidenziato gli effetti collaterali del vaccino inattivato “Sabin” (impiegato nel caso de quo), al quale era stato poi sostituito quello di “tipo Salk” (il quale ultimo, a differenza del primo, non presentava il rischio di “retromutazione genetica”, consistente nella possibilità che i virus attenuati si “riattivassero” durante il transito intestinale, tanto da provocare la malattia infettiva paralitica).

Sulla base delle coordinate tracciate dalla Cassazione, si potrebbe allora ipotizzare, in astratto, che la responsabilità del Ministero sorga allorquando esso non abbia tenuto conto delle specifiche indicazioni date dalla comunità scientifica all'esito di nuove scoperte o accertamenti (es. in merito alla inopportunità di utilizzare un certo vaccino per le persone al di sotto di una prefissata età, o in presenza di alcune specifiche patologie), o non abbia impartito direttive per imporre una adeguata anamnesi e per vietare la somministrazione del farmaco ai soggetti per i quali esso doveva ritenersi controindicato (per approfondimenti sul concetto di pericolosità e di precauzione sia consentito rinviare a D. Zorzit, La responsabilità del Ministero della Salute da “vaccino pericoloso”: spunti di rilettura negli attuali scenari dell'epidemia da Covid, in Danno e Responsabilità n. 6/2021, 738).

Ma al di là dei requisiti soggettivi (colpa), occorrerebbe comunque dimostrare il nesso (e quindi provare, in termini di “più probabile che non” che quella determinata patologia è insorta proprio per effetto della inoculazione del farmaco “X”; onere che potrebbe risultare non particolarmente agevole allorquando siano astrattamente configurabili anche eziologie diverse).

Con riguardo ai vaccini anti Covid-19, pare a chi scrive che – almeno stando alle attuali evidenze scientifiche, corroborate dalla straordinaria mole di dati raccolti dopo i milioni di dosi somministrate in tutto il mondo – non sembra (al di là di specifici casi che potrebbero eventualmente presentarsi) che si possano profilare, almeno in termini generali, i presupposti minimi – per come delineati dalla giurisprudenza - per una responsabilità del Ministero ai sensi dell'art. 2043 c.c.

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